Pandemia e Responsabilità Sociale d’Impresa
Uno degli aspetti più evidenti della crisi sanitaria globale collegata al Covid-19 riguarda l’impatto che questa sta avendo e avrà sui nostri sistemi economici e sugli assetti sociali preesistenti. La dimensione e la complessità della crisi lasciano presagire un crollo dei PIL nazionali e una crescita dell’indebitamento pubblico. Stando alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale, il P.I.L. globale diminuirà del 3% nel 2020. Negli Stati Uniti è prevista una restrizione del PIL pari al 5,9%, con esiti peggiori di quelli della crisi finanziaria del 2008. Per la sola Italia è prevista una contrazione del P.I.L del 9,1% per il 2020.[1]
Le conseguenze sociali di questa crisi economica rischiano di ridisegnare le nostre società e mettono a dura prova i nostri sistemi di giustizia sociale. Nei soli Stati Uniti, il paese più colpito dal virus, il numero di disoccupati ha raggiunto dieci milioni in poche settimane, dato questo destinato a salire nel breve periodo. In realtà più solide dal punto di vista delle garanzie sociali la situazione è meno drammatica, ma non meno preoccupante.[2] In Italia, ad esempio, l’occupazione ha registrato maggiore tenuta rispetto agli Stati Uniti, ma ciò soprattutto per effetto dei decreti di marzo e aprile a sostegno all’occupazione.[3] Il dato quindi potrebbe quindi essere suscettibile di variazione nel giro di qualche tempo. Ad esempio, molte imprese che hanno usufruito delle agevolazioni per la cassa-integrazione in deroga previste dai decreti potrebbero non riuscire a riassorbire i lavoratori nel medio periodo, sospingendo verso l’alto la curva dei disoccupati nel Paese. In tutto il mondo, il timore maggiore è che questa crisi sortisca l’effetto di acuire le divergenze sociali e si abbatta in maniera più violenta sulle fasce di popolazione più vulnerabili.
Se il tema di come stati e istituzioni finanziarie nazionali e internazionali debbano gestire la crisi pandemica e contrastarne gli effetti perversi, da un punto di vista economico e soprattutto sociale, è largamente discusso, minore attenzione è stata prestata agli attori non-pubblici e, in particolare, alle imprese e al ruolo che questi possono e devono avere nella risposta a questa emergenza sanitaria, economica e sociale.
I maggiori attori economici, le imprese, sono state investite dalla crisi sanitaria al pari di cittadini e istituzioni e, in molti casi, hanno dovuto sospendere le proprie attività produttive e riconvertirsi, laddove possibile, per sostenere i governi nazionali nella lotta al Covid-19. Tuttavia, un ruolo ancor più rilevante sembra esser quello affidato alle imprese nella cosiddetta “fase 2”, quella in cui si richiede di saper coniugare misure di contenimento della pandemia, prima fra tutte il distanziamento sociale, con la priorità della ripartenza economica.
Le imprese devono saper interpretare e gestire le misure volte al mitigamento degli effetti di breve e lungo periodo che questa crisi avrà sui nostri sistemi economici e sociali, assumendosi tuttavia in proprio la definizione di obblighi o di linee guida specifiche per far fronte alla crisi dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale. I governi nazionali sperano così nella ‘buona fede’ e nel senso di responsabilità del settore privato. Secondo alcuni,[4] questo vuoto normativo potrebbe avere l’effetto di disincentivare le imprese a prendere decisioni responsabili con l’effetto di vanificare tutti gli sforzi economici sostenuti dai governi per avviare la ripartenza economica.
A ben vedere, però, questa situazione può esser vista come un’opportunità nell’ottica della Responsabilità Sociale dell’Impresa (RSI). Con questa espressione si intende descrivere la relazione tra le imprese e la società. Al di là di una visione meramente descrittiva, l’RSI si pone l’obiettivo di applicare una prospettiva filosofico normativa a questa relazione. Quindi, la capacità delle imprese di rispondere in maniera sostenibile alle nuove sfide imposte dal Covid-19 si profila come un momento di profondo ripensamento proprio di quelle pratiche di sostenibilità e responsabilità sociale che ne avevano caratterizzato la vita prima della pandemia.
