Marx l’intempestivo. Grandezze e miserie di un’avventura critica

Daniel Bensaid (Edizioni Alegre, Roma, 2007)

Docente di Filosofia all’Università di Parigi VIII (Saint-Denis), direttore della rivista Contretemps,  Daniel Bensaid è uno dei più noti filosofi francesi contemporanei. Egli è autore di diverse opere,  fra cui le più significative: Walter Benjamin, sentinelle messianique (Plon, Paris 1990), La  discordance des temps (Editions de la Passion, Paris 1995), Passion Karl Marx, Les hyerogliphes  de la modernité (Editions Textuel, Paris 2001). Pubblicato con successo in Francia e tradotto già  in tre lingue, il volume Marx l’intempestivo, offre un significativo contributo al dibattito  internazionale che vede una renaissance degli studi sul pensiero di Marx, anche in Italia. Bensaid  si chiede se la riflessione di Marx sia una filosofia della storia o una sociologia empirica delle  classi sociali, o se sia piuttosto la sistematizzazione d’una scienza economica che postuli un  progresso inesorabile e teleologicamente orientato verso una società comunista. Bensaid tenta  di ripercorrere nella lettera e nello spirito le opere del “moro di Treviri”, contrapponendosi alle  letture positiviste e meccaniciste del pensiero di Marx, tese a tacciare arbitrariamente il suo  pensiero di «determinismo» senza tener conto dell’istanza antiutopica e astrattamente  normativa che lo muove e senza comprendere che in Marx analisi della società borghese e  attuazione d’una «logica storica» non coincidono con una filosofia della storia (cfr. pp. 51-59).  

Il volume, chiaro e scorrevole, è provvisto d’una ricca bibliografia ed è suddiviso in agevoli  paragrafi tematici denominati secondo apprezzabili sforzi creativi ed “attualizzanti” rispetto al  lettore, anche giovane, cui aspira a rivolgersi. Così anche la strutturazione del volume in capitoli  è sistematica: 1) concetto di storia e filosofia della storia, ove si sottolinea che per Marx «la  storia non è universale per natura e in ogni tempo», ma «lo diviene attraverso un processo di  universalizzazione reale», è «universalità in divenire» (p. 49); 2) concetto di classe e teoria delle  classi, ove Bensaid, in contrapposizione ad operazioni di sterile e non neutrale archeologia  filologica, pone in luce un Marx non soltanto filosofo ed economista, ma anzitutto politico interno  a quella lotta di classe cui vuol dare voce: non siamo dinanzi ad una sociologia empirica delle  classi giacché la teoria marxiana si fonda su pratiche concrete di classe, non sul mero  reperimento di dati; 3) critica del positivismo scientifico: a partire proprio dal rifiuto  dell’«angustia della logica storica» Marx darebbe sostanzialmente vita tutt’altro che a  un’ennesima scienza positiva dell’economia, ma ad «una nuova immanenza» avente alla base  «una teoria critica della lotta sociale e del cambiamento del mondo» (p. 22). Infine vi è un  interessante e curioso capitoletto d’appendice sulla «critica dell’ecologia politica» (pp. 341-397),  ove si esamina la posizione di Marx rispetto al rapporto fra uomo, natura, sviluppo delle forze  produttive, uso ed abuso di queste.  

In generale, non v’è dubbio sul fatto che a muovere la riflessione di Bensaid sia un sincero  impegno ed una mai esaurita passione politica: quest’ultima «prevale sulla storia nella  decifrazione di tendenze che non fanno legge» (p. 35). La notevole carica demistificatrice del  libro emerge rispetto alle più strumentali letture del pensiero di Marx degli ultimi decenni, in  particolare contro Popper – animatore del processo a Hegel e dunque a Marx «per teleologia  della storia» (p. 31), pioniere della «controffensiva ideologica degli anni Settanta» di cui oggi  misuriamo i danni (p. 24) –, ma anche verso una certa corrente del marxismo analitico  anglosassone (da Cohen a Elster a Wright) che avrebbe voluto ridurre il marxismo a «scienza  sociale autentica» (p. 67), ispirandosi alla pragmatica e alla teoria dei giochi. Ed è il riscontro  dell’assenza d’una «filosofia speculativa della storia» (p. 21) nella produzione di Marx  l’assunzione più radicale dell’interpretazione di Bensaid, dove con “filosofia della storia” si  identifica essenzialmente l’idea d’una storia che è indefinito progresso e continuità lineare: il  giovane Marx, passato peraltro per le sconfitte delle rivolte del ‘48 e della Comune, rinverrebbe  infine nella discontinuità, nella contraddizione e nella non contemporaneità i “motori immobili”  dell’«alfabeto della nuova scrittura» (p. 40) della storia, ora prodotto e non produttore dell’uomo.  Se certamente è assente nella produzione marxiana una filosofia della storia come sopra descritta, ben più insidiosa è l’identificazione tout court di quella concezione con la concezione  hegeliana, certamente fonte primaria di stimolo e confronto teorico per Marx e insieme  patrimonio mai rigettato, se non durante l’organica fase di parricidio giovanile (cfr. pp. 40-50).  Peraltro a conforto di tale tesi Bensaid richiama essenzialmente i testi giovanili volutamente non  pubblicati da Marx (come l’Ideologia tedesca); ed anche in seguito la fustigazione della religiosità  della storia idealista coinciderà con la polemica di Marx verso pensatori del suo tempo – Stirner  prima e Proudhon poi – e con il rifiuto del «dominio della “santità”, del pensiero, dell’idea assoluta  hegeliana sul mondo empirico» (p. 41) rispetto ad una riappropriazione della storia «in quanto  gioco di rapporti conflittuali, determinati e aleatori»: insomma, siamo ora di fronte a «uomini  attivi e agenti» (p. 41) che passano per la pratica politica.  

