La filosofia politica di Rousseau

Giulio Maria Chiodi e Roberto Gatti (FrancoAngeli, Milano, 2012)

Quando si ha a che fare con Jean-Jacques Rousseau si rimane – al contempo – rapiti  e “affaticati” dalla complessa originalità del suo pensiero. Un’originalità che non si  lascia tuttavia così facilmente comprimere o “imbrigliare”– pena l’impossibilità di  comprenderne le istanze, i “moventi” e i possibili esiti – «in schemi interpretativi piò  o meno fissi o in categorie generalizzanti». Non è né temerario, né tantomeno “fuori  dalla righe”, affermare che La filosofia politica di Rousseau (volume collettaneo  della sezione “Per i classici della filosofia politica” della bella e ricca Collana – edita  da FrancoAngeli – “Il Limnisco”) ci aiuta e – allo stesso tempo – ci sollecita a  cogliere i molteplici e prismatici volti di questa originalità. Naturalmente, per ovvie  ragioni non tutti i contributi, presenti nel volume, potranno essere suscettibili di  quell’approfondita trattazione che, in contesti diversi da questa breve recensione, sicuramente meriterebbero di avere.  

Già ad una prima lettura, La filosofia politica di Rousseau ci appare subito come un  volume prezioso e degno di una meditata considerazione per coloro i quali,  nell’uscire dagli spazi e dai tempi “certi” – e “rassicuranti”– dei manuali, desiderano  accettare a tutto tondo la sfida che l’opera rousseauiana, oggi come ieri, impone ai  suoi innumerevoli lettori. Del resto, Rousseau, come scrive Gatti nella Premessa al volume qui preso in esame, «non è certamente un autore solo per l’accademia», ma  un’influente e “popolare” «presenza vitale», che tende a riemergere «in mille modi  nei nostri discorsi, siano essi discorsi da specialisti o da semplici cultori». La “voce”  di Rousseau ci appare quindi come una fonte d’ispirazione e di riflessione senza la  quale non potremmo sperare di comprendere i grandi mutamenti che l’avvento della  modernità ha portato sul piano filosofico, politico e storico. Ciononostante, è sulle  spalle della contemporaneità che il peso della riflessione rousseauiana sembra  manifestare tutta la sua irriducibile e massiccia influenza. Ed è proprio tra le fila del  discorso filosofico-politico contemporaneo – tra l’altro – che la figura e l’opera del  filosofo ginevrino rischiano di venir irreversibilmente travisate e fraintese. Mai forse,  nel corso della storia del pensiero occidentale, vi è stata una voce tanto rilevante e  significativa quanto deformata e, per certi versi, “tradita” nelle sue cogenti, a volte  problematiche, dinamiche concettuali e – perché no? – esistenziali. «In Italia si è  letto Rousseau, nel secolo scorso e in particolare nella seconda metà di esso,  prevalentemente come filosofo politico, inquadrato “da sinistra” o “da destra”,  etichettato come capostipite della democrazia moderna o, del tutto all’opposto, come  iniziatore della tradizione “totalitaria” (p. 7)». Ma questa tendenza novecentesca a  voler, da parte degli uni e degli altri, “reclutare” Rousseau nei ranghi del proprio  particolare e agguerrito schieramento, trova la sua raison d’être in una radicale e  ingiustificata “amputazione”. Un’amputazione nutrita, e solo in parte legittimata,  dalla convinzione che, in fin dei conti, la lunga ombra del filosofo ginevrino non si estenda – perlomeno, non in modo determinante – al di là e al di fuori della sfera e  dell’ambito politici. Così facendo però ciò che ci rimane in mano – alla fine – è un  «Rousseau dimidiato» e un “pensiero amputato” da letture parziali e, sotto alcuni  aspetti, faziose. Ecco che allora l’apparente, ma difficilmente giustificabile,  predominio della dimensione politica nell’opera del cittadino di Ginevra, non può far  altro che relegare «spesso (non sempre) sullo sfondo gli altri aspetti del suo pensiero […]». Insomma, se questa fosse l’unica linea interpretativa possibile e plausibile, ci  troveremmo necessariamente a fare i conti con un Rousseau del quale molti elementi  sarebbero rimasti «inspiegabili, oscuri, problematici, contraddittori, […]».  