L’origine del potere: luogo di crisi della ragione?

Premessa 

Il presente contributo intende essere una sorta di tappa intermedia nel percorso di una ricerca più  ampia che tenta di far incontrare un autore – e gli stimoli fecondi della sua riflessione – con un tema  – e la portata teoretica che esso implica: l’autore è Paul Ricoeur, in relazione a quella eredità, tra le  molte, che il suo itinerario filosofico ha lasciato e che risulta ancora poco sviluppata, ovvero la sua  riflessione politica, e la grande questione che egli racchiude sotto la definizione densissima di  “paradosso del potere”; il tema più ampio che da questa espressione ricoeuriana può prendere le  mosse concerne il rapporto tra razionalità e potere, sia riguardo l’origine del potere medesimo che  per quanto concerne il suo esercizio. Nello specifico, le righe che seguiranno si circoscrivono ad un  singolo aspetto, e cioè il tentativo di leggere il rapporto difficile tra razionalità e origine del potere  attraverso la cifra della “crisi”, la quale, a sua volta, chiama in causa la categoria decisiva della  “differenza”. Procederò con una premessa che include tre spunti – ovvero la cornice di questa  riflessione – e un’ipotesi interpretativa che mira, appunto, a collegare la categoria della crisi alla  dimensione originaria del politico e del potere, attraverso le sfide della razionalità e della  differenza. 

