A partire da Hegel… Momenti e figure dell’idealismo italiano
T. Serra (Cedam, Padova, 2009)
Nell’ampia introduzione, Teresa Serra si sofferma sul tema che costituisce il filo rosso del suo volume: il ripensamento, dopo il marxismo, della centralità di Hegel. Centralità che si ripropone, alla sensibilità del nostro tempo – come sottolineato anche da Antimo Negri – sia nella critica hegeliana all’individualismo, sia nella prospettiva di tessitura interdisciplinare – filosofia e diritto, filosofia e politica – tipica, del resto, della tradizione del pensiero neoidealistico italiano cui quest’opera di Teresa Serra si rivolge, a compimento di un lungo itinerario di studi. Entrambe queste linee, per la studiosa, consentirebbero di recuperare una consolidata tradizione italiana di pensiero, in grado di offrire elementi preziosi grazie ai quali tentare la ricomposizione culturale e politica di cui il nostro paese necessita grandemente. Ma questo, ci ricorda, è oggi possibile proprio grazie alla “fine del parametro marxiano, col quale, in positivo o in negativo, nella cultura novecentesca venivano per lo più interpretati sia Hegel che gli hegeliani” (p. XI). Tale operazione sarebbe preziosa per mettere in luce quella che, a parere di Serra, è una della caratteristiche più interessanti di molta parte della tradizione di pensiero italiana: la tendenza a utilizzare il metodo dialettico hegeliano per formare una nuova filosofia del diritto capace, come sostiene Piovani, di individuare “metodi nuovi, atti a cogliere l’esperienza etica della concretezza del suo essere più che nella purezza del suo dover essere, nella varietà delle sue forme esistenti, piuttosto che nella formalità delle sua obbligazioni, generalmente, precettivamente formulate” (P. Piovani, La filosofia del diritto come scienza filosofica, Giuffrè, Milano 1963, p. 39, in T. Serra, cit. p. XXII).
Dato questo quadro di intenti, al tempo stesso ampiamente ricostruttivo e connotato da una precisa ambizione propositiva, l’Autrice passa poi ad analizzare autori e temi fra i più importanti della cultura giuridico-politica italiana tra Ottocento e Novecento che, più o meno consapevolmente, sono stati influenzati da quell’antiscissionismo hegeliano, dalla irriducibilità della dialettica “concretezza storica-filosofia”, “società civile – Stato”, che costituisce appunto, nell’ottica proposta, una vera e propria ‘medicina’ per la riflessione filosofica e per l’azione politica.
Il primo capitolo dell’opera è dedicato a Gli hegeliani di Napoli e rivolto alla ricostruzione del pensiero di Silvio e Bertrando Spaventa e di Francesco Fiorentino. Anche qui l’elemento comune individuato tra i tre autori dall’Autrice è, una volta di più, quella contiguità tra pensiero e vita concreta, da lei sottolineato come il vero motore dell’azione e della ricerca di Silvio Spaventa, a proposito del quale sottolinea come ‘la lotta contro l’astrattismo in tutte le sue forme’, fosse la sua caratteristica saliente fin da giovane. Secondo Serra, Silvio Spaventa manifesta questa sua attitudine parlando sia di “profondo sentimento della legge”, di “moderatismo”, di “senso giuridico”, sia di “fede altrettanto profonda nel cammino della libertà”. Doppio binario che contraddistingue la riflessione giuridico-politica di Silvio Spaventa, rivelando, nella convinzione espressa che “il diritto non è l’espressione di un potere o di una volontà che si ponga al di sopra della comunità, ma è la stessa esperienza comune che si traduce in legge” (p. 4), le evidenti ascendenze hegeliane, ma, anche, vichiane. Spaventa, tuttavia, non giungerebbe mai ad “attualizzare” tale coincidenza poiché rimarrebbe estraneo all’oltrepassamento del momento dialettico libertà-autorità, diritti-doveri, verso una perfetta, cioè concretamente, storicamente realizzata, sintesi etica. E ciò fa riconoscere a Teresa Serra, non solo l’hegelismo ma anche il kantismo di Spaventa. Vero è, scrive l’Autrice, che il richiamo alla temperanza intesa come riconoscimento, interiorizzazione e mantenimento della distinzione tra autorità e libertà, pubblico e privato, priorità della Costituzione o della legge, sempre presente nei testi spaventiani, si accompagna ad una illuministica fiducia nel progresso della ragione. Tuttavia questa fiducia, tipicamente idealistica e tipicamente risorgimentale, non coincide mai con una sottovalutazione delle difficoltà, della lentezza del progresso stesso. Spaventa, ricorda la Serra, rimane sempre cosciente che tra la concretezza storica dei rapporti di potere e la loro giustificazione teorica c’è uno scarto. E che dal mantenimento di questo scarto – da cui dipende la centralità del tema della rappresentanza, in Spaventa – dipendono sia la giustizia che la libertà e l’uguaglianza.