Fortunatamente, negli ultimi «trenta-quaranta anni», una nuova “tendenza” sembra  farsi strada fra le pagine della letteratura critica dedicata al pensiero rousseauiano. In  sintesi, «gli studiosi hanno progressivamente allargato la prospettiva», nel tentativo  di superare la miope «parzialità» dei vari schieramenti (p. 8). E quale ne è stato, in  ultima istanza, l’esito? Potremmo dire che il “Rousseau politico” è riuscito finalmente ad incontrare il “Jean-Jacques autobiografico” delle Confessioni, dei  Dialoghi, delle Fantasticherie, così come – del resto – l’autore del «romanzo  d’amore per eccellenza del ‘700» (p. 7), e cioè a dire: la Nuova Eloisa. Nuovi  orizzonti interpretativi hanno così caratterizzato le indagini dei molteplici studiosi  della sua opera. Da quel momento Jean-Jacques Rousseau si è immancabilmente  attestato come un «autore essenziale» per comprendere questioni cruciali e  ineludibili quali l’«autenticità e le «”radici” dell’identità del soggetto moderno». Non  solo. L’interpretazione della Nuova Eloisa ha, infatti, permesso di far emergere  aspetti inesplorati – o comunque non tenuti nella giusta considerazione – del «legame  sociale». La filosofia politica di Rousseau ha, senza ombra di dubbio, l’innegabile  pregio di farsi carico, a partire dalla pregnanza dei temi sopra elencati, di questa  tendenza a «una comprensione allargata di Rousseau». 

Detto questo, svalutare o “sfibrare” la dimensione politica a favore delle pur legittime istanze che questa nuova tendenza interpretativa porta con sé, sarebbe un  errore – perlomeno – altrettanto “maldestro” e ingiustificato. Anzi, se ci lasciassimo  – per così dire – prender la mano dalla “moda del momento”, forse, non faremmo  altro che tradire l’impulso originario che ha caratterizzato la riscoperta del “Jean Jacques” che scrive di sé e dell’autore, ad un tempo intimista e osannato, della Nuova  Eloisa. Insomma, la complessità e l’asistematicità della riflessione rousseauiana non  ci devono soggiogare ad un’inconcludente “logica del predominio”. Nessuna  dimensione della sua opera, difatti, tende a predominare sull’altra, ma – viceversa – ogni singolo momento filosofico partecipa alla costruzione di un tutto. Un tutto sì  intricato e non sempre di facile comprensione, ma non per questo privo di  consistenza e di valore filosofico e – potremmo aggiungere – politico. A prova di ciò  basti pensare al fatto che, se prescindessimo «dai loro fondamenti antropologici,  morali, religiosi, autobiografici» (p. 8), i “principi del diritto politico – così come  Rousseau ce li presenta fra le pagine (ma non solo) del Contratto Sociale – ci  apparirebbero inesorabilmente in balia di parecchie lacune e apparenti  contraddizioni. Per questo, il volume La filosofia politica di Rousseau merita una  seria e attenta lettura, nella misura in cui – grazie all’alto valore dei contributi in esso presenti – ci consente di riflettere sulla globalità degli scritti del filosofo ginevrino e  sui profondi e sostanziali nessi che intercorrono fra l’Emilio (il romanzo pedagogico  per antonomasia), la Nuova Eloisa e la produzione autobiografica del Ginevrino. Giunti a questo punto non è poi tanto difficile rendersi conto che, se si ha realmente  intenzione di promuovere una «comprensione allargata di Rousseau», la chiave di  volta di questo ambizioso – ma necessario – tentativo non può che essere individuata  nel nesso tra antropologia e politica. Nesso – è bene sottolinearlo – che trova nel  volume in questione uno dei “palcoscenici” più autorevoli degli ultimi anni. “Palcoscenico” che vede avvicendarsi i principali studiosi (italiani e non) del  pensiero rousseauiano. Uno dei tanti meriti delle loro riflessioni, d’altra parte, risiede  proprio nell’avere dato peso e spessore al fertile incontro tra il “Jean-Jacques uomo”  e il “Rousseau filosofo”. Non sorprende pertanto che Alessandro Ferrara – uno degli  autori del volume – affermi esplicitamente che noi tutti siamo debitori a Rousseau di  «un’intuizione fondamentale: l’identità è una fonte di normatività ed esercita questa  funzione normativa attraverso la sua capacità di essere autentica» (p. 9). Senza l’idea  di autenticità – secondo Ferrara – non potremmo, infatti, pienamente comprendere  l’opera di Rousseau. Ed è talmente convinto dell’indispensabilità di questa chiave  interpretativa da affermare che «una nozione implicita di autenticità è ciò che  conferisce unità alle riflessioni rousseauiane». Ciò non toglie che l’idea di autenticità  sia un’idea «ricavata in negativo dalla sua critica dell’inautenticità»: vero morbo di  quella società delle maschere tanto criticata e osteggiata dal filosofo ginevrino.  