Pensare la polis alla svolta del millennio.

Francesco Giacomantonio (Mimesis, Milano, 2013)

La tradizione accademica anglosassone è abituata ormai da vari anni a catalogare  studi e ricerche, associandoli a precise keywords; per questo libro, costituito da una  pregevole raccolta di dieci saggi che qui presentiamo, potremmo indicare  “keywords di natura etica”: 

– dedizione 

– pazienza 

– riflessione critica 

– disponibilità al confronto 

– esercizio civico 

– responsabilità 

In questi concetti sembra potersi sintetizzare una filosofia di lavoro ispirata a  principi che si fanno metodo di lavoro: comunità di studiosi che si dedicano con  pazienza e passione ad un’indagine su un dato tema, senza mai dimenticarne le  implicazioni sociali, politiche, etiche. Il ruolo di chi insegna, scrive, riflette, studia  si trova così ad essere illuminato dall’esercizio critico, dall’energia propositiva, dal  taglio analitico, dalla dimensione storica, nella speranza di lasciare una piccola ma  preziosa traccia nel presente difficile verso un futuro migliore. 

Ma venendo ai contenuti specifici del volume, si tratta di un lavoro collettivo che  cerca di passare in rassegna in modo sintetico e critico alcune fra le più significative  riflessioni sulla filosofia politica. Il pensiero sulla categoria del Politico si dispiega  lungo due delicate quanto complesse svolte storiche: 1. il passaggio dalla protesta  sociale e dal dibattito sui limiti dello sviluppo (anni Settanta) al capitalismo  selvaggio e alla caduta del Muro di Berlino (anni Ottanta/primi Novanta); 2.  l’affermarsi, intorno alla fine del millennio, della globalizzazione. 

Le pretese di esaustività e omogeneità vanno ovviamente calibrate e  contestualizzate in un libro come questo. Quanto alla prima, i criteri di scelta sono  indicati nella necessità di offrire un quadro di questo passaggio d’epoca, stimolando  al contempo dibattito e identificazione di problemi. 

Per quanto poi riguarda l’omogeneità, come spiega il curatore, <<si tratta di  contributi non necessariamente omogenei tra loro e, anzi, in alcuni casi  radicalmente opposti>> (p. 11). Dunque, scorrendo i dieci saggi-capitoli si notano  stili e letture, conclusioni e riferimento spesso ben differenti fra loro, per raccontare  dal profilo filosofico politico l’epoca che sbocca nella globalizzazione (peraltro non  trattata da tutti gli autori). 

Si percepisce anche il carattere di urgenza di un simile studio articolato in tempi  duri (e per troppi, durissimi) come gli attuali. Legare due concetti centrali come  logos e polis, analizzando il presente, volgendo lo sguardo al futuro e ripensando  alle lezioni del passato, in fondo è già “fare filosofia politica”. 

I temi toccati coincidono sostanzialmente con i concetti chiave della stessa politica:  potere, giustizia, Stato, democrazia, multiculturalismo, gestione delle differenze,  Capitale, sfera culturale, popolo, sovranità.

Il testo permette quindi di costruire percorsi di lettura differenti a seconda dei temi  degli autori che si vogliano privilegiare. In questa sede, ad esempio, scegliamo di  soffermarci su quattro capitoli in particolare: i contributi su Schmitt, Habermas,  Foucault, la biopolitica.  

Ricordiamo, comunque, gli altri sei lavori: più legati alla filosofia politica  normativa sono i saggi di Ottonelli su Rawls e di Del Bo su Nozick; Fistetti si  concentra sugli sviluppi del multiculturalismo, mentre Bellino approfondisce le  prospettive non occidentali di Sen; Barcellona e Monetti, infine, discutono autori di  maggiore radicalità come, rispettivamente, Castoriadis e Zizek – entrambi tutt’altro  che estranei a interessi psicoanalitici. 

