Una genesi ininterrotta. Autobiografia e pensiero in Jean Jacques Rousseau

Iolanda Poma (Mimesis, Milano-Udine, 2013)

Dedicare uno studio all’opera autobiografica di Jean-Jacques Rousseau ha come  presupposto quello di riuscire dotarsi di uno sguardo interpretativo che si misuri con  il tentativo di cogliere la specificità, tanto filosofica quanto, si potrebbe dire,  esistenziale che contraddistingue l’andamento della vita e della riflessione del  pensatore ginevrino; una specificità, non si può non sottolineare, i cui contorni  tendono a prendere forma e consistenza solo a patto che venga “calata” nel  mainstream culturale e filosofico del XVIII secolo. Rousseau, lo si sa, può (e deve)  essere considerato a pieno diritto un pensatore illuminista, tanto attento testimone  quanto mirabile portavoce dei sommovimenti culturali e filosofici che segnarono il  XVIII secolo, il suo secolo, il secolo che vide la stesura e la pubblicazione  dell’Encycolpédie (nella quale sono presenti, del resto, alcune voci redatte dal  Ginevrino) il secolo “ferito” dal catastrofico e imponente terremoto di Lisbona (1°  novembre 1755), il secolo della Rivoluzione francese ecc. ecc. Purtuttavia, chi ha un  po’ di dimestichezza con l’opera autobiografica rousseauiana sa bene quanto tesi,  intricati, a volte apertamente conflittuali, fossero i rapporti tra l’autore del Contratto e i più illustri esponenti – mi si passi l’espressione – dell’intellighenzia illuminista  (Diderot, d’Alembert, Voltaire, Grimm, solo per citarne alcuni). A dividerli, in primo  luogo, la critica al mondo dei salotti, delle “maschere”, prodotto «perverso»,  nell’ottica rousseauiana, del processo di civilizzazione, a torto ritenuto portatore di  benefici e «progressi» sul piano storico-sociale e su quello individuale. E che anzi,  tutt’al contrario, nel «discostare» l’uomo dalla sua dimensione originaria e naturale,  lo costringe entro una condizione di «debolezza» e di radicata «infelicità». «Quanto  meno l’uomo – invece, scrive Rousseau nel Libro secondo dell’Emilio – si è  discostato dalla condizione naturale, tanto minore in lui è il divario tra facoltà e  desideri e tanto meno, per conseguenza, egli è lontano dall’esser felice. […] La  miseria – infatti – non consiste nella privazione delle cose, ma nell’avvertirne il  bisogno» (J.-J. ROUSSEAU, Emilio o dell’educazione, tr.it. di P. Massimi, Armando  2012, Libro II, p. 129). Ecco da dove si dipana la critica che Rousseau muove alla  società del suo tempo. Critica che, secondo l’A., si rispecchia fedelmente e  coerentemente nella «struttura» che contraddistingue il racconto del sé rousseauiano.  Scrive Poma: «L’idea edificante del soggetto che il racconto di sé dovrebbe  esprimere entra in aperta frizione con la soggettività di Rousseau che egli ci  consegna nelle sue Confessioni: il suo non è – infatti – un processo lineare di  incremento, un ordinato percorso di formazione, seguendo il quale il lettore lo vede  procedere verso l’altezza della propria essenza». Tutt’altro: «Non c’è progetto, piano  stabilito». Ed è appunto per questo che non può essere ritenuto un giudizio affrettato  o approssimativo il dire, come fa Poma, che «l’opposizione filosofica di Rousseau al concetto di progresso si trova anzitutto espressa nel racconto della propria vita» (p.  14). 