Ebbene, se così stanno le cose, è evidente che l’unità delle riflessioni rousseauiane si  può rintracciare solo a partire dalla sua, per certi versi, “devastante” critica all’ordine  sociale vigente nell’epoca in cui scrive. Pertanto, qui, e non altrove, si può  intravedere il carattere unitario delle riflessioni rousseauiane «sugli effetti negativi  dell’ordine sociale, sul giusto ordinamento politico, sull’educazione e più in generale  sull’etica»; tanto è vero che, «se non esiste un brano dove Rousseau espliciti il  rapporto che lega fra loro le sue opere principali», ciò non significa che non  «possiamo intendere Il contratto sociale, Emilio e Julie, ou la nouvelle Heloise come  tre momenti di un’unica soluzione al problema» appena sopra richiamato. Prova ne è  il fatto che, mentre nel Contratto cerca di tratteggiare «un ordinamento politico  giusto, nell’Emilio invece «esplora le condizioni che possono consentire lo sviluppo dell’autonomia individuale». E nella Nuova Eloisa? È proprio in quest’ultima – secondo quanto afferma Ferrara – che «possiamo trovare la sua nozione implicita di  autenticità (p. 10). Ma soffermiamoci un attimo sul Contratto, ed in particolare sulla  figura, profondamente problematica, del Legislatore. La domanda è: in che modo  potremmo legittimare e giustificare tale figura? Lo si può fare, secondo Ferrara,  riconoscendo, una volta per tutte, che la concezione rousseauiana dell’identità  normativa, oltre ad avere, in generale, una «rilevanza fondamentale» per la filosofia  politica di Rousseau, tende ad illuminare, in particolare, «di una nuova luce quel  passaggio, sempre un po’ in penombra, del Contratto sociale in cui Rousseau ci parla  del ruolo del “legislatore”». Difatti, se – com’è noto – il titolare legittimo della  sovranità è il popolo, perché mai dovrebbe servire, nell’architettura filosofico politica del Contratto, un legislatore?» Serve – scrive Ferrara – perché la filosofia politica di Rousseau è normativa (corsivo mio), e poggia sulla distinzione fra «la  “volontà di tutti” e la “volontà generale”», nella misura in cui, se quest’ultima non  può che indirizzarsi – o «prendere come proprio oggetto» – il bene comune, la prima  solo “fortunatamente” può scoprirsi unanime, in seguito al – per l’appunto – (fortunato) «convergere di tutte le volontà particolaristiche» (p. 29). La lezione  rousseauiana è per Ferrara, in ultima istanza, una «lezione» più che mai «attuale», a  tal punto che il filosofo ginevrino può essere considerato – senza correre il rischio di  venir, più o meno blandamente, smentiti – «il fondatore di una filosofia sociale  critica di cui Axel Honneth – a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo  scorso– ha cercato di ricostruire il canone» (p. 19). Anche per Elena Pulcini Honneth  non aveva tutti i torti nell’individuare in Rousseau l’«iniziatore» della filosofia sociale. Un riconoscimento che, tuttavia, prende le mosse – per entrambi – da  un’irrinunciabile sottolineatura: la filosofia sociale deve essere sottratta a  un’«ambigua posizione di subalternità» nei confronti della filosofia politica. Tant’è  vero che, se Rousseau può essere ritenuto il “capostipite” della prima, Hobbes può  essere facilmente definito come il “promotore” della seconda. Cerchiamo, per quanto  possibile, di approfondire lo statuto di questa “prospettiva altra”. Per Honneth la  filosofia sociale – per essere tale – non può che essere, da un lato, orientata  criticamente verso quei «processi sociali che ostacolano l’autorealizzazione  individuale» (quelli che l’autore chiama, per intenderci, le “patologie del sociale”) e,  dall’altro, non può che fondarsi su «premesse di tipo etico, in quanto riflette sui  criteri necessari per rendere possibile un “vita buona” (p. 35). Ora, se Elena Pulcini  non si dimostra minimamente restia nel riconoscere che la riflessione di Rousseau  rispetta fino in fondo i due «criteri costitutivi» rintracciati da Honneth, nello stesso  tempo