Cornice introduttiva 

Vorrei partire da una citazione non direttamente rivolta a Ricoeur, che recita così: “Un filosofo si  giudica forse dalla sua filosofia politica. È questo in effetti il punto delicato e difficile del sistema.  La filosofia è ragione, dialogo, rifiuto della violenza; la politica è potere dell’uomo sull’uomo,  implica l’irrazionale e non vive senza violenza […]. Ma se rinunciasse a razionalizzare  l’irrazionale, se indietreggiasse al cospetto della comprensione stessa della violenza, si negherebbe  come filosofo. Queste parole sono di Lacroix, risalgono al 1966 (periodo in cui, per intendersi,  Ricoeur scrive di politica, ma lo fa attraverso articoli e interventi relativi a stimoli che giungono dal  dibattito pubblico) e, pur non essendo pensate per il filosofo di Valence, credo abbiano il merito di  incorniciare in maniera fedele il modo in cui egli ha interpretato il ruolo della filosofia e ha  guardato al rapporto tra filosofia e politica: evidenziano infatti un carattere eminente dell’itinerario  filosofico ricoeuriano, ovvero il suo coraggio teoretico al cospetto dell’irrazionale e del non razionale e la sua assunzione di responsabilità filosofica di fronte alla violenza. Ma soprattutto queste parole attestano la centralità di una regione della riflessione ricoeuriana, mai affrontata in  maniera sistematizzata, seppure così onnipresente da costituire quasi una sorta di corrente carsica, e  cioè la filosofia politica di Ricoeur e la sua sensibilità critica nei confronti del potere. In che misura  tali parole costituiscono allora il primo spunto di questa riflessione? Perché aiutano a mettere a  fuoco lo sfondo problematico dentro il quale Ricoeur mette a tema il politico, così come uno dei  suoi protagonisti più problematici, il potere, inteso come luogo di crisi tra razionale e irrazionale,  dialogo e violenza, prendendo in carico filosoficamente tale paradossalità. Eccoci al secondo passaggio. Le parole da cui prenderemo spunto sono di Richard Kearney, che,  proprio in un testo questa volta dedicato a Ricoeur, prende in considerazione la tradizione  metafisica occidentale: ad evidenziare come molte voci della storia del pensiero metafisico occidentale abbiano ignorato largamente l’enigma dell’Altro, definendolo e riducendolo al rapporto  con il Sé. Il pensiero occidentale sarebbe il tentativo, da parte della ragione, di prendere  costantemente misure autocentrate all’alterità: “da Parmenide – egli arriva a sostenere –, numerosi  filosofi occidentali, devoti al Regno della Ragione hanno relegato le perplessità provocate  dall’‘estraneità’ al campo dell’irragionevole, ovvero nell’inconscio culturale del mito, dell’arte,  della religione. Nella misura in cui lo straniero diventava estraneo, l’Altro scompariva  dall’orizzonte della comprensione riflessiva per finire nel limbo dell’invisibile, dell’indicibile e  dell’impensabile. Il percorso della ragione, dalla grecità ai nostri giorni, avrebbe prodotto un  cumulo di scorie non smaltite dei tentativi mancati di lasciare l’altro essere veramente altro;  tradimento via via avvenuto in nome di una fagocitazione da parte dell’io o di un’assolutizzazione  della differenza. In particolare, il nostro approdo post-moderno vivrebbe una sorta di  radicalizzazione della totale ulteriorità di un’alterità sulla quale nulla si può dire. Occorrerebbe  invece – continua Kearney – “costruire dei ponti tra il mondo dell’autos e quello dell’heteros […]  una via tra quegli estremi costituiti dalla tautologia e dall’eterologia”.  Rispetto a questa tradizione, Ricoeur, come altri, si è impegnato – a detta di Kearney – a togliere  l’Altro dall’irragionevole e dall’assimilazione al Sé, ma ciò non ha significato l’eliminazione totale di ogni possibile irragionevolezza; trovare spazio per l’Altro convive con la permanenza, nel  sistema di pensiero ricoeuriano, di qualcosa di immancabilmente legato al non-razionale: la  questione della fondazione, dell’originario e dell’origine e, appunto, quella della differenza tra  autos ed heteros. Nella loro irriducibilità – ma non per questo inconoscibilità e incomunicabilità – testimoniano che qualcosa continua a sfuggire alla ragione. Ecco, questo è il secondo spunto della  nostra pista di approfondimento: Ricoeur lascia nel proprio itinerario di riflessione – non come falla, ma come stimolante e fecondo luogo di approfondimento – una zona sulla quale la ragione  umana non ha l’ultima, definitiva ed esaustiva parola; questa regione ospita il problema dell’origine  (di ogni relazione, della società e quindi anche del potere) e della differenza (distanza tra Sé e Altri,  non sopprimibile e non diluibile in uno dei due termini). Ciò che in Percorsi del riconoscimento,  Ricoeur definisce nei termini di “oblio della dissimmetria originaria” e di “asimmetria originaria  tra l’io e l’altro […] colta a partire dal primato etico dell’altro” che “possa rendere conto della  reciprocità tra partner disuguali”. L’ultimo tassello, questa volta direttamente affidato alle parole dello stesso Ricoeur, prende  avvio dal testo La crise: un phénomène spécifiquement moderne?: un contributo costruito, nella  fedeltà totale allo stile ricoeuriano del filosofare, sul tentativo di legare insieme significati regionali  del termine crisi e suo significato complessivo. Ricoeur arriva ad affermare che la crisi è un cattivo  funzionamento del rapporto fisiologico tra orizzonte di attesa e spazio di esperienza. In particolare  “quando lo spazio di esperienza si restringe per un rifiuto generale di ogni tradizione e di ogni  eredità e quando l’orizzonte di attesa tende ad arretrare in un avvenire sempre più vago e indistinto  – egli scrive –, allora la tensione tra orizzonte di attesa e spazio di esperienza diviene rottura”. Di  fronte a questo quadro, “la razionalità moderna, divenuta razionalità strumentale, ha esaurito il suo  potenziale di liberazione”. La crisi cioè è qualcosa che attesta il fallimento del paradigma moderno  di razionalità, nella misura in cui, da termometro dello stato di salute dell’equilibrio tra ciò che  possiamo aspettarci e ciò che non possiamo esperire, riporta in luce ciò che è limitatamente umano.  Quale il legame tra questo tassello e i due precedenti, tanto da renderli premesse significative a  ciò che si proverà a sostenere da qui in avanti? Il fatto che la politica stessa, e il tema del potere in  particolare, possano essere ricoeurianamente considerati il terreno sul quale sperimentare una sorta  di crisi costitutiva e insormontabile, ovvero la crisi dell’onnipotenza della ragione, nella misura in  cui il suo orizzonte di attesa non sa più essere messianico e il suo spazio di esperienza ha comunque  una zona grigia, ovvero l’esperienza della nascita e dell’origine, così come quella della violenza  ineliminabile come risposta al tema della differenza. Nel filosofo francese, impossibile padronanza  razionale dell’origine e limiti della razionalità si incontrano sul versante politico dove il fondo buio all’origine elimina ogni tentativo moderno di razionalizzazione della politica e lascia sul campo una  serie di paradossi. Cosa segue da tali premesse? Innanzitutto un carattere di duplicità che Ricoeur riconosce al potere politico: la sua razionalità  (relativa alla portata ordinatrice delle relazioni e alla orizzontalità della convivenza) e al contempo  irrazionalità (concernente l’inafferrabilità dell’origine e l’ineliminabilità della violenza); una  duplicità che, a suo avviso, non causa paralisi della riflessione, ma che egli piuttosto considera  occasione feconda di pensiero ulteriore. In secondo luogo, questo connotato del potere si può  leggere con la chiave della “crisi”, affermando che vi sono alcuni luoghi di crisi della politica, così  come li porta in luce Ricoeur (crisi del paradigma moderno della politica; crisi della razionalità  ordinatrice moderna; crisi della natura del potere) che divengono occasioni per provare a mettere  sul campo un nuovo modello di razionalità che renda conto della differenza; detto con il linguaggio  di Kearney, che costruisca “un ponte tra il mondo dell’autos e quello dell’heteros”. La razionalità  moderna, in buona sostanza, messa alla prova del potere politico e del tema della differenza rivela  un limite. Un limite che assale il potere sia nella sua origine che nel suo esercizio. Infine, Ricoeur  costituisce lo stimolo, da far interloquire con altre voci su questo tema – ed è quello che proverò a  fare nei passi successivi e conclusivi di questo breve contributo – per porsi la seguente domanda: la  crisi dell’origine e la crisi della differenza, entrambe sotto il rischio della violenza, fino a che punto  sono costitutive e insormontabili? Il tema del potere, come scrive bene Secretan, viene prima della  ragione e prima di ogni filosofia politica, per questo ogni problema dell’origine della politica è  immediatamente un problema dell’origine del potere. La politica ha delle ombre e la ragione pensa  di poter esserne la luce; la politica ha una dose di non-razionalità e l’ordine sembra esserne però la  vocazione; la politica – richiamandosi di nuovo a Secrétan – progetta sulla ragione una certezza che  risponde ad un’incertezza tutta sua propria: il potere come risposta alla questione della differenza.  