Anche la figura di Bertrando Spaventa riflette, secondo l’Autrice, la ricezione italiana di un idealismo mai risolto in astrattismo – come sottolineava anche Gentile – ma piuttosto mantenuto in feconda tensione con una prospettiva filosofica umanizzata e storicizzata secondo la non dimenticata lezione di Vico (p. 20). E partendo da qui è possibile ricavare il nodo centrale del pensiero spaventiano nella ricostruzione di Teresa Serra, volta a dare ragione della sua particolare lettura del positivismo, a proposito del quale l’Autrice parla di mondanizzazione del divino e divinizzazione dell’umano. È l’esigenza “che accomuna … non solo Spaventa, Marx e Gentile, ma tutto il pensiero del Novecento … di praticizzare il problema stesso della conoscenza” (p. 27) a chiarire il senso del ‘positivismo’ spaventiano, percorsa, tuttavia, grazie all’interiorizzazione da lui compiuta della acquisizioni vichiane e kantiane, da un’invalicabile differenza rispetto all’attività sensitiva marxiana. Alla base della speculazione di Spaventa si riscontra infatti una metafisica della mente, che pone il concetto di esperienza in una posizione ambivalente, irriducibile ad un materialismo assoluto. Nella ricostruzione dell’Autrice, Bertrando Spaventa approfondirebbe gli elementi realistici di Hegel e, filtrandoli attraverso il principio vichiano del verum-factum, approderebbe al proprio particolare ‘positivismo’, escludente, al contrario di Gentile, ogni coloritura trascendente, ma, contestualmente, anche decisamente anti-materialistico. Esito di questo tentativo sarebbe una sintesi di realismo e idealismo capace di ricondurre entrambi all’unico fondamento dell’umanità, intesa come Soggetto.
Anche Francesco Fiorentino, altro hegeliano napoletano sul quale si sofferma l’Autrice, pur muovendo da un iniziale interesse per la questione del rapporto fede vita, approda all’immanenza dopo l’incontro col pensiero di Bertrando Spaventa, accogliendone la tesi sulla “circolazione delle idee”. L’incondizionata ammirazione iniziale per l’ontologismo giobertiano e l’adesione alla tradizionale filosofia della creazione di Fiorentino subiscono una profonda correzione dal momento in cui questi inizia a porsi la questione del rapporto Infinito-mondo-umanità in un’ottica non più trascendete ma, piuttosto, immanente (p. 57). Teresa Serra – muovendosi nella fitta rete di filiazioni teoriche con la sicurezza che le deriva dalla chiara individuazione del leit-motiv del complesso periodo filosofico che va ricostruendo – sottolinea la presa di coscienza, da parte del Fiorentino, dell’entusiasmo suscitato dal pensiero di Gioberti in un contesto quale era quello italiano del periodo Risorgimentale. Ancora una volta, è l’idea di un’attività positiva della mente ciò che fa da trait d’union tra il particolare positivismo o immanentismo di Silvio e Bertrando Spaventa e Francesco Fiorentino e la loro concezione dello Stato. L’anti individualismo e il positivismo degli hegeliani di Napoli, scrive Teresa Serra, non determina in essi una sovrapposizione tra uomo e Stato, né tra il piano speculativo e il piano dell’esistente, bensì il mantenimento di una tensione dialettica tra i due. Ciò che per Gentile diventerà Stato trascendentale o in interiore homine, rimane per gli hegeliani di Napoli, secondo Serra, “autocoscienza direttiva” (p. 71) ovvero acquisizione di un senso dello Stato inteso non semplicemente come conoscenza di un sistema giuridico, ma come coscienza dello stretto legame tra tale sistema e la cultura e la tradizione su cui esso si innesta.