manifesta profonde riserve inerenti la definizione, data dal filosofo tedesco, di  filosofia sociale. Infatti, non è detto che quest’ultima debba essere necessariamente  critica. Anzi, è possibile – secondo Pulcini – tracciare la fisionomia di una filosofia  sociale non orientata criticamente, «come quella che troviamo negli autori fondativi  della Politcal Economy, cioè Bernard Mandeville e Adam Smith». Una disciplina, in  sintesi, che «pone essenzialmente l’accento sulle motivazioni dell’agire, più che  sottoporre ad una «critica radicale» – come invece fa Rousseau – le storture e le  patologie dell’ordine sociale. Ma dov’è che allora risiedono l’«originalità» e la  «grandezza» del pensiero Rousseauiano? Per Elena Pulcini, nell’aver saputo far  coesistere – oserei dire, armonicamente – la pars destruens e la pars construens della  sua riflessione. In altri termini, nell’aver “desunto” «la sua proposta normativa dalla  peculiare diagnosi che egli fa della società moderna, o meglio della società borghese  competitiva (corsivo mio)» (p. 36). Ma, lo si sa, alla base di ogni diagnosi non può  che esserci un’eziologia dai contorni ben definiti, di modo che, una volta appurate le  cause, si sappia dove e come intervenire – con una certa probabilità di successo – al  fine di estirpare il “male” che affligge un qualsivoglia corpo sofferente. Com’è noto,  per Rousseau il “corpo malato” è la società civile e il male che, senza sosta,  l’opprime è quello che Pulcini non ha problemi nel definire come un «nucleo  emotivo fondamentale», il quale riassume in sé le passioni dominanti, acquisitive e  competitive, dell’individuo moderno: vale a dire l’amour propre». Ma da dove prende le mosse questa passione “violenta” che tanto sembra nuocere all’autenticità  dei legami sociali, «a partire da quei legami essenziali che sono il rapporto d’amore e  la relazione familiare» (p. 8)? Per dirla nei termini di Axel Honneth, da una vera e  propria «patologizzazione» di una «passione originaria», «fondamento» – tra l’altro  – (p. 37) della proposta normativa di Rousseau, e cioè a dire: l’amore di sé. Dal  punto di vista antropologico, ciò che emerge è il profilo di un homo oeconomicus non direttamente riconducibile alla sua «immagine convenzionale, peculiare della  tradizione liberale». Insomma, non è quella «figura razionale e calcolatrice guidata  dal puro perseguimento utilitaristico» ma, al contrario, un “tipo d’uomo” motivato da una radicale e onnipervasiva passione: una «passione dell’Io», come la definisce  Pulcini. Una passione che, pertanto, non può far altro che prevalere, in quanto «più  potente e più originaria» (p. 38), sulla stessa “passione dell’utile”. Emerge così,  scrive l’autrice, «un individuo più preoccupato di essere considerato e ammirato che  di perseguire il proprio interesse» (p. 37). Un io mimetico, “costruttore” di  un’identità inautentica e dipendente in tutto e per tutto dalle aspettative e  dall’opinione altrui prende, allora, definitivamente il posto dell’io naturale, che – al  contrario – viene tratteggiato da Rousseau come un io indipendente, autentico,  trasparente a se stesso e agli altri. D’altra parte, quello immerso nel “torpore conformista” della società settecentesca è un io che tende ad andare incontro – per  così dire – ad un inevitabile (ma «interessante») paradosso, che ha a che fare con le  intricate, intricatissime dinamiche del riconoscimento; e che potrebbe venir  sintetizzato con un controverso, ma – tutto sommato – “felice”, slogan: vale a dire “Il  riconoscimento non è sempre morale!”. Infatti, dalla diagnosi rousseauiana si  potrebbe desumere – sempre seguendo la linea interpretativa di Elena Pulcini – un  «cattivo riconoscimento» che, nel richiedere lo «sdoppiamento dell’identità, la  scissione tra l’essere e l’apparire», è costretto a togliersi la maschera e a mostrarsi  per quello che in realtà è: un riconoscimento essenzialmente e sostanzialmente «patologico». In quest’ottica, allora, essere riconosciuti non può che significare una  cosa sola: «rinunciare a se stessi». Equivale, in altri termini, «a tradire il proprio sé  originale e autentico». Un riconoscimento che, in ultima istanza, finisce per  «legittimare l’Io inautentico». «Quali