La politica e la pandemia
1.
La drammatica vicenda della pandemia da Covid-19 ci obbliga a confrontarci con una pluralità di dilemmi, molti dei quali non sono di natura scientifica ma filosofica, che riguardano vari aspetti della nostra vita collettiva e che chiamano in causa sia la filosofia politica che la filosofia morale nel tentativo di individuare le migliori argomentazioni a favore di tesi talvolta contrapposte; un compito non semplice, anche perché il dibattito filosofico contemporaneo è spesso costruito, per così dire, sulle spalle dei giganti, utilizza cioè ampie e approfondite bibliografie riconducibili a ben delineate correnti di pensiero.
Il primo problema che sorge nell’affrontare i dilemmi da Covid-19 discende infatti dalla necessità di affidarsi, oltre che ai libri, ad articoli di giornali e riviste piuttosto che alle discussioni (spesso inconcludenti) dei programmi televisivi. La filosofia si trova cioè ad affrontare dilemmi che emergono in una fase che è del tutto nuova, di cronaca più che di storia, e con un supporto bibliografico carente; negli anni della crisi economico-finanziaria, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e culminata in Europa nel 2011-2012 con la crisi dei debiti sovrani, la situazione era diversa in quanto fin da subito gli studiosi hanno potuto far riferimento ad una corposa bibliografia che era scaturita dalla Grande Depressione e che era culminata in una serie di opere fondamentali scritte negli anni e nei decenni successivi, a partire da John Maynard Keynes fino alla più recente teoria dell’instabilità finanziaria di Hyman Minsky. Durante quella che non a caso è stata definita da Kenneth S. Rogoff la Seconda Grande Contrazione (seconda appunto alla Grande Depressione del 1929 e del decennio successivo), sono stati riscoperti testi fondamentali come la Storia delle Crisi Finanziarie di Charles P. Kindleberger, piuttosto che Il Grande Crollo di John Kenneth Galbraith. Eppure, nonostante la bibliografia fosse disponibile, ed anche copiosa, le scelte compiute dagli attori politici in quel periodo sembrarono esserne del tutto a digiuno, ed infatti vennero prese decisioni, politiche prima ancora che economiche, che contribuirono ad aggravare la situazione, come la decisione americana di far fallire Lehman Brothers, che fu la miccia che innescò la crisi, piuttosto che le politiche di austerità intraprese successivamente da Unione Europea e FMI nei confronti dei paesi ad alto debito, in primis la Grecia.
Oggi, almeno sul lato finanziario, la situazione sembra potersi svolgere in modo diverso, anche se l’ultima parola su questa crisi, che è nata come crisi sanitaria ma che si è tramutata subito dopo in crisi economica, spetterà agli storici che avranno il compito ingrato di mostrarci, ex post, quali sono state le politiche sbagliate e quali quelle giuste intraprese dai diversi soggetti decisori, in primis i governi nazionali.
La situazione si complica ulteriormente, sotto il profilo informativo, in quanto viviamo in un mondo di fake news, che ci circondano da ogni parte e che talvolta provengono anche da fonti che riterremmo affidabili. Questo è il maggior problema che emerge dal web e dalla conseguente esplosione dei mezzi di informazione nel nostro tempo, che porta ad un primo fondamentale dilemma filosofico che tocca la libertà di informazione, uno dei principi cardine delle moderne democrazie, forse il più importante di tutti e che va salvaguardato ad ogni costo, ma che nell’era del world wide web e dei social dovrebbe anche comportare una maggiore responsabilità individuale di chi costruisce notizie e informazioni e le diffonde sulla Rete con la conseguenza, anche qui, che stabilire come stanno veramente le cose diventa possibile spesso solo a posteriori, ad emergenza finita, quando ad occuparsene saranno gli storici e non più gli attori politici. Ma il problema principale che emerge dalle modalità comunicative attuali è che manca una seria ed approfondita discussione collettiva; per questo l’iniziativa della Sifp è doppiamente lodevole: anzitutto perché siamo inflazionati da talk show e informazioni troppo spesso orientate, in un senso o nell’altro; in secondo luogo perché una seria discussione pubblica dovrebbe poter avvenire dentro la cornice delle istituzioni universitarie, non sui social, ma queste hanno sospeso gran parte delle attività pubbliche, e quelle online danno giustamente la priorità all’insegnamento rispetto ai convegni e alle iniziative esterne. Il sito della Sifp può perciò avere la grande opportunità di divenire una sorta di agorà virtuale dove una seria discussione pubblica può essere ancora possibile.
2.
Questa lunga premessa metodologica non ci deve tuttavia distogliere dalla pluralità dei dilemmi filosofici che sono emersi in questa fase drammatica, a partire dalla necessità di limitare le libertà personali per arginare l’emergenza sanitaria. Una limitazione che è temporanea, legata all’emergenza in atto, ma che tuttavia è stata utilizzata da Paesi autoritari piuttosto che dalle cosiddette democrazie illiberali per ridurre ulteriormente gli spazi di autonomia degli individui. La stessa vicenda delle “app” per il tracciamento delle persone infette assume un significato completamente diverso, se a metterla in piedi sono Paesi come l’Italia o la Corea del Sud, piuttosto che la Cina o la Corea del Nord.
E per quanto riguarda le democrazie che illiberali non sono, ma che credono nel valore della libertà personale, il quesito fondamentale suona più o meno così: quanta limitazione alla libertà personale siamo disponibili ad accettare, e per quanto tempo, per evitare un’emergenza sanitaria? E siccome le democrazie liberali sono tali perché supportate da sistemi economici in grado di produrre reddito e ricchezza in quantità più che sufficiente ai bisogni dei propri cittadini, il secondo quesito riguarda la limitazione alle attività economiche: quanto e per quanto tempo siamo disponibili a sopportare il cosiddetto lockdown, le limitazioni alla libertà economica sempre al fine di scongiurare un’emergenza sanitaria? Le risposte a queste domande non sono univoche ma aprono un dibattito e richiedono approfondite riflessioni.