Il pensiero di Gentile domina il secondo capitolo del testo, muovendo dal rapporto tra l’idealismo di Gentile e il fascismo, vero e proprio momento cruciale dell’incontro tra pensiero e realtà storica. Da questo rapporto non può rimanere estraneo il confronto con l’altro idealismo dell’Italia primo-novecentesca, e cioè con l’idealismo di Croce. Caratteristiche comuni ai due filosofi sarebbero, per l’Autrice, l’opposizione al positivismo, insieme ad un liberalismo inteso in senso antigiusnaturalistico, antiilluministico e antisocialistico, cui farebbe da contro-altare il “grande senso di laicità che connota il liberalismo di Croce, contrapposto al sentimento religioso sempre presente in Gentile” (p. 83).
Tanto il pensiero di Croce quanto quello di Gentile, centrati sul concetto di libertà, sul rapporto libertà-cultura e, quindi sul rapporto tra la politica e la morale, divergono nella lettura dell’idealismo, tanto da dar vita a due vie differenti: Gentile proporrà della libertà un concetto eminentemente ideal-regolativo, da cui dipende il ruolo o la funzione pedagogica riconosciuto alla cultura e l’equivalenza tra il diritto e la moralità; il concetto di libertà del Croce, invece, rimane, per Serra, ancorato alla luce di una prospettiva storico-economica, giuridico e politica, dalla quale deriva la funzione critica riconosciuta alla cultura e la funzione garantista riconosciuta al diritto.
Teresa Serra sottolinea come sia proprio il differente modo di intendere il rapporto politica-morale a distinguere i due. Croce combatte contro l’individualismo astratto e intellettualistico ma, allo stesso tempo, “combatte contro la politicità della filosofia” (p. 87), contro la sua funzione di supporto o di giustificazione dei rapporti di forza che determinano un sistema politico. Insomma, secondo l’Autrice, è il maggior realismo di Croce, la lezione da questi ricavata dagli economisti e dai giuristi, ciò che gli consente di non pervenire alle medesime posizioni di Gentile.
