Roberto Bellarmino e Thomas Hobbes. Teologie politiche a confronto

E. Fabbri (Aracne, Roma, 2009)

Ci sono testi che si segnalano per l’accuratezza della ricostruzione filologica e concettuale, capace  di sollecitare l’attenzione anche degli specialisti in materia. Altre opere, invece, suscitano interesse  per le linee di ricerca a cui offrono spunto, riuscendo a gettare luce nuova su nodi teoretici ricorrenti.  Assai più raro e prezioso, infine, è un libro che metta il lettore in condizione di tesaurizzare entrambe  queste dimensioni, associando al rigore analitico la fecondità delle suggestioni euristiche. A questo  duplice requisito risponde, mi sembra, il volume di Enrica Fabbri. La mia impressione complessiva,  in altre parole, è di essere in presenza di un testo che adempie ad un obiettivo per più versi meritorio:  focalizzandosi con una lente analitica sugli aspetti teologico-politici della riflessione di Hobbes,  mentre allarga, con l’altra, l’angolo visuale ad una prospettiva di teoria della modernità, esso rende  un servizio al campo degli studi hobbesiani, ma anche a chi è interessato, più in generale, alla  tematizzazione moderna del rapporto fra religione e politica. 

Il lavoro di Fabbri viene anzitutto ad occupare un terreno, come la stessa autrice osserva (p. 14),  sorprendentemente poco battuto nell’ambito della ricezione di Hobbes. Nonostante un recente fiorire  di interesse – motivato peraltro, mi permetto di suggerire, più dalla cogenza del presente che da  motivazioni interne agli studi hobbesiani –, la teologia politica resta una delle parti più in ombra del  pensiero di Hobbes. Un deficit di considerazione critica che stride con la biografia intellettuale del  filosofo inglese, che a questioni teologiche dedicò segmenti importanti della sua riflessione, nonché  la metà circa della mole complessiva dell’opus maius del 1651, il Leviatano. Nei suoi intenti generali,  questo volume è dunque il tentativo di rendere ragione di un percorso teorico costellato di suggestioni  e interventi sul terreno teologico, o piuttosto teologico-politico, che conoscono in Bellarmino soltanto  l’obiettivo polemico più reiterato ed esplicito. 

Rispetto a yale nucleo problematico, la struttura del lavoro di Fabbri presenta, anche ad una lettura  distratta, almeno due aspetti degni di menzione. In primo luogo, la ricostruzione si avvale di una  conoscenza profonda dell’intera produzione hobbesiana. Non soltanto, quindi, il volume porta  l’attenzione su temi ancora insufficientemente frequentati dalla letteratura critica, ma lo fa mobilitando anche i testi meno noti, e in alcuni casi mai tradotti in italiano – in particolare, l’Anti White del 1643 –, in cui la riflessione teologico-politica di Hobbes ha trovato sistemazione. In  secondo luogo, mi sembra valga la pena spendere qualche parola sull’impianto complessivo del libro.  Esso, infatti, riesce a tenere insieme in maniera convincente l’accuratezza della ricostruzione storica,  pur senza mai pretendere di costituire un’opera di storia della filosofia, né tantomeno di storia della  Chiesa, con un respiro propriamente teoretico, che lo rende a tutti gli effetti un lavoro di filosofia  politica. Uno dei suoi obiettivi fondamentali è, appunto, quello di inquadrare la posizione hobbesiana  nel contesto nel dibattito teologico-politico del suo tempo, anche attraverso puntuali riferimenti – e  qui l’autrice sviluppa le intuizioni consegnate da Carl Schmitt ad Ex Captivitate Salus – alla  vicenda biografica del pensatore inglese. Nondimeno, anche quando si concede circostanziate  digressioni, l’argomentazione mantiene sempre ben dritta la barra sul focus filosofico o concettuale  in questione. 