Alla premessa metodologica prima accennata seguono perciò considerazioni che riguardano in primo luogo argomenti di bioetica: Il coronavirus si è presentato fin dall’inizio con caratteristiche molto particolari, in quanto risparmia gran parte della popolazione ma colpisce pesantemente, e in modo esiziale, coloro che hanno patologie e soprattutto i più anziani. È un virus “demografico”, che non colpisce tutti in modo uguale, ma che discrimina profondamente, in base alla malattia, all’età e forse anche al sesso (sembra essere letale più per gli uomini che per le donne); e non è un virus che ci è arrivato sui barconi degli immigrati, ma con gli aerei frequentati da manager: non a caso, ha colpito fin da subito le zone più ricche e produttive. Statisticamente, però, il dato reale che alla fine conta, dal punto di vista dell’emergenza sanitaria, non sono i positivi, o gli infettati (più o meno asintomatici), ma coloro che il sistema sanitario non è riuscito a salvare, cioè i defunti: e non ha alcun senso pensare di poter paragonare il numero di decessi di questo periodo con quelli avvenuti nel 2019 o negli anni precedenti, perché il numero reale dei decessi da coronavirus quest’anno si sarebbe conosciuto solo se non ci fosse stato il lockdown. Con il lockdown, per fortuna, non si potrà mai sapere quanta gente sarebbe deceduta “con” o “per” coronavirus. Si può tentare, al massimo, un’analisi statistica di questo tipo su Bergamo e pochissimi altri focolai, e limitato a poche settimane: l’Istat ha appena elaborato uno studio in merito, che evidenzia un’Italia spaccata geograficamente in cui il virus insegue le aree più produttive del Paese e risparmia (per il momento) quelle economicamente meno sviluppate. Una seria riflessione potrà però essere fatta solo ex post, quando la crisi sarà definitivamente conclusa, col rischio che un’analisi di questo tipo, dal carattere necessariamente storico, possa concretizzarsi solo quando la gran parte dei cittadini avrà altro a cui pensare e poco interesse a ricordare questa fase da incubo.
Diverse ricerche peraltro sono già state compiute e sono disponibili in Rete, dalla Fondazione Hume all’Istituto Cattaneo all’ ASviS, l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibili che, partendo dall’Agenda 2030 dell’Onu, ha sollevato alcune interessanti problematiche che riguardano il ruolo del cambiamento climatico nel moltiplicarsi delle epidemie (non solo da Covid-19) e ha evidenziato come il crollo della mortalità nel periodo del lockdown per incidenti stradali (nell’intero 2018 le vittime sono state oltre 3.300 e quasi 243.000 i feriti, fonte http://dati.istat.it/) finirà con l’incidere sui dati effettivi, e quindi l’impatto stesso dei decessi “per” Covid potrebbe essere diverso da quello che emerge contando semplicemente il numero assoluto dei defunti. Ma la domanda che a mio avviso dovremmo porci, dal sapore vagamente marxiano, è: senza lockdown, senza limitazioni alle libertà personali e alle attività economiche, Bergamo (e Brescia) rappresentano quello che nel prossimo futuro potrebbe toccare a tutta Italia, oppure no? In un articolo, la rivista Internazionale prevedeva 200mila morti in più negli Stati Uniti come conseguenza delle politiche di Trump, e restano tuttora irrisolti i dubbi sui comportamenti del regime cinese, che all’inizio ha nascosto l’epidemia per ragioni che non sono ancora del tutto chiare e poi avrebbe sottostimato (il condizionale è d’obbligo, in quanto nelle dittature è sempre difficile il riscontro oggettivo dei dati) il dato reale sulle vittime, che sarebbero molte di più di quelle dichiarate. Sono tutte risposte che solo l’analisi storica potrà forse dare, in quanto è prematuro trarre oggi conclusioni quando la pandemia è in corso e non si sa come finirà (speriamo con terapie di cura sempre più efficaci e poi con la scoperta del vaccino). Il rischio è che il dibattito, una volta che l’epidemia sarà finita, si avviti sull’altissimo costo economico della fase emergenziale in rapporto al “relativo” numero di vittime e all’età media dei deceduti, “con” o “per” coronavirus (altra questione tuttora altamente controversa); i dati Istat aggiornati al 2018 ci dicono a titolo di esempio che in quell’anno sono morte in Italia 633.000 persone, nel 2017 ne erano venute a mancare 649 mila, nel 2016 altre 615 mila (Istat): quindi, una media di 1.700 decessi al giorno con punte più alte che si verificano nel periodo invernale. I dati aggiornati al 2017 (http://dati.istat.it/) evidenziano che la più rilevante causa di morte sono le malattie cardiovascolari (quasi 233.000 vittime nell’anno), e poi i tumori (sono stati 180.000 i morti nel 2017), mentre le malattie del sistema respiratorio hanno complessivamente determinato la morte di 53.000 persone, dati sempre riferiti all’anno 2017. Questa ecatombe nell’immaginario collettivo appare come un fatto “naturale”, perché tutti siamo destinati a morire, dimenticando però che molte delle cause di morte sono conseguenze di stili di vita sbagliati e di un ambiente che è sempre più inquinato, e quindi via via più ostile all’uomo, come sta evidenziando peraltro il dibattito su Agenda 2030 e sullo sviluppo sostenibile, che rischia però di soccombere di fronte alle esigenze di un recupero veloce della produzione e dei consumi che potrebbero far passare in secondo piano le problematiche ambientali. È certo che si vive più a lungo rispetto al passato, ma convivendo con patologie che possono rivelarsi letali: l’influenza stagionale, per esempio, è causa diretta di un modesto numero di decessi ma porta in media a ottomila morti ogni anno perché colpisce soggetti che soffrono di altre patologie gravi, che senza influenza avrebbero potuto vivere ancora (https://www.epicentro.iss.it/influenza/sorveglianza-mortalita-influenza). Lo stesso fenomeno, ma con numeri enormemente più grandi, avrebbe potuto avvenire qualora la pandemia da Covid-19 si fosse diffusa su tutto il territorio nazionale infettando gran parte della popolazione italiana, col manifestarsi sul campo del cosiddetto “effetto gregge”. Questo dramma collettivo finora è stato sventato, tranne che in alcuni focolai, grazie proprio alle politiche di lockdown, e i timori su riaperture troppo veloci stanno proprio nella possibile ricomparsa dell’emergenza sanitaria quando le cure farmacologiche efficaci o i vaccini non fossero ancora in grado di arginare grandi numeri di malati. Abbiamo, cioè, bisogno di guadagnare tempo, scommettendo sulla ricerca scientifica ma sapendo anche che il tempo da un lato è denaro, dall’altro però è vita e in questo dramma denaro e vita non procedono nello stesso senso, uno sembra escludere l’altra e viceversa.