In effetti, sia in Italia che nel resto del mondo, le aziende già impegnate sul fronte della RSI hanno mostrato maggiore resilienza e capacità di reazione all’ emergenza sanitaria. Queste aziende sono riuscite, sin dalla prima fase, a mettere in atto misure volte a contenerne specialmente gli impatti sociali. Negli Stati Uniti, le catene di ristoranti Darden già a fine febbraio, quando l’epidemia iniziava a dilagare in Europa, avevano esteso le tutele collegate all’assenza per malattia a 190000 lavoratori, inclusi quelli che avevano contratti saltuari. In vista del possibile lock-down, la REI, un’azienda di accessori e abiti per sport all’aperto, aveva annunciato che avrebbe continuato a pagare gli stipendi a tutti i dipendenti durante il periodo di chiusura temporanea. A inizio marzo Microsoft e Cisco hanno garantito che avrebbero pagato i venditori durante la chiusura dovuta al Covid-19 indipendentemente dal fatturato che sarebbero riusciti a ottenere.[5] In Italia, alcune aziende, come la FCA, hanno deciso di interrompere le attività produttive già prima dell’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 11 marzo. L’interruzione della produzione è stata introdotta come misura straordinaria volta a tutelare la salute dei propri stakeholder.[6] Questa stessa decisione è stata presa in quei giorni da numerose aziende venete e friulane. Numerosi, inoltre, sono i casi di imprese che hanno agevolato e sostenuto i processi di flessibilizzazione del lavoro e smart-working su tutto il territorio già dalla prima metà di febbraio, quando la crisi appariva circoscritta a due sole regioni, Lombardia e Veneto. Infine, molte aziende hanno convertito o accelerato la propria produzione di materiali essenziali per la lotta al virus. I casi di Siare Engineering, azienda produttrice di ventilatori polmonari, che ha eliminato tutte le commesse estere, pari al 90% del proprio fatturato, per dedicarsi alla fornitura dei soli ospedali italiani, e di Di.Bi, azienda di tessuti tecnici per attività sportive, che ha convertito la produzione in mascherine in grado di contenere particelle di saliva, sono stati quelli più evocati dai media nel corso della prima fase dell’epidemia.[7]
La sfida ora è quella di identificare un nuovo ruolo per la RSI nella vita aziendale e di individuare strategie adeguate a rispondere alle sfide sociali, economiche e ambientali imposte dalla pandemia. Come si è detto, le imprese sono chiamate ad andare oltre a ciò che è richiesto dai governi o imposto dalla legge e questo è ancora più vero ai tempi del Covid-19. “Coronavirus is putting Corporate Social Responsibility to the Test” con questo titolo, un articolo apparso recentemente sull’Harward Business Review suggerisce che le imprese sono chiamate a ripensare ai propri obiettivi (purposes) sociali e ambientali per poter rispondere in maniera adeguata a questa crisi.[8]
La nuova variabile pandemica mette in discussione i trade-off tradizionalmente studiati in business ethics. Alcuni soggetti si ritrovano in posizione di maggiore e nuova vulnerabilità rispetto al passato: si pensi all’ ineguaglianza di genere e la speciale vulnerabilità delle donne con figli in questa crisi. Tuttavia, emergono anche questioni nuove, come l’esigenza di bilanciamento tra misure volte a ridurre l’impatto ambientale e la necessità di garantire il distanziamento sociale oppure tra la necessità di ridurre la produttività in risposta alle misure di distanziamento e quella di garantire sostegno ai lavoratori in situazioni di particolare disagio. Infine, occorre ripensare alle responsabilità che le imprese hanno nei confronti delle comunità, in senso più ristretto (si pensi al rapporto con le comunità locali) e in senso più ampio (si pensi alle responsabilità nei confronti dei governi nazionali e dei sistemi sanitari nazionali). Un tema ulteriore, poi, riguarda la cooperazione e il sostegno tra imprese in un momento in cui potrebbe emergere un significativo divario in termini di performance economica tra diversi settori produttivi e tra imprese di diverse misure. Si pensi alle imprese che operano in settori considerati essenziali per la lotta al Covid-19 e che non hanno subito lo stop produttivo, incrementando i propri fatturati nel bimestre marzo/aprile, rispetto alla situazione di imprese in settori, come quello dei trasporti, il turismo o la moda, che sono tra i più colpiti dalla crisi. L’imperativo è quello di ripensare alla RSI e alle sue strutture teoriche di riferimento per comprendere le dinamiche tra mercato e società e tra etica e business alla luce di questa nuova emergenza.
In questo saggio intendo soffermarmi su due questioni a mio parere importanti. Occorre, innanzitutto, mettere a fuoco il complesso quadro che le imprese si trovano ad affrontare nell’era della pandemia. In secondo luogo, ripensare alle strutture teoriche di riferimento della RSI per comprenderne limiti e possibilità per affrontare questa crisi. La prima sezione mette a fuoco i diversi trade-off di tipo etico che emergono nell’era della pandemia. La seconda riprende la teoria degli stakeholder, intesa come modello teorico di riferimento per la RSI.
Covid-19 e business: quali trade-off etici?
Sin dall’inizio della pandemia è stato evidente che un nodo fondamentale fosse quello di dare priorità alla tutela della salute di dipendenti, clienti, fornitori, e della comunità tout court rispetto agli obiettivi di produzione e profitto dell’impresa. Nella prima fase, che è coincisa con il lock-down imposto da molti governi, le imprese hanno avviato politiche di flessibilizzazione del lavoro, soprattutto attraverso lo strumento dello smart-working laddove possibile, e di distanziamento sociale nei comparti produttivi in cui era necessaria la presenza di personale. Per effetto del lock-down, comunque, interi comparti produttivi sono stati tenuti chiusi per alcune settimane e i governi nazionali, specialmente in Europa, hanno sostenuto le chiusure con misure volte a mitigarne le conseguenze economiche e sociali.
