Stato e rivoluzione. Saggio su Antonio Gramsci

Carmelo Calabrò (ETS, Pisa, 2012)

Il proposito dell’autore è illustrare come la filosofia politica dell’intellettuale sardo  scaturisse puntualmente dall’osservazione della storia. In filigrana, appare l’intento di  leggere Gramsci in maggiore continuità e armonia con una tendenza evidente nel  pensiero italiano di inizio secolo: quello slancio vitale, attivo, spirituale, quel ritorno  dell’uomo al centro della storia, che accomunava Croce e Gentile, Einaudi, Rosselli e  Salvemini, e che affondava le radici in una critica spietata al positivismo. È proprio  questo, forse, l’aspetto più suggestivo del libro.  

Già negli anni giovanili, riflettendo sull’essenza della democrazia dalle colonne  dell’«Avanti!» o del «Grido del Popolo», Gramsci tracciava una netta distinzione tra le  esperienze anglosassoni e quella italiana, che ne sarebbe stata una “caricatura” o una  “negazione”. In Italia, le istituzioni liberali e democratiche erano solo una maschera,  dietro la quale un’oligarchia restava salda al potere pur cambiando volti e parole  d’ordine. Clientele, burocrati e repressioni frenavano quella presa di coscienza, da parte  degli individui, delle loro potenzialità e dell’universalità dei loro diritti, che per Gramsci  era la missione più alta della democrazia liberale e, insieme, poneva le basi della  rivoluzione proletaria.  

Lo spirito d’impresa e il desiderio di ascesa sociale, che nei Paesi anglosassoni avevano  reso i lavoratori consapevoli del proprio valore, in Italia non avevano attecchito. Il  popolo era ancora passivo, prigioniero di un’immobilità secolare. 

Non solo: l’Italia unita si era macchiata di una colpa ancora più grave, considerando  nelle sue politiche sociali gli operai del Nord industriale, ma ignorando i contadini del  Sud agricolo. Il proletariato italiano cresceva a metà, con una frattura tra città e  campagna che sembrava insanabile. 

Il paradosso di un rivoluzionario che elogia il capitalismo più sfrenato è solo apparente.  La polemica del giovane Gramsci era contro le “incrostazioni borghesi”: corporazioni,  cricche, privilegi. E tutto ciò che favoriva lo “sviluppo di forze storiche nuove”, che  scatenava una “rivoluzione morale”, che scuoteva gli uomini dal torpore, per lui era  benvenuto. L’ideale era che fossero i socialisti a farsi carico di questo compito. Per  questo Gramsci si scagliava contro il riformista Turati, che in cambio di qualche “brodo  di lasagne” si era lasciato risucchiare dal sistema che avrebbe dovuto distruggere. 

Per Gramsci era necessario che un soggetto politico incarnasse l’intransigenza,  l’opposizione radicale all’esistente, proprio perché un cambiamento di prospettiva nel  lungo periodo era più importante di qualunque successo immediato: “Il compito dei  liberali se lo sono assunto i socialisti, e la tattica intransigente del partito, in quanto  rinnega e combatte ogni collaborazione con lo Stato, servirà al progresso economico più di tutti i bellissimi studi che la Riforma sociale stampa per il suo pubblico di professori  e di convertiti” (p. 37, da I liberali italiani, 12.9.1918).  

Gramsci si spingeva fino a riscoprire un “senso mistico religioso del socialismo”, da  contrapporre ai “piccoli politicanti crassamente materialisti nei loro moventi” che  pretendevano di ostacolarlo. Impeto, fede, volontà erano dalla sua parte: a svilire lo  spirito umano erano invece i suoi avversari, sia esterni -i borghesi arroccati in difesa del  sistema- che interni -chi, a sinistra, se ne stava ad aspettare l’avverarsi delle profezie di  Marx.  

Così nella sperimentazione dei soviet, all’indomani della presa del potere da parte di  Lenin, Gramsci vedeva uno strumento formidabile di emancipazione dell’individuo.  “Tutti i lavoratori possono far parte dei soviet, possono influire nel modificarli e renderli  meglio espressivi della loro volontà e dei loro desideri. La vita politica russa è  indirizzata in modo che tende a coincidere con la vita morale, con lo spirito universale  della umanità russa” (p. 52, da Utopia, 25.7.1918). 

Calabrò spende diverse pagine per raccontarci i tentativi gramsciani di organizzare  “consigli di fabbrica” a Torino durante il biennio rosso, mostrando che tale elogio non  era solo retorico. 

In effetti, le gesta dei bolscevichi furono una vera e propria illuminazione per il filosofo  italiano. Insieme alla più temibile tra le potenze autoritarie, crollava quel marxismo fatto  di attesa, di leggi ferree, di dogmi scientifici, che troppo a lungo aveva narcotizzato i  proletari europei.  