3.
Ma cosa significa, in concreto, decidere di chiudere tutto, piuttosto che di aprire o riaprire tutto?
Il principale dilemma che incontra il filosofo della politica riguarda a mio avviso non le questioni, pur fondamentali, della libertà e dell’informazione, o la bioetica, bensì il tema cruciale della sovranità e da cui discendono come conseguenze tutti gli altri dilemmi: una lezione che ci sta insegnando la crisi da Covid-19 riguarda infatti in primo luogo il significato dell’azione politica, ciò che la politica è rispetto a ciò che abbiamo sempre pensato, intuitivamente e in tempi “normali”, che cosa la politica fosse. Questa crisi, infatti, ci sta dimostrando anzitutto che l’essenza della politica non consiste tanto nella “buona amministrazione della cosa pubblica”, nell’attività ordinaria di gestione del bene comune, quanto nell’azione straordinaria, cioè nel prendere decisioni in condizioni di incertezza, in quello che un pensatore d’altri tempi, Carl Schmitt, aveva chiamato lo stato d’eccezione: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, cioè chi riporta l’ordine a partire da una situazione di disordine, chi riesce a gestire una situazione che appare essere fuori controllo, chi mette fine alla crisi stabilendo nuove regole del gioco. Il concetto di “regola del gioco” è stato introdotto nel dibattito da un economista, Douglass C. North, in questi termini: “Le nostre vite sono un insieme di routine nelle quali il contenuto delle scelte appare regolare, ripetitivo e chiaramente evidente, al punto che il 90 per cento delle nostre azioni quotidiane non richiede alcuna riflessione. Ma in realtà ciò che ci permette di non pensare a certi problemi o di prendere rapidamente certe decisioni è l’esistenza di un insieme compatto di istituzioni che si ritengono ovvie” (1994, p.47); le istituzioni sono per North le regole del gioco collettivo ed è il loro cambiamento, aggiungiamo noi, che costituisce l’oggetto, lo scopo, il fine della politica.
L’errore fatale di Carl Schmitt fu quello di interpretare i fenomeni politici da una prospettiva di sola conflittualità, individuando il criterio per distinguere ciò che è politico da ciò che non lo è soltanto nella distinzione amico-nemico, gli amici e nemici pubblici che si confrontano con intensità politica via via crescente, fino a raggiungere la massima espressione dell’agire politico che per Schmitt era la guerra. La vicenda del Covid-19 dimostra la totale insufficienza di questa prospettiva, in quanto mai come in questo periodo stiamo assistendo a fenomeni ad altissima intensità politica che però non sono conflittuali, anzi si fondano in primis sulla propensione umana alla cooperazione o, per dirla con Jeremy Rifkin, presuppongono l’esistenza di una civiltà dell’empatia che è l’esatto opposto della contrapposizione amico-nemico teorizzata da Carl Schmitt come fondamento della politica.
Il virus è una minaccia globale che si combatte in primo luogo con la cooperazione, condividendo il più possibile mezzi e informazioni da una parte all’altra del pianeta, cioè con un approccio che è esattamente l’opposto della visione di Schmitt che, non dimentichiamolo, elaborò le sue teorie nella Germania di Hitler, in un contesto storico completamente diverso da quello attuale: i filosofi politici non scrivono nel vuoto pneumatico, ma sono influenzati in modo determinante dalla società e dal tempo in cui vivono. Anche per questa ragione, proprio per questa ragione, la vicenda del coronavirus ci può aiutare a reinterpretare il significato stesso di ciò che è politico.
Eppure l’analisi di Schmitt resta ancora fondamentale se vogliamo tentare un’analisi filosofica della crisi attuale, ed è a mio avviso centrale almeno in tre aspetti: il primo, nella già citata definizione di sovranità (sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione), il secondo nell’affermazione per cui il concetto di Stato non coincide necessariamente col concetto di politico e quindi che vi sono, o vi possono essere, soggetti politici diversi dagli Stati sovrani tradizionali di matrice post vestfaliana, democratici o autoritari che siano; il terzo aspetto, infine, è che i processi politici si caratterizzano per intensità diverse, che ciò che è politico si distingue da ciò che non lo è non in modo netto, definito e definitivo, ma presenta tante sfumature, esiste cioè uno spettro dell’azione politica che si caratterizza per un’ampia variabilità. I fenomeni di tipo politico, in altre parole, appaiono come processi ad intensità variabile, che hanno per oggetto la sovranità e per soggetti, per attori politici, individui o gruppi che sono in primo luogo decisori: chi decide che cosa, e per chi? Quanto più vasta è la materia che è oggetto del decidere, quanto più ampia è la platea dei soggetti sottoposti alle decisioni prese, quanto più grande è l’efficacia delle decisioni prese, tanto maggiore sarà l’intensità del processo politico in corso di svolgimento.