Proprio la secolarizzazione della storia e dei suoi «artifici speculativi» (p. 37) è la chiave di volta  della ricorrente polemica fra Bensaid e l’impiego del pensiero di Marx negli anni delle esperienze  storiche di transizione al “socialismo reale” e del rigetto del «pesante sonno delle ortodossie»,  rilevato anche nell’agile Prefazione al volume di Massimiliano Tomba. Si parla difatti  ripetutamente di «crosta delle ortodossie» (p. 23), «culto storico della modernità» ad opera dei  marxismi ufficiali (p. 24). Bensaid lo dice chiaramente: «ciò che viene meno, in verità, è il culto  storico della modernità, di cui i marxismi ufficiali furono in fin dei conti solo delle varianti» (p.  24). Tuttavia una certa immediatezza nelle affermazioni, con cui si danno per assunti giudizi ed  analisi su quegli anni e si ricomprendono nel calderone della critica tutte le esperienze di  transizione socialista possono rendere ostico l’approccio al volume per chi si auguri piuttosto un  bilancio critico interno a quella storia e non una sua indeterminata liquidazione. Una tale  liquidazione consentirebbe di pensare “con Marx oltre Marx” senza tener conto del passato, senza  analisi delle esperienze storiche di transizione socialista, cui ci si richiama solo sottolineandone  fallimento ed inutilità. Se per un verso il reale dell’ideale comunista coinciderebbe oggi, per  Bensaid, con il ripensamento dei tempi della politica e della storia – secondo il filo dello «sviluppo  ineguale e combinato» (p. 47) che va da Parvus e Trotskij sino al Bloch della non contemporaneità ed infine a Gramsci e Benjamin –, d’altra parte il prezzo che Bensaid sembra  pagare per una tale assunzione pare decisamente troppo alto: la radicale separazione nel  pensiero di Marx tra critica dell’economia politica e teoria della storia, analisi del conflitto sociale  e comprensione del divenire storico (cfr. p. 24), tutto teso sull’accidentalità e, in ultimo,  sull’astrattamente vuota categoria del possibile.  

La storia opererebbe dunque per controtendenze, per armonie e disarmonie che sono solo  apparentemente contrastanti, giacché danno invece forma ad una tendenza, ma del tutto nuova  rispetto a ieri: insomma, «la storia non ha un senso filosofico» e nondimeno «essa è  politicamente intelligibile e strategicamente pensabile» (p. 50): ma non potrebbe dirsi questa a  sua volta una filosofia della storia? La filosofia della storia criticata da Bensaid pare piuttosto  rimandare a quella declinazione specifica che ne fecero gli illuministi tedeschi: costoro, in  contrapposizione agli esponenti della corrente francese – in particolare alla voltairiana  concezione “catastrofista” della storia che prevedeva un contrapporsi di epoche di civiltà a lunghi  periodi di barbarie – cercarono di scorgere nella successione delle epoche e delle civiltà una sorta  di percorso “provvidenziale”. Le riflessioni di Hegel sulla storia, al contrario, prendono vita negli  anni giovanili proprio dall’indagine sul concetto di popolo e di Volksreligion, e la storia è luogo di  verifica del concetto d’una collettività politica, materializzazione concreta e insieme condizione  di possibilità di comprensione per l’uomo della razionalità. In Hegel non c’è dunque «dominio  della “santità”, del pensiero, dell’idea assoluta» (p. 41) nella storia, ma la fase storica che si vive  è di volta in volta effetto delle precedenti e causa di quelle a venire: analoga visione pare  riscontrabile in Marx, che in tal senso è uno dei più significativi eredi della tradizione idealista  tedesca. Questo che qui viene detto controtempo incessante, per dirla con Bensaid, è in realtà  il tempo della dialettica, di ciò che è di volta in volta cronologicamente ultimo, ma logicamente  primo: il negativo è l’ostacolo su cui si esercita l’«astuzia della ragione», la libertà dell’uomo e il  progresso dell’umanità. Non si tratta di teologia della storia (si pensi alle critiche di K. Löwith),  ma di teleologia della storia, «teleologia immanente» (p. 40). 