Il contributo di Riccardo Cavallo – che, considerate le implicazioni più specifiche,  forse avrebbe anche potuto intitolarsi Schmitt e l’Italia: le categorie del politico e la  sua autonomia – fa un sostanziale punto su alcuni degli studi schmittiani nel nostro  paese (in particolare quelli di Carlo Galli). Ma soprattutto cerca di leggere la  ricezione del pensiero del giurista e filosofo tedesco alla luce delle interpretazioni  marxiste. Infatti, tracciando il percorso compiuto da alcuni concetti schmittiani  lungo le linee del pensiero di sinistra si scoprono insospettabili ascendenze: a  cominciare da Mario Tronti (per il quale Cavallo parla opportunamente di <<corpo  a corpo con i testi schmittiani>>, p. 74), passando per Massimo Cacciari (uno dei  primi sdoganatori dell’opera di Schmitt), fino a Giacomo Marramao, fra i lettori più  attenti dell’autore del Nomos der Erde.  

Del resto, come Marx critica lo Stato borghese, con pari acrimonia Schmitt attacca  Repubblica e costituzione di Weimar, mentre è ben rintracciabile il trapasso dal  politico all’economico in entrambi i pensatori. In fondo, una raccolta di scritti come  Le categorie del politico (benemerita opera curata da Gianfranco Miglio e  Pierangelo Schiera) appare nel 1972, cioè in un’epoca in cui ormai matura la crisi  del marxismo. 

Una delle correnti filosofiche e sociologiche del ‘900 come la Scuola di Francoforte  sbocca nelle diverse fasi del pensiero di Jürgen Habermas, indagato da Francesco  Giacomantonio (che è anche il curatore del volume). Il tardo francofortese mostra  una natura profondamente multidisciplinare e pluritematica, occupandosi di  filosofia e sociologia, politologia e psicologia, linguistica e multiculturalismo,  globalizzazione e diritto, etica e migrazioni. 

Se nella fase fine anni Cinquanta/Settanta si concentra su opinione pubblica, crisi di  legittimazione del tardocapitalismo e depoliticizzazione delle masse, mantenendo  buona parte della radicalità adorniana (pur in forte conflittualità con Marcuse e con  i movimenti studenteschi e di Nuova Sinistra), dagli anni ’80, con il grande studio  in due tomi Teoria dell’agire comunicativo, Habermas si sposta su tematiche di  comunicazione linguistica, integrazione sistemica e democrazia cosmopolita. Lo  strumento ricorrente è per l’appunto la comunicazione libera e aperta, volta alla  costruzione di una democrazia deliberativa di stampo prettamente neoilluminista.  Peccato, però, che si perda l’occasione per ricalibrare gli strumenti di trenta quarant’anni prima (affinati in opere di estrema lucidità come Teoria e prassi nella  società tecnologica [1967] e La crisi della razionalità nel capitalismo maturo  [1973]). Si presta ad essere messa in discussione l’utilità della comunicazione democratica, nonché l’efficacia di negoziati e compromessi di fronte a fenomeni  come la crisi economica decollata nel 2007, il capitalismo globalizzato e iper precarizzante, la permanenza e la crescita esponenziale di una disuguaglianza da  iper-darwinismo sociale (per cui il 20% della popolazione mondiale detiene l’80%  della ricchezza), il trionfo del capitale finanziario che, del tutto sganciato dalla  produzione di beni e/o servizi, muove ogni giorno 100 mila miliardi di $ nel mondo. 

Ben altra è la radicalità richiesta dalla drammatica condizione di un mondo preda  del più inumano tardocapitalismo. 

Innestato in buona parte sul nesso tra biopolitica e globalizzazione è poi lo studio di  Teodoro Brescia dedicato a Biopolitica tra olismo e neoumanesimo, che comincia  ricordandoci che l’idea di biopolitica risale non a Foucault (come spesso si crede)  ma addirittura al Comte del 1851; mentre il termine vero e proprio viene coniato nel  1920 dal geografo e politologo svedese Johan Kjellen.  

Assai stimolante, poi, risulta la sintetica ricostruzione delle vicende legate a questo  concetto così fortunato da una ventina d’anni, vicende che si svolgono fra gli anni  ’60 e il 2000, in un confronto critico fra biologismo e antibiologismo. È  un’occasione per ribadire una diversa critica tanto al totalitarismo che al liberismo,  entrambi abili addomesticatori di una biopolitica ad usum delphini.  