sono allora – scrive Pulcini –, per usare un  lessico squisitamente rousseauiano, i rimedi a queste patologie, prodotte  essenzialmente dall’amour propre?» La “cura” che Rousseau propone può essere  rintracciata a partire da una strategia che, in un certo qual modo, tende a conferire  uno spessore più profondamente unitario alla globalità della sua riflessione: la  «strategia dell’autenticità». È più che mai doveroso, giunti a questo punto, mettere  in chiaro i “termini” del problema. Come ci ricorda Pulcini: «È bene precisare […]  che il termine “autenticità” non è presente nella riflessione di Rousseau, che usa  invece più volte il termine “verità”». Ma che significato dobbiamo conferire a questo  termine? Di che “verità” si tratta? Di una verità, per così dire, oggettiva o – perlomeno – tendente all’oggettività, oppure di una verità tutta interiore? Ebbene, per rispondere a questa domanda, non possiamo far altro che immergerci nella lettura  della Nuova Eloisa. E difatti, solo incentrando la nostra attenzione sul “mondo interiore” di Julie (la combattuta amante di Saint-Preux), la cifra distintiva della sopra citata strategia dell’autenticità tende ad emergere con una forza certamente non  trascurabile, nella misura in cui proprio il «percorso di Julie» ne mette in luce «le  conseguenze fondamentali». Ma che cos’è che testimoniano alla fin dei conti le  scelte di comportamento e di condotta di colei che Rousseau non si esime dal  definire una “Nuova Eloisa”? Ora, se la strategia dell’autenticità non può che  prevedere ed implicare necessariamente un ripiegamento dell’individuo negli spazi  intimi della propria coscienza, nel tentativo di rintracciare il sé più profondo e più  vero, forse il comportamento di Julie potrebbe esser letto come un sofferto tentativo  di «riconversione dell’amour propre in amore di sé» (p. 44). E l’esito qual è? La  riscoperta della «propria verità in una forma di amore che sia conciliabile sia con la  felicità che con la comunità». Insomma, quello di Julie è un «percorso attivo» che  trova la sua chiave di volta, certamente problematica, in un vero e proprio processo  «di costruzione della propria identità» (p. 45); una costruzione che ha il sapore della  scoperta o meglio della riscoperta. Prova ne è il fatto che questo io autentico non va  a ricercare, se così possiamo dire, i materiali e gli “strumenti” per la costruzione del  proprio “edificio identitario” fuori di sé ma – al contrario – tra le fila di ciò che è  sempre a sua disposizione: vale a dire le sue radici naturali e, per questo motivo,  autentiche. Così facendo, si riscopre anche come un vero e proprio soggetto morale.  Detto questo, è evidente che la strategia dell’autenticità non può essere, in nessun  modo, «praticabile come dimensione soggettiva radicale» o – in altri termini – «come fedeltà a se stessi ad ogni costo». «Su questo tema – scrive Pulcini – Rousseau tornerà non a caso negli scritti autobiografici – Confessioni Fantasticherie – dove la conquista dell’autenticità radicale, da parte di Jean Jacques  in prima persona, coinciderà con la formazione di un Io autarchico, separato dal  mondo, chiuso in se stesso e nella propria solitudine» (p. 47). Un paradosso sembra  dunque palesarsi, gettando una nuova luce sulle molteplici contraddizioni che  sembrano coinvolgere la vita e l’opera del filosofo ginevrino. Come mai? Perché le  ricette prescritte dal “Rousseau autore di memorabili capolavori” non sembrano venir  “recepite” e messe in opera dal Jean Jacques uomo, che al turbinio della vita in  società preferisce la silenziosa quiete della natura, allo stare con gli uomini la dolce  estasi della fantasticheria e alle mille maschere dei suoi contemporanei l’assoluta  trasparenza della propria interiorità. D’altra parte, «proprio la trasparenza costituisce  lo sfondo a partire dal quale è possibile leggere la critica che Rousseau muove alla  modernità, la contraddizione tra comunità politica e solitudine esistenziale,  l’itinerario che da Emilio conduce a Le passeggiate solitarie». Così Luca Alici legge  il passaggio dall’Emilio alla produzione autobiografica rousseauiana; il passaggio – cioè – dall’«ideale familiare […] all’isolamento e alla verità interiore» (p.87).  