La crisi da Covid-19 ha dimostrato la necessità di prendere decisioni che hanno determinato cambiamenti significativi nelle regole di comportamento collettivo per un ampio numero di collettività umane, decisioni prese in stato di eccezione in quanto formulate in una situazione di oggettiva emergenza sanitaria, che hanno stabilito modalità differenti di comportamento collettivo degli individui che vanno da semplici suggerimenti volti al distanziamento individuale (come in Svezia) fino al completo lockdown coattivo dell’intera popolazione e anche delle attività economiche (come accaduto a Wuhan e per alcune decine di milioni di cinesi). In un immaginario intervallo di “apertura-chiusura”, dove da un lato abbiamo la totale apertura sia dal lato sociale che da quello economico, e dall’altro la chiusura totale (sia dei rapporti interpersonali che delle attività economiche), l’Italia si è collocata verso la parte più estrema del lockdown, consentendo solo ai supermercati, alle edicole e a poche altre attività di restare pienamente operative sull’intero territorio nazionale; altri Paesi europei hanno adottato misure simili ma per intervalli temporali diversi, altri ancora hanno preso strade diverse, come il Regno Unito, salvo poi fare retromarcia ed avviarsi verso il lockdown; altri ancora, come la Svezia, si sono collocati nella parte opposta dell’intervallo.
Le chiusure hanno interessato intere nazioni o regioni o aree specifiche (le “zone rosse”), anche i comportamenti in campo educativo e scolastico sono stati molto differenziati fra i Paesi, nei tempi e nelle modalità. Lo smart working e l’educazione a distanza si sono diffusi come mai prima d’ora e nuove soluzioni organizzative e tecnologiche sono state individuate, come le scuole all’aperto e i webinar.
Questa crisi ci ha dimostrato quanto il cambiamento nelle regole del gioco collettivo sia qualcosa di plastico, soggetto a continue variazioni: in altre parole, non esiste nella realtà un fenomeno come l’attività costituente che prende le decisioni una volta per tutte, sul modello del contratto sociale dei giusnaturalisti, se non in situazioni storiche particolari; la gran parte dell’attività politica consiste infatti nel cambiamento continuo delle regole del gioco collettivo o di parte di esse, e le regole stesse dimostrano di essere “plastiche”: durante il lockdown abbiamo avuto in Italia la produzione di quattro (ora cinque) modelli diversi di autocertificazione, che consentivano a chi si muoveva di precisarne i motivi alle autorità preposte al controllo; ma mentre da un lato si chiudevano le attività produttive per decreto (il Dpcm è un atto amministrativo e non una legge costituzionale), dall’altro si consentiva a molte di queste di riaprire, in base al principio del “silenzio assenso”. Anche per questo è necessario utilizzare l’immagine dell’intervallo e non la dicotomia: non siamo in presenza di un’alternativa fra apertura e chiusura, ma di sfumature diverse, diverse fra i Paesi e fra i differenti periodi, e in Italia diverse all’interno delle stesse regioni, perché ai decreti amministrativi del governo centrale si sono sovrapposte le ordinanze regionali e persino quelle dei singoli comuni. Se qualche falla c’è stata, nello stabilire le regole del gioco piuttosto che nell’orientare nel modo corretto l’assistenza e le cure mediche, questa è stata dovuta più alla incapacità di comunicare che ha posto i diversi soggetti in conflitto fra loro, l’autorità centrale contro le autorità locali, i virologi talvolta in conflitto fra loro e con altre specializzazioni mediche. Quando la contrapposizione non trova ragioni di merito, ma esiste perché ognuno è interessato prioritariamente a coltivare il proprio orticello, il disastro collettivo è spesso assicurato: ciò che può sembrare razionale per il singolo individuo o per il singolo soggetto, si rivela irrazionale per la comunità intera e per l’insieme collettivo.
La lotta al coronavirus si è dimostrata per certi aspetti anche una “guerra”, è stata condotta in diversi Paesi con strumenti coattivi (i controlli, i droni, le sanzioni), ma certamente non è una guerra nel senso di Schmitt, piuttosto è stata l’occasione per mettere alla prova la reale capacità di cooperare, cooperazione all’interno e cooperazione all’esterno, che per noi significa soprattutto cooperazione in Europa. È nel nostro continente, più che altrove, che infatti sono emerse fin da subito le contraddizioni dell’agire politico: le decisioni che hanno regolato i comportamenti collettivi dei cittadini sono state prese dagli Stati sovrani, ciascuno per proprio conto, con modalità diverse e in qualche caso manifestando anche tensioni interne, come è avvenuto in l’Italia fra lo Stato centrale e alcune regioni che hanno rivendicato il loro diritto autonomo di decidere. Ma in tutto il continente europeo il modello di agire politico è rimasto nella sostanza quello dello Stato di matrice vestfaliana, che ha manifestato appieno le proprie caratteristiche anche all’interno dell’Unione Europea: a fronte di un Parlamento europeo eletto pochi mesi prima a suffragio universale, a fronte di una Commissione insediatasi con il voto di maggioranza da parte di quegli stessi europarlamentari eletti pochi mesi prima con il voto dei cittadini europei, ad avere l’ultima parola è stato, ancora una volta, il Consiglio composto dai rappresentanti dei governi dei singoli Stati, ciascuno dei quali dotato di diritto di veto. Rappresentanti anch’essi eletti certo democraticamente dai cittadini dei rispettivi Paesi, ma ciascuno dei quali dotato di una golden share che si trova in organismi come il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, di cui fa parte anche la Cina e che non ha svolto alcun ruolo in questa crisi, come del resto non l’hanno svolto le Nazioni Unite se non per chiedere un cessate il fuoco dei vari conflitti nel mondo, senza peraltro riuscire neppure ad ottenerlo.