Tuttavia, come si è detto in precedenza, la fase di gestione e ripartenza impone di ripensare al nodo tutela della salute/profitto in termini ben più ampi. Nel mondo della politica, la magnitudine dell’emergenza e delle decine di migliaia di morti ha imposto a molti governi social-democratici il lock-down (fatta eccezione per la Svezia, che costituisce una significativa alternativa politica di risposta democratica alla crisi), semplificando così significativamente la portata di questa emergenza ad una questione di sanità pubblica. In altre parole, è stato posto al centro del dibattito politico il trade-off tra sicurezza sanitaria e libertà e priorità assoluta è stata assegnata al diritto alla salute, principio fondamentale delle nostre costituzioni democratiche. Non va trascurato, però, che questa versione -per così dire -‘singolare’ di libertà, in realtà implica una pluralità di libertà e diritti previsti dai nostri assetti costituzionali, tra cui la libertà di pensiero, associazione, culto, espressione, libertà economiche, diritto all’istruzione, diritto al lavoro e la garanzia di poter accedere a queste libertà e diritti su basi non discriminatorie.
Oggi, la ripresa politica delle nostre social-democrazie richiede necessariamente un allargamento del quadro di riferimento, che sia più coerente con la visione plurale di libertà e diritti che un paese democratico deve garantire ai propri cittadini. Il compito della politica è quello di ampliare questa visione semplificata e ‘singolare’ di libertà e assicurare che un ideale ampio di libertà e eguaglianza democratica sia riaffermato nelle nostre società. Parallelamente, il compito del settore non-pubblico, cioè delle imprese, è quello di (ri)affermare un modello di sviluppo economico in grado di garantire che i diversi aspetti della sostenibilità ambientale e sociale siano rafforzati. Ciò significa che le imprese, in supporto ai governi nazionali, debbano saper riconoscere i differenti trade-off che emergono in questa crisi e siano in grado di rappresentare gli interessi legittimi di tutti gli stakeholder in gioco.
Un tema centrale, in questa fase, è rappresentato dalla capacità delle imprese di sostenere i gruppi più vulnerabili. Nella categoria di vulnerabili in questa crisi rientrano diversi gruppi di stakeholder. Nel gruppo dei lavoratori, per esempio, bisogna riconoscere come prioritari gli interessi di coloro che si trovano temporaneamente in cassa integrazione, delle categorie protette e dei portatori di disabilità, degli inoccupati che oggi hanno maggiori difficoltà a trovare una nuova occupazione e, infine, delle donne. Il tema del “gender gap” si impone in maniera particolarmente evidente nel caso della crisi Covid-19. In uno studio pubblicato lo scorso aprile dal National Boureau of Economic Research, gli autori mostrano come, a differenza di altre recessioni avvenute in passato che avevano avuto un impatto maggiore sulla componente maschile, la crisi recessiva imposta dalla pandemia abbia implicazioni importanti soprattutto sull’occupazione femminile e più in generale sull’ eguaglianza di genere.[9] Questo fenomeno è dovuto principalmente a due ragioni. Per un verso, si tratta dell’effetto perverso che la chiusura di scuole, asili e di tutti i servizi rivolti alle famiglie hanno avuto sulla gestione degli obblighi domestici, ancora troppo spesso unicamente a carico delle donne. Il fenomeno è ancora più evidente nei contesti familiari in cui la donna è l’unica tutrice. Per altro verso, occorre considerare il fatto che questa crisi in particolare ha investito dei settori, come quello dell’educazione e della cura di bambini, in cui sono impiegate in prevalenza donne. Le imprese dovranno quindi ragionare su come ribilanciare le esigenze delle donne lavoratrici e mamme attraverso la flessibilizzazione dell’orario di lavoro, rendendo più stabili ed efficaci misure come quelle dello smart-working, e attraverso investimenti mirati volti a garantire sostegno alle famiglie. Più in generale, comunque, le imprese devono saper rispondere alle esigenze di tutti gruppi più vulnerabili tra i propri lavoratori, ottimizzando e incentivando lo smart-working ma anche avviando sistemi di prestiti al consumo e coadiuvando i governi nel sostenere politiche espansive rivolte all’occupazione. Le misure volte alla flessibilizzazione del lavoro, e in particolare lo smart-working, in ogni caso dovranno essere coerenti con la tutela delle pari opportunità tra lavoratori “smart” e quelli in sede.