La questione che si pone l’Autrice, tuttavia, riguarda l’opportunità di chiedersi se in Gentile, oltre l’innegabile spinta all’identificazione di storia e filosofia dettata dall’esigenza monistica, immanentistica, attualistica, si conservi “un qualche residuo di trascendenza”, se, in altre parole, vi sia una identificazione assoluta tra Stato etico e Stato storicamente esistente. La risposta è, che “La logica gentiliana, che vede in ogni problema un problema che è eterna soluzione e in ogni soluzione una soluzione che è eterno problema, non può acquietarsi, se vuole essere coerente, dinanzi ad una soluzione storica che sia dia una volta per tutte” (p. 93) e, dunque, precisamente qui si individua la chiave che consente di cogliere il motivo non immediatamente filosofico capace di spiegare l’adesione di Gentile al fascismo. Il concetto di libertà, in Gentile, appare infatti talmente segnato dalla dialettica hegeliana, da impedire che la forma di esso possa considerarsi realizzata una volta per tutte. Come la libertà, anche lo Stato non può sottrarsi al doppio movimento di accettazione-superamento che l’idealismo come filosofia e come atteggiamento pratico implica. Scrive, dunque, Teresa Serra: “…l’adesione gentiliana al fascismo forse è stata anche frutto di una mancata comprensione della sua vera essenza, derivante da buona fede e da ingenuità politica, forse anche da mancanza di realismo politico, non certamente accettazione di principio dello Stato autoritario, piuttosto frutto di una proiezione del desiderio che si completasse l’iter risorgimentale attraverso la realizzazione di uno Stato che fosse il regno della libertà realizzata” (p. 95). Non ci sarebbe, dunque, “consustanzialità” tra attualismo e fascismo, e ne sarebbe ulteriore dimostrazione il fatto che molti antifascisti – quali Gramsci o Gobetti –, si siano formati alla scuola di Gentile. Circa la possibilità di riabilitare il pensiero di Gentile, per rivalutarne la figura in un contesto differente, l’Autrice sottolinea il “significato della distinzione gentiliana tra Io trascendentale e io empirico, e la fondamentalità del primo per la stessa pensabilità del secondo” (101), al cui interno si fonda “la difesa gentiliana contro le accuse di misticismo, solipsismo, totalitarismo … nella consapevolezza della necessità della distinzione tra il piano speculativo e il piano empirico, il piano logico e il piano psicologico, sul quale ultimo soltanto si potrebbe parlare di gerarchia tra le varie funzioni o facoltà dello spirito e sul quale ultimo soltanto … forse si può parlare di gerarchia tra stato e individuo, tra individuo e individuo” (idem). Invece il lascito gentiliano più importante, per Teresa Serra, consiste nell’aver egli preconizzato chiaramente i temi sui quali si sarebbe giocata la filosofia de XX secolo: il rapporto soggetto-oggetto – da cui il tema della scienza – la diade necessità-libertà – da cui il tema della prassi e della sua inscindibilità con la teoria, che spinge a riconoscere la centralità della politica (102).
Il terzo capitolo si concentra sull’idealismo di Angelo Ermanno Cammarata, sui suoi rapporti con Giuseppe Capograssi e con Vincenzo La Via. Nella ricostruzione dell’Autrice, Cammarata avrebbe abbracciato l’attualismo gentiliano arricchendolo, però, di un recupero del senso storico, personale, del soggetto e di una correzione della dialettica particolare-universale. Cammarata è descritto come “un filosofo del diritto che, partendo da un assunto di fondo immanentistico, ritiene, preliminarmente, come si è già detto, che l’atto del pensiero sia la forma unica e assoluta della realtà e, sulla base di questo postulato, svolge una riflessione, interessante e personalissima nell’ambito del neoidealismo, sul significato e sul senso del pensiero ordinario, pervenendo ad un dichiarato formalismo nel campo del diritto fondato proprio su un’ansia di concretezza che si palesa come critica consapevolezza dell’identità del pensiero e del reale” (p. 159).
Oltre la “critica” a Gentile, di Cammarata, di cui qui manca lo spazio per rendere conto, Teresa Serra sottolinea anche il contributo alla ricezione e alla critica italiana del formalismo giuridico di Kelsen. Quest’ultimo, secondo Cammarata, riducendo il trascendente della norma al trascendentale della legge, definendo cioè il rapporto uomo-Stato a partire dall’equivalenza tra Stato e ordinamento giuridico, finirebbe per confondere atteggiamento filosofico e atteggiamento scientifico e riprodurrebbe, sebbene attraverso un movimento di principio opposto, lo stesso esito astrattamente deterministico del naturalismo. Il formalismo del filosofo del diritto Cammarata è messo a fuoco, poi, grazie al confronto con Giuseppe Capograssi. L’ipotesi di fondo della Serra è che “Capograssi possa aver svolto, a sua volta una funzione di guida alla correzione dell’attualismo gentiliano, indirizzando Cammarata verso il recupero dell’individualità concreta” (p. 160). Nonostante l’immanentismo dell’uno si contrapponesse all’orizzonte del trascendente dell’altro, secondo la Serra, Cammarata e Capograssi hanno in comune la libertà e l’imprevedibilità riconosciuta all’iniziativa del singolo, la rivalutazione dell’esperienza assoluta del soggetto. Questo riconoscimento starebbe a monte dell’antideterminismo, dell’antiintellettualismo e dell’umanismo di fondo di entrambi i pensatori le cui assonanze e divergenze vengono colte, dalla Serra, nell’atteggiamento di entrambi di fronte alle questioni fondamentali all’idealismo e del neoidealismo italiano e di fronte al formalismo giuridico kelseniano.