Quello che la grave vicenda della pandemia da Covid-19 ci sta quindi mostrando è che gli autentici soggetti dell’azione politica, anche in questo drammatico caso, restano tuttora gli Stati di matrice vestfaliana, ognuno dei quali si è mosso in ordine sparso e senza alcun coordinamento, senza alcuna regia a livello internazionale. Abbiamo così avuto la conferma che non esiste alcun soggetto sovranazionale in grado di gestire gravi crisi internazionali in senso politico, cioè di orientare i comportamenti degli individui a livello planetario in un senso piuttosto che in un altro, e di farlo con velocità ed efficienza; è mancata, in altre parole, quella che potremmo chiamare la razionalità collettiva. Che l’essere umano sia dotato di razionalità limitata ce lo aveva già insegnato Herbert A. Simon diversi anni fa: “gli esseri umani non hanno una visione completa del mondo intero, ne vedono solo la piccolissima parte in cui vivono e sono capaci di ideare ogni sorta di razionalizzazione di quella parte del mondo, per lo più nel senso di esagerarne l’importanza” (1984, p.139).
L’OMS, che in questa situazione specifica avrebbe dovuto intervenire velocemente e con ampi poteri decisionali (velocità ed efficacia delle decisioni fanno la differenza, durante le crisi), non solo si è limitata a rilevazioni statistiche e a raccomandazioni, ma è anche arrivata in ritardo nel dare l’allarme della pandemia mondiale, che si è diffusa trovando praterie, prima in Cina dove il governo del partito unico ha aspettato a comunicare al mondo quello che stava succedendo, per ragioni che ancora non conosciamo del tutto anche se è presumibile che siano legate alle caratteristiche autocratiche e illiberali di quel regime, ma poi l’emergenza è stata gestita in ritardo anche in Europa, dove le autorità hanno permesso lo svolgimento di grandi eventi collettivi (come la partita Atalanta-Valencia con decine di migliaia di tifosi accalcati, dentro e fuori lo stadio) pur in presenza di una minaccia che era già nota a livello internazionale ma che si riteneva fosse ancora lontana, nello spazio come nel tempo: in Italia, per settimane dopo l’allarme di Wuhan, gli esperti hanno continuato a dire che il virus non c’era, si continuava a rilevare la febbre dei viaggiatori in entrata senza verificare perché in certe zone del Paese vi era un crescente numero di “polmoniti anomale”, e questo finché l’intuizione di singoli medici in un ospedale “di periferia” ha reso evidente ciò che era già presente da tempo sul territorio, ma che restava coperto da una fitta nebbia padana; o per dirla con Simon, ci siamo accorti d’un tratto che “nessun numero di cigni bianchi, per quanto grande esso sia, potrà mai garantire che il prossimo a volare sulle nostre teste non sia un cigno nero” (1984, p.36). Tutto quello che è accaduto dopo, compreso l’elevato numero di decessi di anziani, nelle Rsa e altrove, è figlio di una concatenazione di ritardi che solo l’analisi storica potrà chiarire, a mente fredda, se sono stati causati dall’incompetenza degli “esperti” che in quel momento dovevano vigilare, dall’applicazione puntuale e meccanica di protocolli errati, da ritardate decisioni politiche, dall’insieme di queste ragioni o da altro ancora. Dobbiamo augurarci che non emerga che la causa principale dei ritardi sia da attribuire alla meccanica applicazione di protocolli errati, perché le implicazioni filosofiche sarebbero evidenti e, pur in un contesto differente, potrebbero rivelarsi non troppo diverse dalle conclusioni di Hannah Arendt relative alla banalità del male, secondo cui “tutti si ritengono scusati perché obbediscono ad ordini che provengono da una catena di comando la cui testa, sovente, nemmeno conoscono” (2011, p.125).
L’analisi storica peraltro sarà avvantaggiata, perché potrà avvalersi anche del materiale che nel frattempo sarà stato raccolto in grande quantità dalla magistratura: un parallelo che viene in mente è quello con la causa internazionale promossa dalle famiglie italiane dei Desaparecidos argentini, che ha permesso di gettare nuova luce su quella terribile vicenda storica, che ripropose in America Latina campi di concentramento e forme di sterminio non diverse da quelle messe in campo quarant’anni prima dai nazisti in Europa. È chiaro che le situazioni sono completamente diverse, ma le indagini della magistratura, in quel caso come nella vicenda odierna, possono rivelarsi importanti nella misura in cui non si limitano alla mera ricerca del colpevole, ma accendono riflettori, conseguono cioè lo stesso obiettivo del lampione di Fitoussi: “possiamo scegliere cosa vogliamo illuminare, siamo noi che decidiamo il posizionamento dei lampioni. E se le nostre scelte non sono pertinenti, le nostre ricerche saranno infruttuose. Nell’ambito dell’agire politico questo può avere conseguenze gravi, perché gli errori possono accumularsi: errori nella definizione dell’obiettivo, nella sua valutazione, nella scelta degli strumenti utilizzati (…)” (2013, p.6).
