Politica trascendenza
R. Gatti (Studium, Roma, 2010)
In un’epoca ove la giustizia è tradita nel computo legalistico della ratio occorre ripensare il politico nel quadro di una trascendenza che lo ecceda. Con questo arduo compito si confronta Roberto Gatti nel suo ultimo libro Politica e trascendenza. Saggio su Pascal, Edizioni Studium, Roma, 2010. L’autore mette subito in evidenza l’originalità di Pascal, che raccoglie la tradizione medioevale senza riproporla, alla stregua di una tautologica ripetizione dell’identico, bensì intrecciandola al razionalismo moderno ed al protestantesimo luterano. Si profila un inedito punto di vista sulle fragilità del politico emergenti da una fenomenologia della condizione umana, il cui non senso trova, in Pascal, la sua giustificazione in un’ontologia dell’assenza derivante dal peccato originale. Tale condizione getta luce sulla complessità dell’esistenza: il peccato, infatti, diviene il trascendentale per comprendere il rapporto tra uomo e senso, tra politica e trascendenza. La caduta permette di non rinchiudere il politico nella sua mera origine storica e fenomenica, bensì di svelarne le sue aporie strutturali alla luce dell’originario. L’originario, in quanto sproporzione etico-ontologica, ha condannato l’uomo a peregrinare drammaticamente al di fuori del proprio asse, frustrandolo tramite la condizione del decentramento da sé e quindi dell’incapacità di cogliere verità e giustizia. Tuttavia la misère dell’uomo, risultante dal peccato originale, va dialettizzata con quella grandeur, precedente alla caduta, di cui resta solo la traccia nella forma di un insaziabile desiderio di giustizia. In base a ciò, un pensiero che voglia comprendere nel profondo la politica, secondo Gatti, deve evitare l’errore di appiattire la distanza fra originario ed origine. Deriva moderna di tale appiattimento non può che essere la risoluzione della tensione alla trascendenza entro lo schema di un mal riuscito immanentismo politico che pretende di risolvere la questione della giustizia entro lo spazio razionale del calcolo. Occorre prendere le distanze da quelle esasperazioni razionalistiche che trovano l’apoteosi nell’ottimismo dello stoico Epitetto, da un lato, e nella disperazione rassegnata dello scettico Montaigne, dall’altro. Se queste posizioni si pervertono nella corsa all’affermazione autoreferenziale da cui emerge un orizzonte scismatico del senso, al contrario, solo una prospettiva cristiana come quella di Pascal, in grado di conciliare i contrari, consente di recuperare ciò che le due prospettive antinomiche colgono, ognuna, solo in modo unilaterale. Così Pascal, da un lato, fornisce un contributo gnoseologico riconoscendo la necessità per la filosofia di essere integrata con la teologia, dall’altro illumina il contorto dominio dell’antropologia in cui la perfetta autotrasparenza della soggettività moderna viene problematizzata attraverso la messa in luce del conflitto interno, della fluidità, dello spaesamento e della sproporzione. Nucleo centrale della riflessione di Gatti è il ripensamento del politico a partire dall’inquietante scarto fra trascendenza ed immanenza nel quale la mediazione tra i due piani richiede il ricorso a modi diversi di pensare rispetto alle posizioni prevalenti nel medioevo e nella modernità. Entro questo quadro occorre menzionare l’agostinismo, ove la frattura è sminuita attraverso uno “schema di pensiero monistico” in cui ogni livello di realtà partecipa al bene dispiegato in forme gerarchicamente ordinabili. Poi, occorre riferirsi al tomismo, ove la scissione è ricomposta tramite il principio dell’analogia entis funzionale alla deduzione delle leggi umane dalla legge eterna. Successivamente il giusnaturalismo, in cui la separazione non è presa in considerazione in virtù dell’orizzonte secolarizzato nel quale emerge la riflessione sul diritto naturale che vorrebbe dare alla giustizia il volto antropomorfico mascherandone l’inconscio residuo teologico. Infine vi è il pur diversificato pensiero di Port-Royal che opera, soprattutto in Arnauld, nel tentativo di ridimensionare l’abisso fra trascendenza ed immanenza. Tale unificazione è raggiunta per altra via dal gesuitismo politico