L’analisi, attenta e mai scontata, che l’autrice del volume qui preso in esame fa del  racconto del sé rousseauiano, delle – come lei le definisce – «confessioni laiche» di  Jean-Jacques, si rivela essere, così, strumento prezioso proprio per cercare di cogliere  la specificità e la peculiarità della riflessione rousseauiana. Specificità – va  sottolineato – che viene fatta risaltare con forza non trascurando (o misconoscendo),  allo stesso tempo, i profondi e significativi debiti che Rousseau dimostra di avere nei  confronti di autori cardine della modernità. Uno su tutti: Cartesio, che per primo,  secondo l’autrice, riconobbe «dignità speculativa al legame che unisce la storicità dei  fatti raccontati e il versante dell’argomentazione; «nesso» poi rafforzatosi con  l’illuminismo; «legame» il cui momento fondativo deve essere rintracciato, di diritto  e di fatto, in una «scoperta», per certi versi, dai tratti rivoluzionari: la «scoperta della  soggettività». 

«Della soggettività nella modernità – scrive Poma nell’Introduzione – è ormai  incancellabile la consapevolezza della sua esistenza finita, incorniciata dal nulla».  L’io moderno, mette bene in evidenza l’A., è un io che deve fare i conti, mediante le  sue sole forze, con i limiti, le imperfezioni, le contraddizioni che caratterizzarono la  condition humaine. È un io, in altre parole, tanto «libero» quanto «privo» – perché  scientemente se ne priva – di ogni «referente divino», svincolato, com’è, da ogni  qualsivoglia «premessa metafisico religiosa». Così facendo tuttavia, il soggetto  moderno non può far altro che rinunciare, nel medesimo tempo, ad ogni forma di «tutela» nei confronti delle miserie che costellano la condizione tragica in cui versa. 