Fin qui il Rousseau “autobiografo”, romanziere e pedagogista, che, nell’operare e nel  riflettere su diversi ambiti sembra tener – tuttavia – ben ferme le sue  “preoccupazioni” di fondo. Una su tutte? La (ri)costruzione e l’affermazione del  soggetto morale nella società inautentica delle maschere e delle vacue “liturgie”  mondane, dove – del resto – alla trasparenza del sentimento, coadiuvato dalla  ragione, si prediligono i vuoti sofismi di un “intelletto senza cuore”. Pertanto,  l’intentio filosofica rousseauiana non può che apparirci unitaria e, sotto alcuni aspetti, “programmatica”. E la politica che ruolo gioca in tutto questo? Alla  dimensione politica Rousseau sembra affidare proprio il compito, con esiti  profondamente problematici, di “moralizzare” l’individuo appena “fuoriuscito” dalla  stato di natura, determinando così il passaggio, com’è noto, dalla libertà naturale,  avente come limite solo la forza altrui, alla liberta morale, «presupposto» e  fondamento della stessa «autonomia politica» (p. 165). Nico De Federicis, che  interpreta parte della riflessione politica kantiana (per intenderci, il Kant del Detto  comune e poi della Metafisica dei costumi) come una «precisa rielaborazione del principio del diritto politico rousseauiano» (p. 141), ritiene che la riflessione politica  del Ginevrino vada collocata «su un piano complesso e contrastato, posto a metà  strada tra razionalismo giuridico e volontarismo politico». Ed è proprio a fronte di questa «sostanziale complessità» che le strade di Rousseau e di Kant sembrano  irreversibilmente separarsi, nella misura in cui il filosofo tedesco non si esime dal  compiere «una scelta di campo molto chiara», spostando «il centro della questione  dalla teoria del potere a quella dei diritti dell’uomo». Così facendo, questi ultimi «si  posero naturalmente in contrasto con la prima». Ma chi era, alla fin dei conti,  Rousseau per Kant? Secondo De Federicis, un “moralista” che vede nella dimensione  politica il luogo e il tempo della “moralizzazione”; un enfatico “Newton etico” che,  oltre ad avergli «insegnato ad amare l’umanità», ha anche tracciato «la via della  rivoluzione copernicana nella morale» (p. 149). In ultima istanza, come evidenzia Gatti: «[…] Rousseau avrebbe pienamente concordato con Kant sul fatto che l’uomo  è innegabilmente (corsivo mio) un legno storto. Non si può far altro, quindi, che  trattarlo «come tale» (p. 161). Tuttavia, se è innegabile che Rousseau «non ha mai  pensato che il patto – sociale – possa costituire il passaggio verso la “liberté  morale”», a chi deve essere affidato questo gravoso e in-umano compito? Eccoci di  nuovo costretti a fare i conti con la figura del legislatore: forse la più controversa,  problematica e dai contorni meno definiti dell’intera opera rousseauiana. Per Gatti,  che – in un primo momento – sembra leggere l’“apparizione” di questa figura sovra umana alla luce della scommessa pascaliana (può apparire, come non apparire), può  sorgere la «tentazione di vedere, nel legislatore, un Dio terreno (corsivo mio); un  Dio che, in altre parole, «surroghi l’onnipotenza del Dio vero, ma assente – nel  panorama filosofico e teoretico rousseauiano – dalla vicenda umana» (p. 170). Ma il  legislatore non è un Dio, è un educatore del popolo, una figura chiaramente  paternalistica, ma non “totalitaria”. Paiono allora del tutto scardinate le tesi di coloro  che vorrebbero leggere l’opera politica rousseauiana usando questa categoria.  Neppure la tesi della “tirannia della maggioranza” sembra render conto della  posizione rousseauiana. Del resto, come ci ricorda Gabriella Silvestrini, «“il concetto  di volontà generale consente a Rousseau di escludere la legittimità di un contratto  che si risolva nella sottomissione a una “volontà di maggioranza”, espressione  assente dal Contratto sociale» (p. 226). Insomma, se non si vuole cadere in “equivoci  fuorvianti, il “Rousseau filosofo e romanziere” e il “Jean-Jacques uomo” devono  essere considerati l’incarnazione di unica, indivisibile “anima”; un’anima sondata e  esplorata, in questo volume, alla luce del nesso tra antropologia e politica.

20/04/2014
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