che, per evitare di perdere l’attaccamento dei fedeli, ha pensato di proporre una morale adattabile discrezionalmente a seconda delle esigenze singolari, degenerando inevitabilmente nel lassismo politico. Di contro a ciò Pascal lavora a partire della consapevolezza della scissione tragica fra trascendenza ed immanenza. Ma si badi, non si tratta di inquadrarlo in un’inedita forma di scetticismo politico. L’originalità di Pascal va ricercata nella possibilità di leggere il ritrarsi di Dio nelle cifre della trascendenza, la cui ermeneutica dovrebbe divenire lo strumento ragionevole necessario al reperimento di una sensatezza e di una legittimità del politico nel suo peregrinare invano verso l’ineffabile giustizia. Tutto ciò però non deve essere inteso alla stregua di una sbiadita riproposizione del platonismo. Infatti, se in quest’ultimo le cose del mondo sensibile sono riflessi delle Idee, in Pascal, piuttosto, sono annunci di una ritrazione che può essere unicamente interpretata attraverso il nesso figurativo fra finito ed infinito. Il riconoscimento dell’esistenza di leggi di natura deve necessariamente convivere con la loro inattingibilità dopo la caduta. Diviene così necessario indagare l’origine del politico nella direzione della relazione fra potere e forza. Tale connessione, pur sostanziando il politico nel suo senso originario, richiede la più sofisticata dissimulazione dinanzi al popolo. Per Pascal infatti, non potendo fare in modo che la giustizia divenisse forte, si è fatto in modo che la forza divenisse giusta: il fondamento del politico è la forza, o più brutalmente l’usurpazione. Tuttavia la mera forza, che nella sua essenza violenta sancisce l’infondatezza del politico, non è bastevole ad assicurare l’obbedienza; essa per prodursi e per stabilizzarsi abbisogna del concorso dell’immaginazione. Malgrado l’immaginazione sia la facoltà dell’illusione, dell’esteriore, della diversione, intesse la sua trama con l’esigenza della stabilità sociale. Essa si contamina con il desiderio di giustizia, la cui reminescenza è persistente nell’uomo dopo la caduta. L’uomo infatti obbedisce solo a ciò che pensa essere giusto, ed è qui che l’immaginazione opera l’inganno, pur essendo tuttavia sospinta dal desiderio di giustizia, cifra della grandeur persistente pur nella condizione di misère. Il popolo non deve vedere dunque l’usurpazione strutturante il politico, cosa che giustifica l’insidiosa deviazione dell’immaginazione. Questa dissimulazione crea la legittimità per il tramite di una mitezza dell’autorità in grado di produrre consenso. Ma, si badi, questa prospettiva non conduce né alla raison cynique di stampo machiavellico, nella misura in cui non vuole rinchiudere il politico nella mera attestazione del dato di fatto, né ad un pensiero del sospetto di stampo marxiano, nella misura in cui non vuole realizzare la mera distruzione delle illusioni. Al contrario, secondo la prospettiva seguita da Gatti, in Pascal diviene centrale il buon uso dell’immaginazione a fini politici: il segreto, qui, serve in primissima istanza a preservare la convivenza politica nello spazio costituito dall’“abisso” rispetto alla trascendenza e a far sì che la consapevolezza di questo abisso non diventi senso comune. In virtù di ciò il sovrano dovrebbe sempre tenere a mente il fatto che, dietro la simulazione della sua superiorità, si cela il vuoto di quella fragilità da cui egli non deve mai sottrarsi, pena la deriva tirannica. L’interpolazione di ragione ed immaginazione, base della mitezza dell’autorità, della stabilità dell’ordine, della garanzia della pace, della durata, conduce ad una ragionevolezza del politico che può tentare di edificare una qualche forma di legittimazione. Appare chiaro dunque come la considerazione del carattere del politico come spazio dell’apparenza non sia inquadrato nell’ottica di un’ermeneutica demistificatrice; al contrario esso poggia sulla necessità dell’immaginario. Qui si colloca ciò che Pascal chiama fondamento mistico dell’autorità. In esso anche l’amor proprio, elemento antisociale per antonomasia,dissimulazione può servire. L’egocentrismo può essere disciplinato tramite il buon uso della ragionevolezza che, lavorando