Bensaid, essenzialmente per l’esigenza di porre in evidenza la novità e le implicazioni  dell’elaborazione di Marx rispetto alle precedenti, pone frequentemente in luce il legame sì  profondo, ma spesso contrappositivo fra filosofia hegeliana e marxiana. D’altra parte, come scrive lo stesso Bensaid, un tale atteggiamento è riscontrabile in Marx essenzialmente in  polemica con Proudhon o «appartiene al periodo in cui egli rompe con l’eredità hegeliana» (p.  40) e non alla sua concezione generale infine elaborata nelle opere mature. La logica della  contraddizioneè il solo modo mediante cui il pensiero può cogliere una realtà in movimento e  può comprendere ogni singolo momento reale relazionandolo razionalmente agli altri ed all’intera  realtà in divenire. Così «l’invenzione di un’altra scrittura della storia</i>», che Bensaid  attribuisce a Marx, pare inevitabilmente legata all’«esistenza storica universale degli individui»  (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, vol. V, Ed. Riuniti, Roma 1972, p. 34), nella  temporalità degli avanzamenti e delle sconfitte della lotta di classe, esistenza degli individui «che  è legata direttamente alla storia universale» (Ivi). E così anche una nuova lettura del Il Capitale  può comprendersi unicamente alla luce di «una nuova immanenza» (p. 255) interna al rapporto  fra concezione di una «totalità aperta e contraddizione» (p. 257) come principi d’ogni  conoscenza. Lenin, ci dice Bensaid, «non si è sbagliato» (Ivi): tornare alla Scienza della Logica  è percorso obbligato per comprendere Il Capitale come «totalizzazione articolata e mediata»,  una «mobile uguaglianza con se stessa» (p. 258). Possiamo così interrompere il fuggire  sfuggente dell’inconoscibile cosa in sé (p. 264): se ogni sapere vuole essere sapere dell’oggetto  e si appaga solo quando è giunto all’identità con esso, ma i due elementi continuamente si  dissociano, in un incessante percorso che è storico, economico e sociale dalla condizione di  semplice coscienza singolare produttiva e alienata a quella d’autocoscienza etica collettiva  liberata. Alla base di tutto ciò una categoria del divenire, la determinazione, e il suo potere come  «messa a fuoco», il suo rivelare per contrasto sullo sfondo della totalità la moltiplicazione e  diversificazione dei rapporti con l’altro: «le cose e le loro reciproche relazioni sono concepite non  fisse, ma mutevoli» (p. 266), e i concetti devono essere sviluppati «nel loro processo di  formazione sia logico che storico» (Ivi). 

Se la contraddizione diviene in tal senso il motore della storia, bisogna tuttavia ricordare che per  Marx la materialità dinamica è affetta da duplicità nella misura in cui questa rappresenta  l’essenza propria di un mondo storico-produttivo determinato quale il mondo borghese, e non è  necessariamente forma a priori eterna di qualsivoglia società. Se dunque Marx si pone  certamente il problema, che a Bensaid sta a cuore mettere in luce, di non ingessare un mondo  storico nella sua razionalità ed immodificabilità eterna di una filosofia della storia lineare, per  l’altro egli è altresì ben lontano dal porsi il problema di un semplice non-identico: e ciò proprio  in quanto interroga questo mondo con lo sguardo di un filosofo della storia, ponendo in essere  uno «storicismo assoluto», per dirla con Gramsci. Marx difatti parrebbe ricercare sino agli anni  più maturi soluzioni quanto più sistematiche possibile, concrete e teoricamente valide per le  sofferenze e le umiliazioni subite ogni giorno dalla classe lavoratrice. Come bene sottolinea  Bensaid, si deve certamente a Gramsci la comprensione dell’incertezza del conflitto, per cui «ciò  che è solo prevedibile è la lotta» (Gramsci, Quaderni del Carcere, Q 8, Einaudi, Torino 2001, p.  1059): la sua concezione di filosofia della praxis riscopre il modo in cui l’unità viene di volta in  volta costruita sul terreno della contraddizione, della scissione, della non-unità sempre concrete  e storiche, ponendosi così quale alternativa tanto ai monismi che ai dualismi, giacché è la teoria  del modo in cui il conflitto e le possibilità del suo superamento non solo possono essere  compresenti, ma sono sempre strutturalmente coimplicati.  

Il libro di Bensaid, dunque, si inscrive entro le analisi del cosiddetto “comunismo critico”,  privilegiando la tensione che un tale approccio comporta ed esasperandola per farne emergere  le conseguenze d’una assunzione politica delle problematiche teoriche tracciate da Marx. Per chi  ami la politica tout court è certamente un libro chiaro e dinamico, creativo ed appassionante,  per chi privilegi la comprensione filosofica alla luce d’una analisi più storica il volume può risultare  meno significativo. 

23/10/2009
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