Siamo dunque di fronte ad un lavoro dotato, al di là del notevole impegno analitico – e, direi,  filologico – che comunque vi traspare, di un taglio eminentemente teoretico. È in questa prospettiva  che Fabbri affronta le due questioni al centro del suo interesse. Da una parte, tracciare una mappatura  del “corpo a corpo” con la teologia politica di Bellarmino che Hobbes ingaggia, attraverso tutta la sua  produzione, non appena si confronta con tematiche teologiche. Dall’altra, dare conto del secondo  grande fronte polemico che impegna il filosofo inglese, quello aperto contro le denominazioni settarie  di matrice calvinista. Così individuati gli schieramenti, l’idea a mio parere saliente del lavoro, e con  più marcati profili di originalità, è che fra i due versanti polemici ricorrenti nella teologia politica  hobbesiana vi sia uno sbilanciamento, un’asimmetria non espressa, ma non per questo meno  operativa. Tale tesi sostiene, in termini provocatori, come non sia in realtà il confronto con il  cattolicesimo, rappresentato dalle posizioni di Bellarmino, e che Fabbri pone fin dal titolo al centro  della sua ricostruzione, il cuore pulsante della prestazione teologico-politica del filosofo del  Leviatano (pp. 13-14, 98, 102-103). Ben più problematica, infatti, appare la discussione con coloro  che si rendono fautori di un soggettivismo radicale nell’accesso e nell’interpretazione dei Testi Sacri.  Sono i presbiteriani, i “fanatici” che si pretendono direttamente ispirati da Dio, a rappresentare, ben  più dei cattolici, un inciampo alla modalità di neutralizzazione del conflitto religioso messa in campo  da Hobbes. Se è vero che la Chiesa di Roma costituisce il bersaglio più appariscente nelle pagine  hobbesiane, e quello su cui soprattutto si è focalizzata la critica, diversamente l’idea chiave di Fabbri  è che siano i presbiteriani, come più chiaramente emerge nel Behemoth, i portatori della più  consistente minaccia all’unità e all’ordine del corpo politico.

Chiesa cattolica romana e sette presbiteriane incarnano, in effetti, due diverse modalità di  dissoluzione del potere sovrano. Il cattolicesimo opera “dall’esterno”, secondo un modello che è  quello del conflitto inter-statale: esiste uno Stato, quello pontificio, retto da un sovrano, il Papa, che  agita ricompense e pene ultraterrene per distogliere i sudditi inglesi dal dovere dell’obbedienza al  legittimo sovrano terreno. La Chiesa cattolica pone, in altri termini, un contenzioso di sovranità:  rivendica una potestas sulle questioni religiose – sia pure, almeno nella versione adottata da  Bellarmino, indiretta – tendenzialmente universale, estesa ai sudditi non sottoposti alla sua  giurisdizione secolare. Sarebbe tuttavia sufficiente che Roma abdicasse alle sue “mire  espansionistiche”, esercitando il comando teologico-politico al solo interno dei propri confini, per  porre fine ad ogni dissidio (pp. 123-124). Infatti, lungi dal metterlo in questione, il cattolicesimo  rappresenta piuttosto un modello ineguagliato per quello che è il cardine della teologia politica  hobbesiana: la necessità di un’interpretazione autoritativa del contenuto del messaggio salvifico. La  ierocrazia pontificia e il cesaropapismo propugnato da Hobbes tendono a sovrapporsi nella comune  indicazione dell’esigenza di una mediazione “dall’alto” nella ricezione delle verità della fede.  

Al contrario, il potenziale dirompente dell’esperienza settaria si situa proprio nel rifiuto di ogni  interposizione autoritativa, che sia del Papa o del sovrano, nell’accostarsi alle Sacre Scritture.  L’assunzione coerente del principio scritturale si traduce nella negazione della legittimità della  decisione sovrana in materia di fede, a favore della libera espressione del carisma religioso  individuale. Ma lasciare che l’agire religioso esuli dall’ambito della regolazione politica non significa  altro, per Hobbes, che esporre il Leviatano alla minaccia spettrale, tanto più esiziale in quanto  endogena, della guerra civile a matrice confessionale. 