Tuttavia, il tema della vulnerabilità non riguarda solo i lavoratori, ma anche altri stakeholders, tra cui fornitori, partners commerciali e comunità, che sono stati particolarmente colpiti dalla crisi. Le imprese dovranno mettere in atto strategie cooperative e di sostegno nei confronti di questi soggetti per garantire una ripresa sostenibile nel lungo periodo. Speciale attenzione dovrebbe poi esser rivolta alle comunità locali. Nei giorni scorsi, la decisione (poi ritrattata) di aziende come Adidas e H&M di non pagare gli affitti dei propri store in Germania beneficiando così della sospensione voluta dal governo per tutelare soprattutto autonomi, piccoli imprenditori e settori particolarmente colpiti dalla crisi, ha suscitato l’indignazione di tutto il mondo.[10] Il sostegno alle comunità e, più in generale, il sostegno ai governi in questa fase di ripartenza sarà cruciale per poter garantire una crescita effettivamente inclusiva.
Un altro tema centrale è quello ambientale. Dopo diverse settimane di lock-down in cui gli impatti delle filiere produttive sull’ambiente sono stati ridotti al minimo si rischia che la ripartenza possa far emergere un nuovo conflitto tra esigenze produttive, misure volte a contenere la propagazione del virus e gli obiettivi di sostenibilità ambientale di lungo periodo. Molto è stato detto in merito alla possibile connessione tra il fenomeno pandemico in corso e gli atteggiamenti poco responsabili del mercato nei confronti dell’ambiente naturale. Questo avrebbe in qualche misura a che fare sia con l’origine dell’epidemia che con la sua propagazione. Secondo alcuni studi, infatti, la epidemia sarebbe dovuta ad un fenomeno chiamato ‘zoonotic spillover’ che implica un passaggio del virus da un animale, in questo caso probabilmente un pipistrello, all’uomo.[11] Sarebbe perciò plausibile ritenere che questo ed altri fenomeni epidemici provocati dal passaggio animale-uomo siano favoriti dal forte impatto sull’ambiente e dalle conseguenti trasformazioni imposte dai modi di vita, sociali e produttivi, delle nostre società. Altri ipotizzano, inoltre, che la diffusione dell’epidemia risulti accelerata in aree caratterizzate da particolare concentrazione di CO2 nel particolato atmosferico, aree quindi dove maggiore è la concentrazione industriale e di altri fattori inquinanti, quali aeroporti, autostrade ad alta intensità di traffico. [12]
L’idea di fondo è che esista una connessione profonda tra mondo umano, nella sua dimensione sociale ed economica, e mondo naturale e che sia necessario tenerne conto, soprattutto quando pensiamo alla pandemia.[13] Una rinnovata attenzione all’ambiente e, quindi, al mondo naturale è senz’altro un modo, se non per contenere la crisi sanitaria, almeno per riequilibrare la relazione tra questi due mondi.[14] Emerge quindi la necessità di elaborare nuove strategie e soluzioni creative volte a ridurre gli impatti derivanti da mascherine, materiali plastici, guanti monouso, e di adottare misure volte al sostegno delle politiche delle municipalità o istituzioni locali in tal senso.
Riportare al centro della ripartenza economica il tema dell’ambiente, però, sembra complicare ulteriormente il quadro per imprese che si trovano a dover mediare tra l’obiettivo di crescita economica, il mitigamento degli impatti sociali della crisi e la priorità del distanziamento sociale. Quindi, ritornando alle semplificazioni, potrebbe sembrar plausibile tener in considerazione le preoccupazioni di natura economica e sociale, unitamente all’esigenza di mitigamento della propagazione del virus a discapito della preoccupazione per l’ambiente. Pensiamo, ad esempio, al caso di un’azienda che si trova a dover mediare tra l’esigenza di ripartenza economica e produttiva, quella di permettere ad una componente di personale di accedere ai luoghi di lavoro in sicurezza dal punto di vista della salute e quindi minimizzare per tutti i rischi di contagio, e al contempo favorire che i propri lavoratori possano raggiungere il lavoro minimizzando l’impatto ambientale. In un momento come quello attuale, dato l’alto rischio di contagio dovuto all’utilizzo di mezzi pubblici, l’azienda potrebbe decidere di uscire dall’impasse invitando i propri lavoratori a prendere l’automobile personale per recarsi nei luoghi di lavoro. Questa soluzione garantirebbe maggiore sicurezza sanitaria ma avrebbe un impatto sull’ambiente. Ancora, pensiamo a come dovrebbe gestire la ripartenza una compagnia aerea a cui è imposto di ridurre il numero di viaggiatori in ciascun aeromobile con il rischio di non riuscire a sostenere i costi di personale, manutenzione, carburante e tassazioni. Una possibile via d’uscita potrebbe sembrare quella di aumentare il numero di voli, per garantire un egual numero di viaggiatori, ma questo non garantirebbe efficienza dal punto di vista ambientale.