Un altro aspetto che ha implicazioni, forse non per la filosofia politica ma per quella morale, oltre che per i decisori politici che sono chiamati a valutare lo “scudo penale” per medici e personale impiegato nel non facile lavoro dentro le strutture sanitarie e le Rsa, è relativo alle denunce dei familiari delle vittime; il lavoro della magistratura sarà però interessante non tanto per il numero di condanne o assoluzioni che riuscirà a produrre, non per come si concluderanno i processi, o se si faranno, o se sarà giusto o meno farli, ma per la qualità e quantità di materiale informativo che le indagini preliminari saranno poi in grado di mettere a disposizione degli storici, che potrebbero rivelarsi un materiale preziosissimo come lo è stato quello sulla vicenda argentina.
4.
La crisi causata dal Covid-19 è stata tanto grave quanto imprevista, in quanto ha colto di sorpresa vari paesi, a partire dalla stessa Cina che ha dato l’allarme globale quando ormai il virus si era già diffuso su scala planetaria: le stalle sono state chiuse quando cioè i buoi erano già in gran parte scappati. Tuttavia, questa crisi non era imprevedibile, tanto è vero che diversi allarmi erano già stati diffusi negli anni precedenti dall’Oms, dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Europea: già nel 2005 la Commissione europea aveva evidenziato l’esigenza di pianificare il contrasto a potenziali epidemie, Obama lo aveva detto a sua volta nel 2014, l’Oms lo aveva ribadito ancora a settembre dello scorso anno nel suo Rapporto annuale (Ansa). Eppure proprio l’Oms ha mostrato gravi carenze, per non parlare del ruolo svolto dalle Nazioni Unite. Perché allora varie organizzazioni e istituzioni, nazionali e sovranazionali, hanno dato per tempo l’allarme ma nulla è stato fatto in tempo utile?
Il fatto incontestabile costituito dagli allarmi preventivi pone in realtà un dilemma reale, che riguarda anche i filosofi politici: in che misura occorre tener presente gli allarmi preventivi nelle decisioni politiche? Vi sono almeno due aspetti di questo dilemma: il primo è legato alla mancanza di consenso per un’azione preventiva di salvaguardia di un evento che non si sa se e quando accadrà, soprattutto se la prevenzione comporta nell’immediato l’esborso di risorse ingenti; dando ascolto agli allarmi della Commissione europea, della Casa Bianca e dell’Oms, si sarebbero dovuti fare investimenti imponenti nelle strutture sanitarie, senza sapere se la pandemia si sarebbe poi verificata per davvero oppure no, e quando.
Il secondo aspetto del dilemma riguarda invece la quantità stessa degli allarmi possibili: in un libro pubblicato la prima volta nel 1993 Antonino Zichichi individuava un nutrito elenco di emergenze planetarie, legate all’acqua, al suolo, al cibo, all’energia, all’inquinamento, ai limiti dello sviluppo, al cambiamento climatico, e poi ancora al “monitoraggio globale del pianeta”, alle “nuove minacce militari nel mondo multipolare”, alle strategie anche tecnico-scientifiche per evitare un possibile “olocausto ambientale nord-sud”, al “problema della sostituzione degli organi”, ad Aids e malattie infettive sia in laboratorio che sul campo, all’inquinamento culturale fino alla “difesa comune contro oggetti cosmici” e, infine, alla riconversione degli enormi investimenti militari e all’eliminazione delle armi di distruzione di massa, chimiche e nucleari (2000, pp.203-205).
Che tipo di strategie dovrebbero porre in essere gli attori politici per contrastare questo lungo elenco di emergenze planetarie? E quali hanno la priorità? Le minacce militari sono forse meno importanti del rischio di malattie infettive? E che dire della difesa dagli oggetti cosmici? I dinosauri si estinsero per questo, le probabilità sono infinitesime ma non pari a zero. Qual è, dunque, la priorità?
E chi può decidere, con efficacia e velocità, quando i problemi critici da affrontare non solo si manifestano ma diventano globali e quindi richiedono una risposta globale?
Nel 1979 Isaac Asimov si cimentò in un lungo elenco di apocalissi, la gran parte delle quali era al di fuori di qualsiasi possibilità di intervento umano; fra le molteplici considerate vi erano anche le nuove malattie infettive, che per Asimov in realtà non rappresentavano un grave pericolo, grazie ai progressi della scienza anche se, scriveva, “può darsi che stiamo creando nuove malattie combattendo le vecchie” (ed.1980, p.333).
È indubbio, tuttavia, che l’epoca in cui viviamo ci sta presentando una serie di problemi cruciali che non possono essere risolti su base nazionale e che richiedono il concorso di tutti: cambiamenti climatici, pandemie, speculazione finanziarie, flussi migratori, terrorismo internazionale sono esempi di una più vasta e complessa problematica mondiale che fu individuata da Aurelio Peccei già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso e che oggi, a distanza di cinquant’anni, sono ancora tutti lì, irrisolti e alcuni si sono persino aggravati. Peccei, nel libro Quale Futuro?,individuò nel 1974 ben trentadue problemi critici continui: il settimo di questi era l’assistenza medica insufficiente, mentre ventinovesima nella lista era l’insufficiente autorità degli enti internazionali (1974, p.27).
Peccei promosse un’associazione, il Club di Roma, che attraverso vari rapporti (il più famoso dei quali fu I Limiti dello Sviluppo) doveva svolgere un’opera di convincimento sui soggetti decisori, nelle varie parti del mondo, per avviare una stagione di razionalità collettiva che doveva sovrapporsi alla razionalità individuale che caratterizza i mercati, i quali hanno dimostrato di essere in grado di produrre importanti risultati nella crescita della ricchezza collettiva ma a prezzo di gravi distorsioni in termini di diseguaglianze, congestione, inquinamento, distruzione dell’ecosistema, esaurimento delle risorse naturali. Le singole nazioni possono certamente occuparsi dei problemi critici globali, ma solo con interventi di ripiego, perché non sono in grado di risolverli in via definitiva; in questo il dramma del coronavirus è un caso emblematico, potremmo dire “da manuale”: ne usciremo, non sappiamo esattamente quando e pagando quale prezzo, se dovremo aspettare il vaccino piuttosto che l’individuazione di cure preventive efficaci, come da varie parti si sta cercando di fare, sperimentando sul campo l’efficacia del plasma, dell’eparina piuttosto che del remdesivir.