È dunque essenzialmente nella rivendicazione presbiteriana della libertà religiosa, assai più che  negli “anatemi” provenienti da Roma, che Hobbes scorge pericolose occasioni di disordine politico.  Molto lucidamente, Fabbri definisce l’opzione teologico-politica di Hobbes a partire da due opposte  esigenze (pp. 83-86). Da una parte, egli propugna il ritorno al kerygma evangelico contro le  sovrastrutture teologiche funzionali al potere di un clero cattolico imbevuto di cultura filosofica greca.  Si tratta di un progetto a cui non sono estranee venature proto-illuministiche, di emancipazione dalla  superstizione, ma che Fabbri, a mio parere in maniera persuasiva, riconduce a motivazioni  squisitamente politiche. D’altra parte, le pretese settarie di un accesso individualizzato, im-mediato  ai Testi Sacri si scontrano con l’esigenza, tutta terrena, di preservare l’ordine politico dagli esiti  polemogeni di una proliferazione incontrollata del pluralismo delle opinioni circa la salvezza. Il  disaccordo con Bellarmino verte dunque “semplicemente” sull’attribuzione del comando teologico politico in materia di fede – per il teologo cattolico, compete al Pontefice romano su tutta la cristianità, per il filosofo inglese, ad ogni sovrano territoriale –, non sulla sua opportunità; la quale è da entrambi  difesa contro l’interpretazione “spoliticizzante” del sola Scriptura fatta propria dai presbiteriani. 

Le medesime linee di frattura, che scompaginano l’immagine tradizionale di Hobbes, possono  essere portate allo scoperto affrontando la questione, come fa Fabbri, anche nei termini della  residualità del profetismo nell’intervallo, che ormai si palesa non brevissimo, fra l’incarnazione di  Cristo e la seconda e definitiva parusia. Mentre per Hobbes – e per Bellarmino – viviamo in un’epoca  priva di profeti, i fanatici settari sono descritti come coloro che presumono di godere di un rapporto  di diretta ispirazione divina (p. 103). È evidente quale sia per Hobbes la posta in gioco: dare credito  all’esistenza di una profezia autentica – non riducibile, come egli in realtà crede, a posticcio  entusiasmo motivato in ultima istanza dalla brama di potere – significherebbe spalancare le porte al  conflitto fra l’autorità istituzionale del sovrano, unico interprete legittimo del Testo Sacro, e l’autorità  carismatica di cui è latore il profeta. L’architettura hobbesiana si regge sull’attribuzione al detentore  dell’autorità politica del monopolio dell’interpretazione del sacro; monopolio che verrebbe messo in  crisi se, a quanto “sta scritto” per volontà sovrana, qualsiasi fedele “entusiasta” potesse opporre il  proprio “ma io vi dico”. Il definitivo esaurimento dell’esperienza profetica, di conseguenza, è la  posizione su cui tanto Hobbes, quanto Bellarmino, si attestano per neutralizzare la carica  intrinsecamente rivoluzionaria della predicazione carismatica dei profeti. 

I punti di merito di questo lavoro trascendono, tuttavia, la proposta di un diametrale spostamento  del focus polemico della teologia politica hobbesiana, secondo la linea argomentativa che ho  brevemente ripercorso. È soprattutto all’Introduzione che viene affidato un compito irriducibile alla  mera enunciazione delle tesi sviluppate nel corso del volume: quello di provvedere ad una  perimetrazione del campo della ricezione della teologia politica di Hobbes, isolando e descrivendone  i diversi filoni esegetici (pp. 15-29). In particolare, l’autrice si confronta con tre paradigmi  ermeneutici che hanno, in modi diversi, “preso sul serio” il versante teologico della proposta politica  hobbesiana. Ciò significa modelli interpretativi che non si sono accontentati di ricondurre l’interesse  teologico di Hobbes a motivazioni strumentali rintracciabili nella sua biografia, segnatamente il  tentativo – peraltro fallito – di disinnescare la pericolosità di un’opera sempre liminale con l’eresia;  piuttosto, hanno cercato di argomentare la sua funzionalità, o addirittura necessità, alla tenuta del  progetto hobbesiano, rivendicando per la teologia una cittadinanza pleno iure dentro i confini della  teoria politica. O meglio: rinvenendo nella religione l’inaggirabile presupposto pre-contrattuale  dell’artificio del contratto, il fondamento pre-politico dell’ordine politico. Attraverso questo  confronto, la ricerca di Fabbri è così proiettata al di là di una prospettiva strettamente esegetica o  ricostruttiva, per interrogarsi, a partire da una lettura di Hobbes, sullo statuto della modernità politica.