I dilemmi della crisi attuale ci impongono di ripensare al concetto di sostenibilità e responsabilità d’impresa così come è stato elaborato negli ultimi decenni. Sempre più spesso ci si richiama ad un’idea di responsabilità che riporti all’interno della definizione degli obiettivi sociali e ambientali delle imprese gli interessi di tutti gli stakeholder. Si ritiene che le imprese che saranno in grado di ridefinire in maniera appropriata i propri scopi in questa fase saranno anche quelle che supereranno questa emergenza, uscendone rafforzate. La crisi attuale ci impone di ripensare alle strutture teoriche di riferimento in business ethics e in particolare, alla teoria degli stakeholder, per comprendere se queste siano in grado di rispondere alle nuove sfide imposte nell’era del Covid-19.
Teoria degli Stakeholder e RSI nell’era del Covid-19
L’espressione stakeholder è oggi di uso comune nelle pratiche associate alla RSI ed è divenuto uno standard nel monitoraggio della performance sociale dell’impresa. Questa nozione, che introduce un nuovo soggetto in ambito economico, i portatori di interessi legittimi o stakeholder, è stata utilizzata per la prima volta da Edward Freeman nel 1984[15] per rispondere alla tesi prevalente in teoria economica,[16] generalmente definita come ‘minimalismo morale’, secondo cui la principale responsabilità delle imprese debba esser legata alla massimizzazione dei profitti. Al contrario, la visione incentrata sugli stakeholder sostiene che l’obiettivo (purpose) dell’impresa debba essere definito in relazione alle aspettative di tutti i suoi stakeholder, cioè tutti coloro che sono portatori di interessi legittimi nei suoi confronti. La tesi prevalente che insiste su un obiettivo specifico per l’impresa, cioè quello di creare profitto per i suoi shareholder, è sostituito dall’idea di massimizzazione del “valore” per tutti gli stakeholders.
Gli stakeholder sono definiti non solo come quei gruppi o individui che traggono vantaggio o svantaggio dalle attività dell’impresa, ma anche come portatori di determinati diritti. In tal senso, l’approccio fondato sugli stakeholder presenta l’impresa come un fitto reticolato di relazioni e obblighi reciproci di cui i managers devono tener conto nei propri processi decisionali. In tal senso, per determinare come un’impresa dovrebbe comportarsi in situazioni specifiche, occorre identificare ciascuno stakeholder e tutti gli interessi rilevanti in gioco. Nella sua formulazione tradizionale, il gruppo degli stakeholder include lavoratori, dirigenti, proprietari o shareholders, consumatori/clienti e comunità. Negli ultimi decenni, un importante dibattito in letteratura ha riguardato il problema dell’identificazione degli stakeholder. Disaccordo è emerso circa due versioni della teoria: una visione “ristretta” che pone al centro l’obiettivo di circoscrivere la natura degli obblighi e il tipo di soggetti di cui l’impresa debba tener conto si è contrapposta ad una “visione ampia” della teoria.[17] La questione dell’identificazione, difatti, si sovrappone a quella più marcatamente normativa relativa all’ideale di legittimità degli stakeholder e all’idea di “chi o cosa veramente conti”. Freeman e altri sostenitori della “versione ampia” hanno perciò fatto ricorso ad una distinzione interna all’ideale normativo di legittimità[18] per poter ampliare la lista degli stakeholder, sino ad includere governi, le associazioni non-profit, i media, le comunità di interesse o quelle virtuali di supporto, senza per questo rinunciare agli obiettivi pratici della teoria.[19]
Il ruolo svolto dagli stakeholder è duplice: per un verso le pretese di cui essi sono portatori costituiscono i limiti alla legittimità aziendale, nel senso che indicano lo scopo e la priorità dell’impresa stessa; per altro verso, il focus sugli stakeholder implica un rapporto di responsabilità e fiducia reciproca tra loro e l’impresa. In tal senso, la teoria degli stakeholder sostituisce la tradizionale visione di una relazione fiduciaria tra manager e shareholders, la ‘relazione d’agenzia’, in una relazione più complessa che include tutti gli stakeholder e lega il manager ad essi attraverso un vincolo multi-fiduciario.
Come più volte sostenuto da Freeman, l’approccio fondato sugli stakeholder è innanzitutto una teoria manageriale che ha come obiettivo quello di introdurre preoccupazioni etiche, concernenti le legittime aspettative di attori diversi i cui interessi sono in gioco, nelle decisioni manageriali. In questa visione, le decisioni del manager sono legittime e quindi giustificabili dal punto di vista morale, se rispettano l’obiettivo del bilanciamento tra i diversi interessi. In tal senso, la giustificabilità morale di tali decisioni non è assoluta e generalizzabile, piuttosto dipende fortemente dalle pratiche e dalle congiunture sociali ed economiche in cui l’impresa si trova ad operare. Questa teoria potrebbe esser definita come una forma di ‘liberalismo pragmatista’ [20] in quanto non impone di fornire risposte morali a tutto ma è fortemente ancorata al pluralismo che caratterizza le società contemporanee e alle esigenze pratiche della teoria manageriale. Al pari delle istituzioni pubbliche, le imprese dovrebbe esser intese come particolari schemi cooperativi fatti da persone e gruppi, gli stakeholder, sotto condizioni di equità. Quindi, la forma di giustificazione degli obiettivi dell’impresa dovrebbe esser tale da riflettere il carattere plurale dell’organizzazione. Il pragmatismo che caratterizza la teoria, però, non deve esser interpretato come relativismo morale, piuttosto suggerisce di risolvere i trade-off etici accordando priorità ad un principio generale di bilanciamento degli interessi di tutti i soggetti coinvolti.