A livello globale, tuttavia, la capacità decisionale della politica resta ancora un’utopia. Né il G7, né il G20 sono in grado di prendere decisioni condivise sulle questioni cruciali del nostro tempo: il quadro del sistema internazionale non è quello dello stato di natura hobbesiano, ma se tracciamo un intervallo di possibilità, ad una estremità del quale vi sia lo stato di natura e all’altra estremità lo stato civile, la situazione attuale dei rapporti internazionali si avvicina più allo stato di natura che allo stato civile. Né può configurarsi come un dilemma del prigioniero reiterato, perché anche se da decenni mancano conflitti globali ma si verificano “solo” guerre locali, l’esistenza di queste ultime e la continua riproduzione di conflitti armati in varie parti del mondo è essa stessa una prova che la cooperazione a livello internazionale si fonda in primo luogo sull’interesse egoistico dei singoli soggetti coinvolti, gli Stati nazionali, piuttosto che sulla ricerca di una razionalità collettiva, o di una visione universalistica che appare, oggi ancor più che ai tempi di Kant, alquanto demodé nonostante ve ne sia assoluto bisogno. Una visione che Peccei, sempre nel libro citato, sosteneva dovesse ispirarsi a quattro dimensioni fondamentali: la dimensione sistemica, quella globale, quella diacronica e quella normativa (1974, p.63).
5.
L’essenza della politica sta dunque nella sua straordinarietà: è politico il soggetto che esercita la sovranità, cioè chi è in grado di decidere sullo stato d’eccezione, chi è nelle condizioni di poter stabilire le regole del gioco collettivo perché ha la legittimità, il consenso e il potere per decidere e per decidere efficacemente. La sovranità, osserva Carlo Galli “è della politica tanto il lato ordinato (la cittadinanza) quanto il lato drammatico (la rivoluzione, la decisione)” (2019, p.9); ma è il lato drammatico quello che “alza” d’intensità l’agire politico: le crisi, che siano economiche, finanziarie, pandemiche o di altra natura, sono occasioni talvolta irripetibili per promuovere un cambiamento radicale dell’ordine sociale, delle regole che ordinano la nostra esistenza collettiva; non è detto che ciò accada, non è scontato, e chi ora dice “nulla sarà più come prima” mente sapendo di mentire. Non è neanche detto che lo “stato d’eccezione” sia foriero dei disastri paventati da Agamben e altri profeti più o meno di sventura; osserva Morin che ogni crisi porta “con sé potenzialità negative di regressione e di distruzione, e potenzialità positive che, grazie all’immaginazione creatrice, consentono di trovare nuove soluzioni. Oppure, come è successo spesso, semplicemente il ripristino di uno status quo ante”(2017, p.9).
Durante la crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007 sono avvenute fondamentali trasformazioni che hanno inciso profondamente sul mondo che conosciamo oggi; scrive Patrizio Bianchi in proposito: “gli anni della crisi hanno incubato una nuova economia in cui ad una riduzione degli scambi materiali si è contrapposto un crescente scambio di dati, quindi di beni immateriali” (2018, p.47).
Non è però neppure detto che dallo stato d’eccezione scaturisca necessariamente una società migliore: dipende; ma da cosa dipende? Dipende dalla politica: David Runciman ha osservato acutamente che “la differenza fra Danimarca e Siria è politica. La politica ha aiutato la Danimarca a diventare ciò che è. E la politica ha condotto la Siria a essere com’è” (2015, p.12). La politica non è ovunque e non è responsabile di tutto ciò che accade agli esseri umani: la politica non è “responsabile di tutti i disastri naturali o i rivolgimenti economici che si manifestano. Tuttavia, può amplificarne o moderarne gli effetti. È questa la differenza che può fare la politica” (2015, p.13).
La politica è un fenomeno ambivalente: durante la crisi della Grande Depressione, la politica si presentò negli Stati Uniti con la faccia di Franklin Delano Roosevelt e il New Deal, che è stato definito il più grande programma riformista del XX secolo; ma in Germania la politica si presentò col volto di Hitler e dei nazisti. Certo, l’America non aveva subìto la pace di Versailles, era dall’altra parte della barricata, era una potenza che aveva vinto il primo conflitto mondiale, ma la depressione colpì molto pesantemente quel Paese e la soluzione alla Roosevelt non era scontata, eppure accadde, si verificò, fu una precisa scelta politica che ebbe importanti conseguenze, perché contribuì a far fare un grande salto in avanti a larga parte dell’umanità, perché consentì agli americani prima di sconfiggere il nazifascismo e poi di ricostruire l’Europa col Piano Marshall, creando quelle condizioni di prosperità che permisero fra l’altro di avviare il progetto della Comunità Europea e che alla fine portarono, nel 1989, alla sconfitta anche dell’altra faccia del mostro totalitario, il comunismo. Una sconfitta, quella del totalitarismo, che valeva però solo per il secolo trascorso: nel XXI secolo nuove forme di totalitarismi sono comparse, con la fisionomia del Califfato piuttosto che di Boko Haram. Se una cosa la politica ci insegna, è dunque la sua ambivalenza: quanto è accaduto in passato, nel bene come nel male, può sempre riproporsi, in ogni momento, anche se con forme e modalità apparentemente diverse; perché se è vero che la Storia non si ripete, ricordiamoci che può parafrasarsi.