con l’immaginazione, determina quella dissimulazione che lo utilizza funzionalisticamente all’ordine dell‘imago. Tramite ciò la ragionevolezza del politico è quel qualcosa che prende atto dei limiti oggettivi della ragione, che regola l’amor proprio nel quadro della sua sofisticata dissimulazione, ed infine si lega inestricabilmente con le istituzioni ed i costumi correnti. Tutto ciò è necessario in quanto per Pascal, nota Gatti, non è possibile all’uomo l’accesso alla vera giustizia. Questo non dovrebbe però determinare derive simili al nichilismo politico di matrice luterana poiché l’implosione del senso dovrebbe essere risolta nel pur precario rinvio simbolico alla cifra della trascendenza. Tale fragilità esistenziale, prodotta dal nascondimento di Dio dopo la caduta, pare essere responsabile del divertissement ampiamente diffuso nella vita sociale. Il divertere appare a Pascal alla stregua di un disperato gesto tramite cui fuggire da sé al fine di dissimulare a se stessi la propria miseria. Una tale condizione, nella quale non si sa consistere con sé e nella quale ci si volge verso svaghi che stordiscono, è anche l’immagine dell’uomo senza serietà. Il divertimento è un escamotage finalizzato ad esorcizzarericercato ciò che ci appare se anche solo per un attimo ci fermiamo a riflettere su noi stessi. Oltre esso si colloca una visione cristiana basata sull’accettazione del mondo in riferimento ai suoi limiti, sulla condivisione dello spazio politico ove il con-essere determini, alla luce dell’ermeneutica della cifra, la produzione delle regole necessarie alla ragionevolezza del politico. Tale nesso fra trascendenza e storia, se da un lato permette di esorcizzare l’angoscia e la disperazione degli esiti scettico-nichilistici di Montaigne, dall’altro consente di sconfessare la presunzione di chi, mirando ad una illusoria onnipotenza della ragione, pare ricadere entro un’illusoria quanto insidiosa parusia inframondana. Trattasi, secondo la lettura che ne propone Gatti, di un pensiero in cui la trascendenza non può, e soprattutto non deve, trovare specifica traduzione nella prassi storica, bensì deve valere alla stregua di una esigenza di senso che l’uomo deve rispettare e custodire. Tutto ciò, facendo capo alla dimensione dell’ineffabile, non può che avvenire in base alla relazione figurativa con la trascendenza incarnata da cifre che dovrebbero essere oggetto di un’ermeneutica analogico-simbolica mirante a salvaguardare, pur nella forma di un radicale problematicismo, il rimando del finito all’infinito. In tale ermeneutica la trascendenza si offre nel momento in cui si cela e, proprio in virtù di tale nascondimento, Pascal supera la partecipatio degli agostiniani e dei tomisti tramite la cifra simbolica che rinvia ad un’eccedenza ineffabile. Che poi tutto ciò debba costituire una chiara garanzia in grado di rimuovere in via definitiva il rischio di una deriva scettica e nichilista non è pienamente attestabile: tale problematica esiste come tensione interna a tutto il pensiero di Pascal. Ontologia dell’assenza e fenomenologia della condizione umana, infatti, sembrano intrecciate nella modalità della preminenza del primo termine sul secondo, da cui emerge una deriva pessimistica: il passaggio dall’analogia entis all’analogia simbolica, se da un lato mantiene un qualche rapporto tra finito e Infinito, dall’altro non riesce a annullare soddisfacentemente le derive nichilistiche. Da ciò prende le mosse la conclusione di Gatti. Nell’indagare il nesso fra politica, storia ed escatologia, il tema della cifra della trascendenza pare non permettere alcuna teologia della storia, bensì una dottrina della grazia diretta ai singoli uomini impegnati nel misterioso cammino della salvezza. In definitiva dunque, l’apparire dell’assenza nel cuore di ogni fenomenologia del politico rischia, a mio avviso, di annullare qualunque sforzo di normatività concernente la valutazione del corso storico e della sua valenza escatologica. Per questo, malgrado l’ordine politico non resti del tutto estraneo ad un rapporto con la trascendenza, troppo fragili sembrano i risvolti normativi caratterizzanti qualunque teoria della politica in virtù del potere dell’assenza.