Intensa è la ricaduta di questi dibattiti su uguaglianza, diritti, diversità. Se i  riferimenti alla gestione di differenze ed eguaglianze è sviluppata  approfonditamente da Brescia (pur con elementi discutibili, come il richiamo  all’ottimismo), ci sembra indispensabile far notare la differenza fra assistenzialismo  (deleterio strumento di sottogoverno, purtroppo tipicamente italico, ma non solo) e  welfare State

Notevole, infine, la capacità dimostrata da Vincenzo Sorrentino nel tracciare un  quadro del pensiero di Foucault dal punto d’osservazione della filosofia politica. In  fondo, al centro delle numerose e multisettoriali ricerche dell’autore di Storia della  follia, si trovano le condizioni di trasformazione degli esseri umani in soggetti,  nonché i rapporti fra questi stessi soggetti e le procedure di produzione della verità  (Foucault usa l’efficace termine jeux de vérité).  

Se negli anni ’60 la riflessione s’incentra sul metodo archeologico riguardo al  Sapere, nel decennio successivo passa alla genealogia per indagare il Potere, per poi  concludere prematuramente a metà anni ’80 con l’approccio ermeneutico alle  problematiche di costituzione, affermazione e crisi del Soggetto. Ecco allora  spuntare all’orizzonte teorico, rispettivamente:  

– le pratiche socio/mediche di normalizzazione;  

– la realtà sociale fatta di relazioni, interazioni e azioni circolari, con il Politico  letto in termini di Potere ascendente, fin nei micro meccanismi delle persone e  della quotidianità sociale (si veda la fortunata antologia einaudiana Microfisica  del potere, 1977;  

– la storia della costruzione dell’immenso discorso sulla etero- e auto-gestione  del corpo, sui regimi culturali e politici che v’influiscono prepotentemente,  assieme alle indagini sui meccanismi della parresia – il coraggio del dire la  verità in pubblico.  

Se i discorsi su sessualità e verità rappresentano, rispettivamente, uno scandalo e  un’eversione, Foucault legge questi e altri fenomeni alla luce di un rapporto  inestricabile fra Potere e Sapere: in altri termini, il Sapere si pone come insieme di  pratiche attraversate sotterraneamente da rapporti di Potere.  

Osservatorio assolutamente privilegiato di questi passaggi nella riflessione del  filosofo francese sono i corsi tenuti al Collège de France – e per fortuna ormai quasi  tutti disponibili in francese. 

Tre sono in ultima analisi, per Sorrentino, i contributi di Foucault alla filosofia  politica. Anzitutto, la profonda utilità, ai fini della comprensione delle società  moderne, di concetti quali i dispositivi di sorveglianza, la biopolitica, la struttura  reticolare di potere. 

In secondo luogo, la forte correlazione fra riflessione filosofica e ricerca storica,  correlazione che si fa significativa lezione metodologica. 

Last, but not least, la pratica critica proposta dal filosofo e storico di Poitiers. Essa  <<non ha come compito di determinare codici di norme (… paradigma  prescrittivo), né deve limitarsi ad individuare le (…) procedure discorsive  (paradigma comunicativo): essa, infatti, è volta alla trasformazione del rapporto che  gli individui hanno con se stessi, dei principi e delle forme del governo di sé  (paradigma ascetico)>>. (p. 93) 

In ultima analisi, per il testo curato da Giacomantonio, ci troviamo di fronte ad un  lavoro dagli svariati pregi. Unendo chiarezza di lettura e ricchezza di tematiche  indagate, riesce bene a incrociare dieci diverse prospettive di analisi (e a volte di  diagnosi) sui rapporti fra società, pensiero, istituzioni pubbliche e crisi delle  ideologie. Non si può certo parlare di un manuale, visto che è stato scritto con  intenzioni non esaustive ma per così dire esemplificative di alcune strade percorse  dalla riflessione filosofico-politica degli ultimi quarant’anni. In questo senso, è da  consigliare proprio come prezioso ausilio accanto ad altri strumenti di studio, quali  manuali e testi monografici.

26/10/2014
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