La riflessione sull’idealismo del Cammarata viene poi affrontata dalla Serra, attraverso il confronto con un altro allievo dichiarato di Gentile, Vincenzo La Via. La questione per entrambi è quella del formalismo assoluto di Gentile derivante dall’identità di essere e pensiero, diritto e morale, e sulle conseguenze che da questa derivano circa il rapporto libertà-autorità, individuo-Stato. Scrive la Serra: “Ci si deve chiedere, quindi, se la libertà dell’uomo sia potenziata dalla dimostrazione laviana dell’impossibilità di negare l’esistenza di Dio o di un Assoluto o se, invece, la libertà dell’uomo venga meglio garantita ove ci si fermi, come fa Cammarata, alla filosofia dell’immanenza; se comunicazione con gli altri e, prima di tutto, riconoscimento degli altri possa darsi sulla base di un’essenziale comunicazione con l’Essere – per cui c’è la coscienza personale – di cui parla La Via o se, al contrario, esclusa la presenza di un tale Essere, perché fonte di limitazione e condizionamento, si possa ugualmente garantire la possibilità della comunicazione” (pp. 187-188).
Il quarto capitolo è dedicato a “I gentiliani confessi” e in quattro paragrafi schizza il profilo di altrettanti Autori. Nel primo si affronta la figura di Ugo Spirito la cui riflessione, per Teresa Serra, è caratterizzata dalla continuità ed organicità con cui vengono tenuti insieme due motivi principali e opposti: “da un lato la consapevolezza dell’antinomicità del modo di presentarsi della realtà alla conoscenza umana, cioè la consapevolezza dell’imprescindibilità di una contraddizione che non può essere risolta dialetticamente, dall’altro un’ansia monistica che si traduce nell’unità del reale come ideale della ragione e che vale da correttivo al nichilismo insito nella prima convinzione” (p. 205). La particolare opzione scientista di Spirito, la sua teoria di un’azione senza verità accompagnata al tema della decisione o scelta personale appare all’Autrice delineare un problematicismo che lo pone in una posizione non semplice da decifrare, sempre in bilico tra irrequietezza ed equilibrio, tra scetticismo ed ottimismo, tra liberalismo e autoritarismo.
Una terza via tra individualismo e collettivismo sarebbe tracciata, per l’Autrice, da Felice Battaglia; il cuore della posizione di questi, infatti, sarebbe individuabile in una costante tensione “tra l’esigenza religiosa trascendentalistica, cristiana, e l’attaccamento alle origini attualistiche” (p. 216). Queste origini attualiste si sostanzierebbero, secondo Teresa Serra, nell’idea dello “spirito come attività”. Nell’ottica di una realizzazione dell’uomo come dignità e umanità, quell’idea appare al Battaglia, divenuto così sostenitore di un’assiologia spiritualistica, presupposto in grado di mediare il rapporto economia-morale, individuo-Stato, e salvare in tal modo la “coessenzialità” del concreto vivente alla storia umana: ancora una volta, si vede qui emergere il filo rosso che guida la ricostruzione di Teresa Serra.