“I bolscevichi vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la  continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era  contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone  sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le  società degli uomini, degli uomini che si accostano tra loro, (…) comprendono i fatti  economici, li giudicano e li adeguano alla loro volontà finché questa diventa la motrice  dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva” (La rivoluzione contro il  “Capitale”, 24.12.1917). 

Quanto era avvenuto al Palazzo d’Inverno rimetteva tutto in discussione: tenendo conto  delle ovvie differenze tra il contesto russo e quello italiano, era finalmente possibile  abbattere l’odiato sistema borghese e guidare la transizione verso una nuova società. E  se, durante il biennio rosso, in tale transizione Gramsci assegnava un ruolo decisivo ai  Consigli di fabbrica e ad una temporanea dittatura proletaria, negli scritti successivi,  proprio meditando sul passato dell’Italia, affinò il suo progetto, non mirando più ad una  “guerra di manovra” ma ad una “guerra di posizione” (p. 75 e ss.) e contemplando come  fine una “società regolata”.  

Il Gramsci presentato fin qui, campione dell’umanesimo, può infatti sembrare  irriconoscibile negli anni della prigionia, quando concepisce il “moderno Principe” e un  ordine che non ha remore nel definire “totalitario”. Ma Gramsci è un filosofo del  paradosso. E il suo percorso, in realtà, è sempre chiaro e lineare. 

In un carcere fascista, nel mezzo di una crisi economica mondiale, è convinto che il  declino delle democrazie liberali sia ormai irreversibile. Deve immaginare un’entità che  si impegni per realizzare la nuova società, e che nel frattempo ne sia il primo embrione:  ecco il partito, nuovo Principe machiavellico e nuovo Dittatore romano, che si  impadronisce della Repubblica non più per salvarla ma per rifondarla. 

La missione del partito rivoluzionario non consisteva più in un improvviso colpo di  mano, né nell’accendere piccoli nuclei vitalistici di autogestione delle risorse, ma in un  lungo e costante sforzo per la conquista dell’egemonia. Non più “guerra di manovra”,  appunto, ma “guerra di posizione”. 

Da questo punto di vista, i celebri passi dei Quaderni sul Risorgimento si possono  leggere come un manuale di strategia, una galleria di esempi positivi e negativi ad uso  del partito-Principe. Gramsci, ennesimo paradosso, ammirava Cavour e biasimava  Mazzini. Il conte, infatti, era riuscito ad attirare i democratici nell’orbita del suo progetto  moderato, conquistando quella posizione egemone che sola permette le grandi  trasformazioni storiche. L’apostolo, invece, non solo non era mai riuscito a convincere i  moderati del suo progetto democratico, ma era risultato tiepido nel coinvolgere i ceti  popolari, ad esempio parlando troppo poco di riforma agraria. Avventati ma non  intransigenti, i mazziniani erano l’esatto contrario di quel che Gramsci e il suo partito  aspiravano ad essere.  

Tuttavia, quando Gramsci descrive l’intima ragion d’essere del partito, sembra davvero  vicino a Mazzini . “Il moderno principe deve e non può non essere il banditore e  l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che poi significa creare il terreno  per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il  compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna”. E ancora: “Il  programma di riforma economica è appunto il modo con cui si presenta ogni riforma  intellettuale e morale”.  

Arriviamo così ai cruciali passi dei Quaderni sugli “intellettuali organici”, che farebbero  da cerniera tra dirigenti e diretti. Quando non ci sarà più competizione politica né  economica, e il Principe avrà assorbito in sé tutti i cittadini, la libertà e l’iniziativa di  questi ultimi si esplicheranno nell’adesione sincera al nuovo ordine e nella pratica della  nuova morale. Tanto più che il Principe è destinato a dissolversi, lasciando solo gli  individui, dopo averli cambiati e rinnovati. “Nei Paesi dove esiste un partito unico e  totalitario di Governo…tale partito non ha più funzioni schiettamente politiche ma solo  tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e culturale”.  

L’intellettuale era la figura più adatta per realizzare questa “libertà organica”, questo  “conformismo dal basso”, questo “uomo-collettivo” con cui Gramsci tentava di  risolvere in un regime totalizzante l’eterno anelito umano alla libertà. Tentativo che il  libro di Calabrò rende ben comprensibile, spiegando come Gramsci abbia avuto la sorte  di essere il più strenuo difensore della libertà umana in un’epoca in cui lo Stato liberale,  screditato e vacillante, pareva ormai incapace di garantirla.

18/10/2015
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