La teoria degli stakeholder costruisce, dunque, un fitto reticolato di relazioni fiduciarie all’interno e fuori dell’impresa che vincola l’organizzazione verso i suoi stakeholder e viceversa. Si tratta di una teoria che potremmo definire ‘sistemico-relazionale’, che pone al centro degli obiettivi dell’impresa la ‘persona’. In tal senso, rappresenta un punto di riferimento teorico importante per rispondere alle multiple problematiche sollevate dalla crisi pandemica attuale. L’idea stessa di porre al centro la “persona” costituisce un antidoto potente alla meccanizzazione e tecnologizzazione dei processi produttivi, tipica dell’età moderna. L’impresa è ridisegnata nei termini di un’associazione tra uomini e donne che partecipano volontariamente ad un sistema cooperativo per il mutuo beneficio e ciò conferisce maggiore equilibrio tra le pretese legittime dei diversi soggetti, in una prospettiva di un mercato dal ‘volto umano. In effetti, la teoria fa riferimento -più o meno esplicito- ad una visione deontologica applicata al mercato, di derivazione kantiana, secondo cui le persone dovrebbero esser trattate come un fine e mai come un mezzo, e da ciò derivano gli obblighi fiduciari dei managers nei confronti dei vari stakeholder.[21]
Tuttavia, ciò che appare come il punto di forza della teoria, e cioè il focus sull’uomo e gli sforzi verso un’umanizzazione dell’impresa, potrebbe rivelarsi al contempo come un limite nell’era della pandemia in cui, come si è detto, emerge la necessità di ri-concettualizzare il rapporto tra mondo umano e mondo naturale. Un rischio, infatti, sembra essere connesso al fatto che la teoria, creata per ‘umanizzare’ il mercato attraverso l’introduzione dell’idea di stakeholder, possa rivelarsi eccessivamente antropocentrica, in un’era contrassegnata dalla necessità di favorire uno sviluppo sostenibile che tenga conto dell’ambiente come fine in sé.
In effetti, la relazione con l’ambiente costituisce un nodo importante nel dibattito sulla visione dell’impresa incentrata sugli stakeholder. In un articolo apparso nel 2002, Orts e Strudler avevano sollevato alcune perplessità in relazione all’ utilità di questa teoria per affrontare dilemmi di natura etica non strettamente collegati all’umano, come appunto le questioni ambientali. I due autori sostenevano che la teoria non è di grande aiuto per indicare ai manager come agire in relazione all’ambiente naturale, e specialmente, quando tale agire andrebbe giustificato in nome del valore intrinseco della preservazione di specie non-umane o dell’ambiente, ad esempio da una prospettiva estetica.[22] D’altra parte, i sostenitori della visione dell’impresa incentrata sugli stakeholder hanno più volte sottolineato il carattere non universale e limitato della teoria in questione. Prendendo a prestito la celebre espressione di J. Rawls di ‘dottrina comprensiva esaustiva’,[23] sostenitori della teoria hanno più volte chiarito il carattere non esaustivo di questa.[24]
Tuttavia, la preoccupazione per l’ambiente costituisce un aspetto centrale della responsabilità di un’impresa e Freeman stesso ha sollecitato maggiore sforzo teorico per integrare la questione ambientale nella teoria degli stakeholder. [25] In letteratura, è possibile rintracciare due modi diversi in cui le preoccupazioni ambientali sono state concettualizzate nella teoria. Un primo modo, tende a riconoscere l’ambiente come uno stakeholder ulteriore, i cui interessi legittimi andrebbero tenuti in conto al pari degli altri interessi degli stakeholder umani.[26] Per quanto suggestiva, questa ipotesi teorica solleva due problemi fondamentali. Innanzitutto, è difficile comprendere quali sarebbero gli ‘interessi in gioco’ di attori non-umani diversi, che includono diverse specie animate e con diverse esigenze ma anche specie non-animate. In tal senso una visione olistica di ambiente naturale potrebbe esser d’aiuto ma sarebbe in conflitto con l’obiettivo di integrare questo soggetto come stakeholder all’interno della teoria e quindi come portatore di interessi specifici. Più in generale, comunque, l’unico modo per rendere l’ambiente o il mondo naturale compatibile con la teoria sembrerebbe esser quello di ‘umanizzarlo’, in qualche misura, per renderlo compatibile con essa. In effetti, si muove proprio in questa direzione un secondo tentativo di concettualizzare determinate preoccupazioni ambientali all’interno della teoria degli stakeholder, quello elaborato da Phillips e Reichart.[27] Secondo questi autori, se è vero che all’ambiente va riconosciuto uno status morale indipendente, per altro verso ciò non è sufficiente a renderlo uno stakeholder legittimo. Sarebbe altresì possibile sostenere che preoccupazioni di tipo ambientale costituiscano un interesse legittimo e condiviso da diversi stakeholder e perciò dovrebbero esser tenute in conto nei processi decisionali del management. L’idea di fondo è che diversi stakeholder tendono, sempre più spesso, ad agire come portatori di interessi ambientali: le comunità locali hanno interesse specifico al mantenimento e alla preservazione dell’ecosistema in cui vivono e alla tutela delle generazioni future; i consumatori mostrano crescente interesse circa il rispetto di determinati vincoli ambientali da applicare alla filiera produttiva; i lavoratori sono sempre più sensibili ai temi dell’ambiente e sostenibilità e così via. Ciò suggerisce che ci sarebbe una base costituita da stakeholder umani per rappresentare e dare in qualche modo voce ‘politica’ al mondo naturale.