Il primo modello interpretativo è quello proposto da un lettore d’eccezione di Hobbes, Carl  Schmitt, che al pensiero del filosofo inglese ha dedicato una pluridecennale attenzione. Proprio a  Schmitt è ascrivibile un’intuizione di capitale importanza nella questione del rapporto fra religione e  politica: l’idea dell’insufficienza della coercizione politica a neutralizzare una conflittualità avente  per oggetto beni e mali, quali quelli ultraterreni, creduti superiori a quelli nella disposizione del potere  sovrano. Ma questa decisiva agnizione resta in Schmitt circoscritta alla monografia del 1938. Nei  contributi precedenti, e poi in quelli successivi, Schmitt assume invece Hobbes a paradigma  dell’ontologica necessità di una teologia politica: dell’apertura alla trascendenza come garanzia della  capacità del potere politico di esibire giustificazioni, cioè come fonte della sua legittimità. Il  riferimento alla teologia politica hobbesiana è dunque funzionale all’ontologia della politica moderna  elaborata da Schmitt negli scritti degli anni ‘20, come forma dell’agire in tanto legittimata a richiedere  il sacrificio della vita nel conflitto con un nemico, in quanto in grado di attingere ad un orizzonte  valoriale in qualche senso trascendente. Non posso ovviamente soffermarmi oltre; basti però dire  che Schmitt incorre qui, secondo Fabbri, in un sostanziale fraintendimento degli intenti teologico politici del filosofo inglese: in gioco non è infatti tanto la legittimità, quanto una più puntiforme  efficienza dell’ordine politico, secondo l’intuizione formulata dallo stesso giurista tedesco nel 1938  (pp. 21, 221). 

È questa prospettiva ad essere stata ripresa in anni recenti da Dimitri D’Andrea, che ne ha tratto  fondamentali conclusioni in chiave di teoria della modernità. Il punto nevralgico dell’argomentazione  di D’Andrea, sostanzialmente accolto da Fabbri, è la necessità di ricorrere a strumenti non politici,  ma discorsivi, che persuadano – e non costringano – attori che facciano riferimento a fonti di senso  ultime, di carattere religioso o lato sensu ideologico. Hobbes è quindi, in quest’ottica, il pensatore  che, illustrando le potenzialità della politica, per primo ne ha con altrettanta chiarezza individuati i  limiti: appunto, la sua impotenza a ricomporre con i mezzi che la identificano la violenza  religiosamente motivata. Di fronte ad identità a “trazione verticale”, cioè che attingono a risorse di  senso comunque eccedenti la sfera del dato, la politica è costretta a lasciare il passo a modalità non  coercitive di composizione del conflitto, che facciano leva su una possibile ridefinizione dell’auto percezione e degli interessi dei soggetti. 

Infine, Fabbri si confronta con quelle letture che mettono in luce come in Hobbes la religiosità,  una volta emendata da quegli elementi spuri che dividono i cristiani, possa fungere da fattore  identitario funzionale alla coesione del corpo sociale. In questo senso, è possibile rintracciare una  sostanziale continuità fra il ruolo che la fede religiosa può svolgere nella riproduzione della vita  sociale all’interno del Leviatano e l’idea di “religione civile” avanzata prima da Rousseau e poi da Tocqueville. Hobbes si porrebbe così all’origine della stretta che la modernità impone al rapporto fra  religione e politica, attraverso un duplice processo di sacralizzazione della politica e di  politicizzazione del sacro. 

Un’adeguata ricognizione della teologia politica hobbesiana non è dunque soltanto indispensabile  ad un ripensamento delle sue tesi nel contesto nella discussione del XVII secolo, ripensamento che si  traduce in quello slittamento del bersaglio polemico privilegiato che, come abbiamo visto,  rappresenta la tesi centrale di questo volume. Accanto a questo, il tentativo di Fabbri mi pare essere  quello di mostrare come la riflessione di Hobbes possa interloquire con profitto non solo con altri  classici del pensiero politico moderno, ma anche con le questioni che agitano un tempo, il nostro, in  cui con rinnovata urgenza si pone il problema della convivenza inter-religiosa e della definizione di  confini fra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di Dio”. Che la riflessione hobbesiana possa, ad onta  del suo carattere “scandalosamente” primo-moderno, fornire indicazioni in tal senso costituisce, in  fondo, il trait d’union delle interpretazioni con cui Fabbri fa maggiormente i conti, nonché la radice  ultima dell’inesausto confronto che il pensiero contemporaneo continua ad intrattenere con la sua  opera. 

19/03/2011
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