Una battaglia contro gli spettri. Diritto e politica nella Reine Rechtslehre di Hans Kelsen ( 1905-1934)

A. Scalone (Giappichelli, Torino 2008)

Il libro “Una battaglia contro gli spettri” di A. Scalone, è incentrato sull’esplicitazione  dei rapporti fra diritto e politica nella Reine Rechtslehre di Kelsen. A partire dalla messa  in luce della relazione intercorrente tra i due termini, l’autore produce un’immagine  originale del pensiero del giurista viennese. Tale relazione rappresenta lo snodo in virtù  del quale il libro stesso si struttura: sono riconducibili ad essa non solo le critiche nei  confronti della teoria giuridica dominante ma anche l’aspra opposizione che Kelsen  muove nei confronti del giusnaturalismo e dei suoi fondamenti. 

Porre l’accento sul modo in cui si sviluppa e si palesa la relazione politica-diritto  significa in primo luogo sottolineare come la dottrina pura del diritto, di cui Kelsen è  artefice, non sia il frutto di un distanziamento rispetto alla realtà concreta, in particolare  alla realtà politica, ma sia piuttosto il risultato consapevole di una totale immersione  nelle dinamiche proprie di ogni azione politica e sociale. Nelle pagine del libro emerge  una concezione kelseniana della politica che come spazio di antagonismi e conflitti,  luogo di per sé mai pacificato.  

Il problema specificamente giuridico che emerge a partire da una simile constatazione  riguarda il modo in cui il diritto debba configurarsi per poter agire sulla politica  regolamentandola. Come costituire, cioè, un ordinamento giuridico, in una situazione in  cui sussiste un conflitto incapace di auto-limitarsi? La risposta di Kelsen, chiarificata fin  dalle prime pagine del libro di Scalone, consiste nella necessità di scindere chiaramente  diritto e politica: pur appartenendo alla stessa sfera di senso in quanto concetti  “normativi”, il loro legame naturale deve essere costituito in modo tale da evitare  quella politicizzazione del diritto che lo rende non più strumento efficace per la  regolazione dei conflitti, ma arma in mano a chi detiene il potere. La battaglia contro gli  spettri che Kelsen agisce nei confronti di un diritto come mezzo della politica, la sua  posizione a favore di una vera neutralità del diritto, è ciò a partire da cui è possibile  

garantire l’uguaglianza di possibilità fra coloro che confliggono sulla scena politica. Il  diritto, se reso puro rispetto alle istanze della dimensione politica, diventa ciò che  permette alla politica di esplicarsi senza che il conflitto giunga a impedire la  costituzione di un ordine. 

Tra analisi giuridica e dimensione politica si costituisce un intreccio di tipo logico: è a  partire da una considerazione eminentemente scientifica di tipo giuridico che è possibile  mettere chiaramente in luce le dinamiche della dimensione politica, le quali, altrimenti,  resterebbero per lo più occultate.  

La critica nei confronti della politicizzazione del diritto non ha come scopo la  costituzione di un diritto separato dalla dimensione politica, ma «essa appare piuttosto  rivolta contro il nascondimento ideologico del rapporto complesso fra la sfera politica e  quella giuridica, contro il tentativo di far passare come giuridiche -e quindi come  neutrali- decisioni corposamente politiche». Un diritto che sia capace di svolgere una funzione di disvelamento rispetto alla sfera  politica è un diritto che è innanzitutto “forma”, “protezione”, ovvero ciò che, reso puro  da ogni scopo e interesse, si rivela come «mero apparato coercitivo, come pura e  secolarizzata “tecnica sociale”». Ogni ordinamento giuridico rappresenta quindi un  insieme di norme la cui specifica funzione è quella di limitare la libertà individuale a  favore della costituzione di un ordine sociale altrimenti impossibile. Scopo del diritto è  quindi quello di dare all’azione umana una forma che ne renda possibile l’interazione  con gli altri membri dell’unità politica che viene a costituire. Attraverso la formalità del  diritto si trasferisce forma all’azione umana. Non ci sono quindi finalità più alte che  promuovano lo svilupparsi del diritto, come ad esempio la difesa di diritti ritenuti  naturali; il diritto come tecnica agisce sempre e solo allo scopo di fornire quegli  strumenti che mentre limitano la libertà di ciascuno garantiscono a tutti la possibilità di  esprimere sulla scena pubblica quegli interessi sociali di cui sono portatori. Il diritto, se  quindi da una parte appare avere una funzione meramente negativa di costrizione e di  coercizione, d’altra parte è il solo mezzo in grado di garantire, mediante questa  costrizione, un’uguaglianza di chances degli attori in gioco sulla scena pubblica.

Alla critica nei confronti di questa azione specificamente politica nei confronti del  diritto vengono a loro volta ricondotte le critiche ai fondamenti del giusnaturalismo:  l’esistenza di un diritto naturale, la possibilità dell’esplicarsi di una volontà generale, il  contratto come fondamento dell’unità politica. 