In conclusione, comunque la si costruisca, la teoria degli stakeholder tende a umanizzare il naturale. Oggi, in un’era in cui esigenze sociali, economiche e ambientali sono ulteriormente complicate dall’emergenza pandemica, potrebbe tuttavia rivelarsi cruciale per le imprese che i propri stakeholder, uomini e donne, siano in grado di interiorizzare e farsi portatori delle esigenze del mondo naturale. In fin dei conti, in un’era che è definita dall’intervento umano sul naturale, l’antropocene, un rinnovato equilibrio tra uomo e natura non può che passare per la capacità degli uomini di comprendere, rispettare e tutelare l’ambiente.
Questa riflessione è nata sulla base di alcune lezioni dedicate all’emergenza Covid-19 che ho tenuto nell’ambito del mio corso di Responsabilità Sociale d’Impresa della Luiss G. Carli. Ringrazio i miei studenti per aver sollecitato con entusiasmo ed interesse molti degli spunti contenuti in questo saggio.
[1] WORLD ECONOMIC OUTLOOK REPORTS, World Economic Outlook, April 2020: The Great Lockdown, IMF (April 2020), https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weo-april-2020
[2] In generale i dati previsionali relativi alla disoccupazione sono preoccupanti in Europa. Lo studio dell’IMF prevede per la sola Italia una disoccupazione in aumento del 2,7% entro l’anno. Sarebbero però Portogallo Spagna e Grecia i paesi dove l’aumento di disoccupazione potrebbe incidere di più. In generale, l’Eurozona vedrà salire il tasso di disoccupazione al 10,4%. Gianluca di Donfrancesco, “Fmi: recessione globale nel 2020 (-3%) e per l’Italia Pil in calo del 9%”, Il Sole24ore, 14 Aprile 2020, https://www.ilsole24ore.com/art/fmi-recessione-globale-2020-3percento-e-l-italia-pil-calo-9percento-ADWExyJ
[3] “Occupati, disoccupati e inattivi: ecco cosa dicono gli ultimi numeri sul lavoro”, Corriere della Sera, 1 maggio 2020, https://www.corriere.it/economia/aziende/20_maggio_01/occupati-disoccupati-inattivi-ecco-cosa-dicono-ultimi-numeri-lavoro-b04e0a24-8ba1-11ea-b0cd-a1732823ac8b.shtml.
[4] Si veda per esempio Lord, Phil and Saad, Lydia, “Tackling the Covid-19 Pandemic: the unsettling Role of Non-state Actors in Addressing Global Pandemic” (April 8, 2020). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3554436
[5] Aaron Nicodemus, “For some companies in the age of coronavirus, ethics pays” Compliance Week, Mar 17, 2020, https://www.complianceweek.com/ethics-and-culture/for-some-companies-in-the-age-of-coronavirus-ethics-pays/28625.article
[6]Roberto Orsi, “Emergenza Covid-19 le imprese alzano il livello di Responsabilità Sociale”, La Repubblica, 23 Marzo 2020, https://www.repubblica.it/economia/2020/03/23/news/emergenza_covid-19_le_imprese_alzano_il_livello_di_responsabilita_sociale-252046268/?ref=search
[7] “Emergenza Covid-19 le imprese alzano il livello di Responsabilità Sociale”, cit.