Negandosi la possibilità di proiettarsi entro un orizzonte di senso trascendente, non  può che rassegnarsi all’impossibilità di veder, per così dire, “riscattate”, le miserie, le  ferite, le storture che coinvolgono e contraddistinguono la sua «esistenza infinita». Quello moderno tende a presentarsi, pertanto, come un pensiero che, sganciandosi da  appigli di natura metafisica o religiosa si «impegna» a riconsiderare ex novo «il peso  reale della storia e la reale posizione dell’uomo nel suo tempo» (p. 7). Emblematiche, da questo punto di vista, si dimostrano essere le vicende e le  dinamiche interiori dell’io rousseauiano, raccontateci, all’insegna della trasparenza, nel corso delle migliaia di pagine che compongono l’opera autobiografica di “Jean Jacques” (per intenderci, Confessioni, Dialoghi, Fantasticherie, Lettere a Malesherbes). D’altronde, quello che in quest’ultima viene scoperto non è forse un  soggetto che ha premura di presentarsi al lettore come protagonista assoluto del  racconto che fa di sé? “Vi un unico, solo, vero attore in scena”, sembra dirci, con  tono tra l’altro perentorio, l’autobiografia rousseauiana: l’io, che, nel tentativo di  «giungere a sé», attraverso un «movimento riflessivo», un «atto secondo» di  «ricostruzione di sé», di tentata edificazione o ri-edificazione della sua identità, tende  a relegare in una posizione del tutto marginale, di meri spettatori tanto l’Altro (Dio)  quanto gli altri (gli uomini del suo tempo). L’io, insomma, sembra voler portare a  compimento il suo (gravoso) progetto di «ricostruzione» identitaria appellandosi soltanto alle sue sole forze, unicamente – si potrebbe dire – al suo sguardo  introspettivo e «riflessivo». Gli altri, l’Altro, volendo rimanere fedeli alla trama su cui è improntata la «storia» dell’io rousseauiano, devono limitarsi a conoscere e  riconoscere la consistenza e l’entità del suo «sforzo edificante», senza partecipare,  per questo, minimamente all’opera di «ricostruzione» messa in atto da “Jean Jacques”. Eppure, ci dice Poma, nella scrittura autobiografica – e su questo punto  quella rousseauiana non sembra fare eccezione – la dimensione dell’alterità tende a  giocare un ruolo fondamentale, di primo piano tra le trame del racconto che l’io fa di  sé. «Quasi tutte le autobiografie – afferma l’autrice – sono motivate dal bisogno  dell’autore di porre chiarezza e di dare risposta all’incomprensione altrui, come  testimonia il caso di Rousseau». L’io, in altre parole, decide di “brandire” la penna, con la precisa volontà di raccontare ogni singolo, minuto, dettaglio della sua «storia»,  perché si sente e si percepisce come «vulnerato» dall’alterità. La scrittura  autobiografica sembra, così, prendere le mosse da un «inesausto tentativo di  chiarimento» di «riconoscimento», di «risoluzione», di cui l’io ha vissuto  tragicamente l’assenza e la «mancanza nella «vita vera». E a chi o a che cosa, agli  occhi dell’io che si racconta, deve essere ascrivibile la responsabilità di tale assenza,  di tale «mancanza»? Appunto alla dimensione dell’alterità. Ed è solo a partire da  questa decisa attribuzione di responsabilità che si riescono a comprendere le istanze  più profonde che indirizzano lo sguardo riflessivo del soggetto. La scrittura infatti è,  per l’io, «l’unica strategia di resistenza possibile a un’identificazione imposta»;  l’unico modo per cercare di guadagnare una sorta di indipendenza dal  «riconoscimento» altrui». Così facendo, il soggetto autobiografico, tuttavia, s’illude  di poter costringere tutti coloro che decideranno di leggere la sua «storia» a  sperimentare la sua radicale «indisponibilità» a farsi «fissare in un’identità  definitiva». Ad esempio, leggendo l’autobiografia rousseauiana si ha l’impressione  che il gesto autobiografico, consumato nella più totale e incondizionata solitudine,  venga concepito da Jean-Jacques come una sorta di atto tanto “vindice” quanto di  riscatto nei confronti di coloro (i philosophes) che ostinatamente – a suo dire – lo  dipingono, agli occhi del pubblico, come una sorta di esecrabile e odioso criminale,  acerrimo nemico dell’umanità. Come ci ricorda l’autrice: «È da pensare – infatti – che le confessioni di Rousseau, che esprimono una fortissima esigenza esistenziale di  essere riconosciuto per come egli è, lavorino però al contempo per differire questo  momento (post mortem), estromettendolo dal presente vissuto, in cui il  riconoscimento nella sua forma violenta si fa sperimentare minacciosamente come  pericolo di cadere nell’equivoco e nella persecuzione. Le confessioni vorrebbero  riuscire – così – a materializzare l’unico riconoscimento non temibile, quello che  proviene dallo sguardo dal lettore» (p. 55). 

Una cosa è certa: se si conviene che il soggetto scriva, decida di raccontarsi perché  tormentato dall’esigenza di «chiarire» ciò che gli altri, nella «vita vera», hanno reso  (e rendono) fosco, confusionario, contraddittorio, è evidente che la dimensione  dell’alterità non può essere, in nessun caso e in nessun modo, elusa, accantonata, non  presa nella dovuta considerazione. Anzi, l’io che ambisce, intessendo le trame della  sua «storia», a «ricostruirsi», non può che identificare la dimensione dell’alterità  come una tappa ineludibile sul percorso che dovrebbe condurlo alla ri-edificazione  della sua identità. Ma l’io che non si nega l’incontro con l’Altro, l’io che si apre all’alterità, come si è visto, è un io «vulnerato», ferito; un io, in ultima istanza,  costretto, fino in fondo, a fare i conti con la miriade di contraddizioni che costellano  la sua esistenza finita. Contraddizioni che rendono la sua opera di ricostruzione di  difficile, difficilissima attuazione.  