Il terzo autore cui è rivolta l’attenzione dell’Autrice è Marino Gentile. Questi trarrebbe da Giovanni Gentile, oltre il tema del rapporto tra filosofia e storia della filosofia, “la consapevolezza della necessità del reciproco rapporto tra agire e pensare, tra teoresi e prassi vista come agire politico” (p. 232). Marino Gentile sarebbe debitore di Giovanni Gentile, anzitutto del modo di intendere la filosofia come impegno civile e morale. L’incontro di Marino col cattolicesimo gli avrebbe poi consentito di porsi al riparo dagli esiti antiumanistici del “sistema” e dell’immanentismo gentiliano per sfociare in una apertura alla storicità essenziale della natura umana, alla “coessenzialità” di pensiero e prassi, alla dialetticità irriducibile di esperienza personale e tradizione.
Con Giacomo Perticone si chiude il quarto capitolo. La circostanza rilevata dall’Autrice nell’avviare l’analisi del pensiero di Perticone concerne la sua pressoché completa sparizione dagli scritti di filosofia del diritto della seconda metà del secolo XX. Teresa Serra sottolinea il debito della riflessione giuridica contemporanea nei riguardi della visione unitaria, mediatrice del rapporto universale-particolare, soggetto-oggetto, che la riflessione del Perticone offre grazie alla sua opzione per la categoria della “tipicità”. Egli parla, infatti, di “volontà tipica” o “realtà tipica”, volendo definire con queste espressioni la concreta unitarietà delle visioni del mondo che non possono mai presentarsi come astratte e arbitrarie costruzioni.
In apertura del quinto e ultimo capitolo del libro, dal titolo Quasi una conclusione e dal sottotitolo …Per finire a Hegel, la Serra afferma: “Se si riflette sulla società contemporanea caratterizzata dallo sfrenato consumismo non si può che tornare a Hegel, e precisamente a quei paragrafi 182-198 dei Lineamenti di filosofia del diritto, vale a dire a quei paragrafi che toccano il sistema dei bisogni, la loro artificialità e moltiplicazione all’infinito, cioè quello che Hegel definisce la mala infinità dei bisogni” (p. 263). Si rivela qui l’elemento centrale di questo studio accuratamente analitico ed ampiamente ricostruttivo di Teresa Serra, che viene indicato nel “monito” hegeliano alla salvaguardia della mediazione, implicito nella centralità della dialettica Società Civile-Stato, anziché nel “sistema” hegeliano che si costruisce a partire dal superamento o dalla prospettiva del superamento di tale dialettica. Tale superamento, nota appunto Teresa Serra, avviene nel senso della subordinazione dello Stato alla società civile, ma anche della subordinazione di quest’ultima a quel sistema di bisogni che pare incapace di orientarsi da solo, risultando, perciò, destinato ad essere diretto dall’inessenzialità, dalla particolarità affermata come assoluta. Il problema di fondo con cui l’Autrice pare, nell’insieme, voler fare i conti, è quello del nichilismo e del determinismo dell’epoca contemporanea: l’individualismo e il solipsismo dell’uomo, per un verso; il collettivismo o il totalitarismo per l’altro. In quest’ottica, va quindi letta la riproposizione, da lei operata, di Autori che hanno tentato di elaborare in un’accezione marcatamente “umanistica” la filosofia hegeliana. Di fronte alla riduzione del soggetto a funzione o meccanismo di un sistema, sia esso descritto in termini economici, giuridici, sociali, morali, l’antidoto hegeliano che Teresa Serra ha inteso rintracciare è quello del “riconoscimento”, dell’Anerkannstein, dell’antiscissionismo. Antidoto che consente, secondo la Serra, una reinterpretazione critica meno “coinvolta” dell’idealismo otto-novecentesco, e la possibilità di riprendere e valutare della cultura giuridico-politica idealista italiana, e dell’attualismo in particolare, coloro che ne hanno riconosciuto sia la validità che l’ambiguità e con esse hanno sempre cercato di fare i conti.