[8] Mark R. Kramer, “Coronavirus Is Putting Corporate Social Responsibility to the Test”, Harward Business Review, April 1, 2020. https://hbr.org/2020/04/coronavirus-is-putting-corporate-social-responsibility-to-the-test
[9] Titan M. Alon, Matthias Doepke, Jane Olmstead-Rumsey, and Michèle Tertilt (April, 2020) “The Impact of Covid-19 on Gender Equality” NBER Working Paper No. 26947, https://www.nber.org/papers/w26947.pdf
[10] Tonia Mastrobuoni, “Coronavirus, la Germania contro Adidas e H&M. I due colossi non pagano l’affitto”, La Repubblica, 30 Marzo 2020. https://www.repubblica.it/esteri/2020/03/30/news/coronavirus_la_germania_contro_adidas_e_h_m_i_due_colossi_non_pagano_l_affitto-252688993/
[11] Bonilla-Aldana DK, Dhama K, Rodriguez-Morales AJ (2020). Revisiting the One Health Approach in the Context of Covid-19: A look into the Ecology of this Emerging Disease. Adv. Anim. Vet. Sci. 8(3): 234-237
[12] Questa è l’ipotesi di studio di un gruppo di ricercatori provenienti da diversi Atenei italiani, Leonardo Setti, Fabrizio Passarini, Gianluigi De Gennaro, Pierluigi Barbieri, Maria Grazia Perrone, Andrea Piazzalunga, Massimo Borelli, Jolanda Palmisani, Alessia Di Gilio, Prisco Piscitelli, Alessandro Miani, (2020). “The Potential role of Particulate Matter in the Spreading of Covid-19 in Northern Italy: First Evidence-based Research Hypotheses” medRxiv 2020.04.11.20061713; doi: https://doi.org/10.1101/2020.04.11.20061713
[13] Si pensi alla tesi ormai assai diffusa riguardo all’intervento umano sul naturale suggerita dall’idea di antropocene. Si veda, sul complesso rapporto uomo-natura anche Sebastiano Maffettone, Il quarto Shock. Come un Virus ha Cambiato il Mondo, Luiss University Press, Roma, 2020.
[14] Si veda anche Biswaranjan Paital, (2020). “Nurture to nature via Covid-19, a self-regenerating environmental strategy of environment in global context”, Science of The Total Environment, Volume 729, 2020.
[15] Edward R. Freeman, Strategic Management: a Stakeholder Approach, Boston, Pitman, 1984.
[16] Friedman Milton “The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits”, New York Times Magazine, September 13, 1970
[17] Orts Eric & Alan Strudler, “Putting a Stake in Stakeholder Theory”, Journal of Business Ethics, 88: 605-615, 2009.
[18] Phillips ad esempio distingue due tipi di legittimità, “normativa” e “derivativa”, che corrispondono a due diversi tipi stakeholder. Gli stakeholder normativi sono quelli verso cui l’organizzazione ha più obblighi morali e, tipicamente, si tratta di lavoratori, azionisti o proprietari, clienti, fornitori, ossia tutti i soggetti che “accettano volontariamente i benefici di uno schema di cooperazione”. Gli stakeholder derivativi invece sono quei soggetti – che includono media, organizzazioni no-profit, ecc. – che possono acquisire una legittimità derivata, magari attraverso l’interazione con stakeholder normativi, e verso cui l’impresa ha degli obblighi diversi rispetto a quelli che ha nei confronti degli stakeholder normativi. Phillips, Robert, “Stakeholder Legitimacy”, Busienss Ethics Quarterly, 13(1): 25-41, 2003.
[19] Si veda ad esempio Edward Freeman, Laura Dunham e Jeanne M. Liedtka, “Enhancing Stakeholder Practice: A Particularized Exploration of Community”, Business Ethics Quarterly, 16(1): 3-32, 2006.
[20] Freeman Edward, “The Politics of Stakeholder Theory: Some Future Directions”, Business Ethics Quarterly, 4(4): 409- 421.
[21] Evan William & Edward Freeman, “A Stakeholder Theory of the Modern Corporation: Kantian capitalism. In T. L. Beauchamp and E. D. Bowie (eds.), Ethical Theory and Business, New Jersey: Prentice-Hall, 1993.
[22] Orts Eric & Alan Strudler “The Ethical and Environmental Limits of Stakeholder Theory”, Business Ethics Quarterly, 12(2), 215-233, 2002.
[23] Rawls, John, Liberalismo Politico, Torino: Piccola Biblioteca Einaudi, 2012.
[24] Phillips Robert, Edward Freeman e Andrew Wicks, “What Stakeholder Theory is not”, Business Ethics Quarterly, 13(4): 479-502, 2003.
[25] Freeman Edward, Jeffrey Harrison, Andrew Wicks, Dinhan Parmar, Simone de Colle, Stakeholder Theory the State of the Art, Cambridge: Cambridge University Press, 2010.
[26] Starik, Mark, “Should trees have managerial standing? Toward stakeholder status for non-human nature”, Journal of Business Ethics, 14: 207–217, 1995.
[27] Phillips, Robert A. and Reichart, Joel, “The Environment as a Stakeholder? A Fairness-Based Approach”. Journal of Business Ethics, 23:185-97, 2000.