In memoria di Salvatore Veca
La notizia della scomparsa di Salvatore Veca, della cui malattia sapevo ma non nei dettagli, mi ha profondamente colpito e rattristato. Incontrai per la prima volta Salvatore Veca nella breve parentesi in cui insegnava a Bologna, ed io ero un giovane laureato che trascorreva un periodo di studio con Umberto Eco. Ma passarono due decenni abbondanti prima che lo reincontrassi, negli anni Novanta, dentro la filosofia politica italiana profondamente trasformata anche, fra l’altro, per opera sua. A quel punto era nella sua piena maturità, aveva cambiato il quadro culturale italiano introducendovi la filosofia politica normativa di John Rawls, ma non solo. Aveva anche – come è stato ampiamente ricordato – stimolato e promosso la recezione di autori come Nozick, Walzer, Williams, Nagel. Io studiavo filosofia già da prima di questa stagione, e negli anni fra il 1970 e il 1975 tutto il fermento culturale, le novità da comprare e discutere, erano distribuite fra strutturalismo e post-strutturalismo francese e poi la prima generazione della Scuola di Francoforte, con l’aggiunta del giovane Habermas di Conoscenza e interesse, tradotto tempestivamente. Ma dell’esistenza di Una teoria della giustizia(1971) non si aveva la più pallida idea. Questa era l’Italia di allora.
Se quella proposta filosofica, altrove al centro di accesi dibattiti, è entrata nelle coordinate culturali di questo paese lo si deve all’intuizione di Salvatore Veca il quale, accogliendo prontamente il suggerimento di Sebastiano Maffettone e Marco Mondadori, trasformò la traduzione di un grande libro nella brillante operazione di porre sul tavolo – un tavolo affollato, è bene ricordarlo, da contributi sul rapporto fra strutturalismo e marxismo, sui marxismi non ortodossi, sulla dialettica – un nuovo stimolante paradigma, destinato a un’ulteriore cruciale evoluzione con Liberalismo politico, la cui edizione italiana apparve più tardi a sua cura.
Veca ha anche introdotto e tenuto sempre fede a un modo di essere intellettuale pubblico, radicato nella sua Milano progressista, diverso dalle tonalità oracolari, narcisistiche, esibizioniste, oppure partigiane che contraddistinguono spesso l’intellettuale pubblico italiano nell’epoca, diciamo, della sua riproducibilità mediatica. Il suo era un modo pacato, gentile, civile, con una passione per l’argomentazione ragionevole – come se là fuori ci fosse veramente un pubblico che vaglia ragioni e non si schiera in opposte tifoserie. E il “migliorismo”, che da lui mutuò il termine eponimo, ne traduceva lo stile dentro la sinistra più spiccatamente di partito, creando una fertile continuità fra una politica e una filosofia entrambe progressiste, di cui oggi si soffre notevolmente la mancanza.
Era generoso e supportive nei confronti dei più giovani. Ricordo la passione con cui prese parte e contribuì a un convegno su “L’integrazione delle società complesse e il rinnovamento del liberalismo”, che avevo organizzato a Roma nel 1997, e soprattutto il clima di effervescenza intellettuale e stimoli critici che trovai poco più tardi al Seminario Permanente di Teoria Politica della sua Facoltà di Scienze Politiche a Pavia, da lui presieduto. Questa sua capacità di seguire un filo argomentativo complesso ma mai oscuro, derivatagli dalla frequentazione della filosofia anglofona, non necessariamente “analitica”, è stata per me un esempio da seguire costantemente. Risaltava per contrasto ogni qualvolta mi trovassi in quei contesti nostrani in cui la discussione filosofica sembra consistere nel citare pagine bellissime di autori carissimi al locutore, e l’eccellenza è precipuamente identificata con l’accostamento audace, la battuta fulminante, il dettaglio erudito.
Negli anni in cui ero presidente della SIFP Salvatore mi era sempre vicino con consigli e riflessioni da collega più senior: aveva un grande senso delle istituzioni, che non diventava mai retorico, ampolloso, né mai scadeva in atteggiamenti “anti” o nel conformismo dell’anticonformismo.
Ma voglio ricordare anche che la sua mente spaziava al di là dei confini della filosofia politica. Ne Il senso della possibilità. Sei lezioni (2018), riprendendo e sviluppando le tesi di Dell’incertezza (1997) e poi dei successivi L’idea di incompletezza (2011) e L’immaginazione filosofica e altri saggi (2012), Veca ha esplorato le modalità, ovvero il modo in cui il mondo “ci riguarda”, lungo un sentiero dai cui margini scorgiamo il duello di certezza e incertezza. Ci ha insegnato che stante la insostenibilità umana di mondi possibili fatti di sola certezza o di sola incertezza, ciò che costituisce il bene per noi è “un equilibrio provvisorio fra certezza e incertezza”. Lungo questo sentiero ci vengono incontro le figure dell’“esploratore di connessioni” e del “coltivatore di memorie”, scorgiamo il paradigma dell’incompletezza e ci disponiamo all’ “elogio del cambiamento”. Nell’ultima tappa del suo viaggio attraverso le modalità, Veca ci conduce a riconoscere un aspetto di situatezza insito nella relazione di “accessibilità” fra mondi possibili. Infiniti mondi possibili possono darsi, ma noi prendiamo coscienza solo di quelli che sono accessibili a noi: “noivediamo il mondo possibile dal nostro”. Ho imparato da lui a ripensare lo standard rawlsiano de “il più ragionevole per noi” in questa più ampia chiave, e gli sono grato per avermici condotto per mano, oltre che per le tante conversazioni che hanno generato nuovi pensieri e che mi mancheranno per sempre.