In particolare, ciò che viene sottolineata da Scalone nel suo libro è proprio la critica alla  volontà generale, la quale rappresenta ciò che fornisce a Kelsen la possibilità di  interpretare lo Stato e le sue funzioni sotto una luce diversa rispetto alla dottrina  giuridica dominante nel suo tempo. Secondo Kelsen, non esiste nessun popolo unitario  così come nessun interesse generale capace di confluire all’interno di una volontà  altrettanto generale e unitaria; si tratta in questo caso di qualcosa che se da un lato  rappresenta un’illusione metafisica, dall’altro essa è una finzione giuridica, finzione  che deve essere accettata nella misura in cui la si intenda nel senso di una costruzione  concettuale che non mira alla costituzione di un ente come quello della persona dello  Stato o dell’interesse generale. Illusione metafisica quindi, nella misura in cui si  presuppone con la volontà generale che essa sussista concretamente, finzione giuridica  nella misura in cui essa serve all’idea di un’unitarietà dell’ordinamento giuridico. 

Interessante è inoltre il modo con cui Kelsen riconduce il lavoro dei deputati a quello  dei rappresentanti cetuali, in quanto essi, non potendo essere rappresentanti di uno Stato  inteso come portatore di un interesse generale, non sono altro che portatori di un  interesse parziale, rappresentanti cioè di specifici interessi sociali.  

All’idea di diritto inteso come strumento formale di garanzia e di protezione rispetto  alle dinamiche della politica viene ricondotto il concetto di ordinamento giuridico e a  questo lo Stato. Stato e diritto si identificano e in modo tale che l’unica consistenza che  può avere lo Stato è una consistenza giuridica. 

Lo Stato non rappresenta più il punto più alto rispetto al quale viene ricondotta la  volontà del popolo; esso cioè non viene più concepito come il farsi “uno” del popolo e  della sua volontà. Lo Stato è nient’altro che l’ordinamento giuridico, ovvero quella  struttura formale, nell’idea di Kelsen, che dovrebbe garantire che le diverse e irriducibili volontà provenienti dai molteplici interessi in gioco sulla scena politica possano avere  voce. 

Al di là quindi di qualsiasi visione antropomorfica e organicistica dello Stato il giurista  viennese ne fornisce un’interpretazione che, se da un lato lo de-sostanzializza, dall’altro  lato permette alla sostanza autentica e concreta della società di esprimersi confliggendo,  garantendo al contempo la sussistenza dell’ordinamento giuridico di quel dato  momento. 

Ma se lo Stato si identifica con il diritto ciò comporta di conseguenza che basta  modificare quest’ultimo per produrre la possibilità di una trasformazione stessa dello  Stato. L’aspetto davvero rilevante che qui Scalone sottolinea è come ciò abbia una  «funzione politicamente liberatoria»: quella di Kelsen non è una teoria dell’astrazione  e dell’immobilità, ma anzi apre lo spazio a riforme e cambiamenti giuridici che si  ripercuotono immediatamente sulla scena politica. Se, da un lato, in questo specifico  senso Kelsen si avvicina alla tradizione del pensiero politico moderno, intendendo lo  Stato come prodotto specificamente umano, nondimeno esso se ne discosta nella misura  in cui tale prodotto, precario e artificiale, non può essere mai giustificabile nei termini di  una volontà e di un interesse generali.  

Di fronte a queste considerazioni Scalone sottolinea come la posizione di Kelsen, pur  affermando la necessaria purificazione del diritto dalla politica, ha una sua politicità  intrinseca, che pare contraddire, in apparenza, le intenzioni del giurista. La Reine  Rechtslehre infatti non riesce a depurarsi completamente dalle istanze della politica ed è  politica in un triplice senso: nel momento stesso in cui si pone su un piano di denuncia e  di opposizione alla politicità delle posizioni della dottrina giuridica del suo tempo, in  quanto produce conseguenze politiche mirando alla costituzione di un diritto che  garantisce alla politica il suo esplicarsi, ed infine essendo ciò a partire dal quale è  possibile riconoscere l’ambito politico come ambito eminentemente conflittuale. 

Per il diritto quindi, prescindere totalmente dalla politica non è possibile poiché ogni  azione o idea giuridica ha conseguenze sul piano politico; pur essendo interpretato come  ambito scientifico il giuridico rimane intrinsecamente legato rispetto alla sua sfera di applicazione. Più in generale potremmo dire che non c’è scienza che mediante le sue  analisi non abbia ripercussioni sul piano del reale; non si può quindi prescindere dal  prender parte nei confronti di una realtà nella quale ci si trova inscritti e nella quale il  nostro pensiero si esplica. Kelsen è ben consapevole di ciò, ma sa anche che per una  strutturazione ordinata del reale è necessaria una rete giuridica che, nell’affermare la  necessità di norme impersonali e formali, evidenzia al contempo come la realtà al di là  di queste, è null’altro che disordine e conflitto. 

12/05/2010
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