Rousseau si dimostra essere, d’altronde, pienamente consapevole del rischio  connesso all’instaurare una relazione senza frontiere con ciò che è altro da sé.  Ciononostante, sa che un io senza Altro è un io condannato all’incompletezza, alla  scissione, alla disarmonia interiore. Ecco che allora, se è vero che ricerca la  solitudine perché prova un’inesauribile senso di estraneità nei confronti degli uomini maschera del suo tempo, sembra individuare nel rapporto con la «Natura» l’unica,  auspicabile e praticabile forma di alterità nella condizione di isolamento e di esilio in  cui versa. Scrive Poma: «L’altro per Rousseau si specifica nelle figure della Natura,  della Donna e di Dio, in un modo – tuttavia – che rende difficile distinguerle con  precisione. La relazione più evidente, più salda e più costitutiva della sua esistenza è  quella con la Natura, in cui sembrano confluire le altre due figure di alterità» (p. 83).  

Ciò detto, non va dimenticato – anzi, va fortemente sottolineato – che lo strumento (la scrittura di sé) di cui si serve per tentare di portare a compimento la sua opera, più  che far «chiarezza», non riesce ad altro, in realtà, che a «rilanciare l’equivoco». «Quella autobiografica – scrive l’autrice – è una scrittura storica che si sporca con la  realtà, un pensiero compromesso nella vita». Ma è anche un pensiero “disincantato”;  un pensiero che si «nutre dell’apporto essenziale dell’immaginazione» e che «sa  quali giochi si verifichino tra realtà e finzione». «Bisogna sempre immaginare ciò  che si pensa – afferma Poma – e questo porta inevitabilmente all’elemento fittizio» (p. 12). Non solo. Il rischio più significativo legato, per così dire, all’abuso di una  facoltà come quella dell’immaginazione è quello di arrivare a conferire «realtà alle  idee in assenza di mondo», producendo così non solo la «deformazione della realtà»,  ma anche, nel medesimo tempo, «l’alienazione mentale del soggetto e il suo  sperdimento in mondi paralleli». «In Rousseau – afferma, a buon diritto, Poma – questa duplicità non è mai disinnescata» (p. 116). L’io rousseauiano è un io ferito  dall’alterità, un io che, per cercare di sanare le ferite inferte (o per non subirne di  nuove, magari più dolorose), si affida alla sua straordinaria vis immaginativa, decide  di raccontarsi, tentando di fugare ogni ombra, ogni chiaroscuro, ogni pur minima  zona grigia. Vorrebbe, cioè, che la sua storia non fosse altro che l’espressione di  un’interiorità non «equivocabile», cristallina, trasparente; una storia, cioè, modellata  sulla base di una «chiarezza», di una linearità che il soggetto non è in grado di  rintracciare nel flusso caotico e scostante della «vita vera». Al soggetto occorre una  trama dai contorni ben definiti sui improntare il suo progetto di «ricostruzione di sé». «Nella parola scritta su di sé l’autore cerca la misura delle proprie azioni che fa  convogliare il proprio fluire temporale, indistinto e disseminato, in una storia» (pp.  65-66). Trama, «storia» modellata sotto la spinta di un’immaginazione vivace,  dirompente, a tratti incontrollabile, che, nel fagocitare la realtà, nel plasmare il  ricordo per «potersi pensare» (p. 65) e nel rivelare, per questo, il suo carattere  «fittizio», tende a gettare, allo stesso tempo, un luce trapassante sulle fragilità, le  mancanze, le assenze che tormentano, senza tregua, il soggetto che si racconta. Per questo, la «trasparenza di sé» a cui l’io rousseauiano perviene, più che instradarlo su  un’ambìta e desiderata «risoluzione delle opacità», non fa altro, in realtà, che mettere  al centro della scena l’«inestricabile intrico» che dimostra di essere (e che tutti noi  forse, alla fin dei conti, siamo): «trasparenza di sé – conclude giustamente Poma – a  sé per ciò che si è» (p. 47). 

17/11/2013
Data
Autore

Non utilizziamo cookies di tracciamento degli utenti o di profilazione. Per saperne di più puoi visitare la pagina relativa ai cookies.