A livello globale, oggi, continuano ad essere gli Stati i soggetti in grado di esercitare in forma pressoché esclusiva la sovranità, anche se ne sono cambiate le dimensioni; e sono tre i soggetti che, più degli altri, hanno nelle loro mani il destino del pianeta e dell’umanità intera: Stati Uniti, Cina e Russia. Con il crollo del comunismo e la liberalizzazione dei mercati internazionali non è venuta meno la contrapposizione fra i blocchi, ma sono cambiati i blocchi, si sono frazionati, gli Stati Uniti non sono più il player mondiale che ai tempi dello Scià di Persia poteva permettersi di circondare il blocco comunista con una rete di alleanze militari come la Nato, la Seato e Anzus. Oggi gli Stati Uniti non sono in grado di controllare neppure il continente in cui si trovano, e sono orientati più al Pacifico che all’Atlantico; quello che un tempo era il Terzo Mondo, che peraltro era riuscito ad esprimere il movimento dei Non Allineati, oggi è caratterizzato da regioni che implodono, come il continente africano e il Medio Oriente, e da Paesi emergenti fra i quali spicca la Cina ma l’India si conferma in un onorevole secondo posto. Ad Est, Ovest e Non Allineati di un tempo, oggi si sostituiscono Stati Uniti, Russia e Cina: manca qualcosa, manca il player fondamentale, quello che Edgar Morin ha individuato come il principale attore potenziale di un nuovo ordine mondiale fondato su cooperazione internazionale, pace, prosperità, sicurezza. Dov’è l’Unione Europea in questo scenario?
La crisi causata dal coronavirus ha messo in discussione certezze che sembravano acquisite in modo irreversibile: una per tutte, l’idea dell’unità europea, almeno dopo il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Ma l’Europa unita non è un mito, come ha in più occasioni sottolineato Massimo Cacciari: l’Europa è una necessità. E non solo per gli europei, ma per il mondo intero.
L’europeismo oggi rivendica la propria identità non nella “bibbia” del Manifesto di Ventotene, o nelle icone dei Padri fondatori (Spinelli, Adenauer, Schuman, De Gasperi, Monnet e altre personalità dell’epoca) o ancora nel “mito” del federalismo come forma ideale – purché democratica – di governo, ma perché in un mondo sempre più globalizzato e attraversato da vere e proprie emergenze planetarie (i cambiamenti climatici, il “finanzcapitalismo”, ma anche la stessa pandemia che stiamo vivendo in questi mesi) i problemi cruciali, quelli che più di altri incidono sulle nostre esistenze collettive, non possono più essere risolti su basi nazionali. Le emergenze planetarie sono problemi globali che non hanno confini, e l’Europa può fare molto perché è la più grande economia del mondo e, nonostante i partiti “sovranisti” interni, resta ancora la più solida democrazia rappresentativa del mondo, l’unica che è in grado di svolgere quel ruolo di pacificazione universale di cui il nostro pianeta ha un disperato bisogno. L’Unione Europea, in particolare, sarebbe l’unico player mondiale in grado di applicare, e di far applicare, i due documenti fondamentali delle Nazioni Unite che dovrebbero essere alla base di ogni “buona politica”, e cioè la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948, e Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La crisi attuale non può farci dimenticare che i tre principi fondamentali della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fratellanza, uniti al rispetto per l’ambiente, sono tuttora un grande progetto incompiuto.
L’essenza della politica, e la vicenda del coronavirus lo ha dimostrato in modo inequivocabile, è la capacità di stabilire nuove regole di comportamento collettivo, di prendere decisioni che coinvolgono un’ampia comunità umana; la buona politica, il cui fondamento deve restare democratico e non autoritario, sta la capacità di prendere decisioni efficaci e tempestive, e di farle applicare per porre fine allo “stato d’eccezione”, all’incertezza e ai drammi umani che ne derivano.
La lotta al coronavirus è certo una guerra, ma non nel senso di Schmitt; anzi, la divisione in “amici” e “nemici” è chiaramente quanto di più deleterio possa esserci per combattere con efficacia questa pandemia, che richiede cooperazione e non conflitto. La cooperazione è necessaria, e a tutti i livelli: nazionali, sovranazionali, fra medici, fra i cittadini tutti. La lezione che ci può insegnare questa pandemia non è come fare il distanziamento sociale, che qualche commentatore ha giustamente rinominato distanziamento interpersonale, ma come trasformare la socialità in cooperazione, come far capire a ciascuno che il principio divide et impera oggi non ha più valore e che la politica ha senso solo se cambia in meglio le regole del gioco collettivo.
Riferimenti:
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Jorge ITHURBURU, Cristiano COLOMBI (a cura di), Vite senza corpi. Memoria, verità e giustizia sui desaparecidos italiani all’ESMA, Edizioni Gorée, Iesa (SI) 2011
Gianpiero MAGNANI, La buona politica, Mondoperaio, 04/2019
Edgar MORIN, Per una teoria della crisi, Armando Editore, Roma 2017
Douglass C. NORTH, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, il Mulino, Bologna 1994
Aurelio PECCEI, Quale Futuro? L’ora della verità si avvicina, Mondadori, Milano 1974
Carmen M. REINHART, Kenneth S. ROGOFF, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria, il Saggiatore, Milano 2010
David RUNCIMAN, Politica, Bollati Boringhieri, Torino 2015
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Herbert A. SIMON, La ragione nelle vicende umane, il Mulino, Bologna 1984
Antonino ZICHICHI, Scienza ed emergenze planetarie, Rizzoli, Milano 2000