L’origine del potere e della società 

Per introdurci alla questione dell’origine del politico e con essa del potere, credo si possa  ricorrere alle parole che Giordano Frosini usa nel suo testo Babele o Gerusalemme?, laddove,  evidenziando come l’origine delle città, nella memoria dei popoli, sia collegata ad un mito e al mito  del sangue e della violenza, scrive di una fondazione che è archetipicamente violenta e miticamente  raccontata: “se il mito è il segno della trascendenza che entra in contatto con la realtà umana, lo  spargimento di sangue è il segno della presenza dell’uomo che porta nel suo animo richiami di cielo e insieme istinti di violenza e di morte”. Ecco, potremmo dire che Ricoeur abbia avuto ben  presenti entrambe queste due dimensioni (la violenza e il mito), che in un certo senso sussumono e  riassumono la crisi dell’origine. Da un lato, c’è il fatto che l’origine della società, l’origine della  città, l’origine dello Stato passano da una rottura dei legami, una rottura dell’unità, una rottura con  un’autorità anteriore, una violenza esercitata all’inizio che chiede di diventare compatibile con il  fatto che su quella base di irrazionalità poi si costruisca la convivenza, l’ordine e quindi una più  grande razionalità. Dall’altro lato, questo male originario, questa violenza compiuta, questo dolore  inflitto, questo atto di forza che l’uomo opera sull’uomo vengono narrati o affidati a miti; il  pensiero incontra la narrazione e quindi le consegna una sorta di mancanza di origine da raccontare.  Rottura di un legame per creare altri legami e narrazione mitica che avvolge l’origine di ciò che è  per definizione dimensione umana e razionale: sono i due luoghi di crisi paradossale della politica  rispetto alla propria origine, che tocca immediatamente anche il tema del potere In una bella riflessione su tali questioni, Nicoletti evidenzia come la violenza originaria  dell’uomo sull’uomo sia la violenza “non dall’uomo sullo ‘straniero’, ma dall’uomo sul vicino, anzi  sul prossimo, sull’intimo, quasi sul ‘se stesso’ nella figura del padre, del figlio o del fratello ucciso.  Talvolta pare che proprio questa vicinanza sia lo sfondo necessario a questa violenza”. Così egli  prosegue: “Colpisce in questi racconti l’insistenza sul tema della violenza e della rottura dei legami  che accompagnano l’origine della società e che da quella origine accompagna ogni società”. Per  dirla con Lucano: “Le prime mura grondarono di sangue fraterno”. L’origine archetipica di una  comunità, il passaggio da una famiglia a una rete di relazioni non familiare sembra richiedere  inevitabilmente non solo un atto violento, ma una violenza che si spinge fin dentro i rapporti più  personali. Una “violenza che, colta alla base della fondazione stessa dell’unità sociale, finisce per  accompagnare e per segnare la vicenda di ogni politica costruzione umana”. Un atto di violenza,  un gesto di sangue che viola una vicinanza o addirittura una fraternità: l’origine di ciò che diventerà  la convivenza è il frutto avvelenato del male.  Queste parole rinviano immediatamente a quanto Ricoeur sostiene laddove scrive che lo Stato  più ragionevole, lo Stato di diritto, porta la cicatrice di una violenza originaria e detiene l’uso della  violenza legittima; lo Stato cerca perennemente di mediare la forza di una violenza originaria e la  forma della sua organizzazione istituzionale; esso è razionalità e violenza fondatrice: non c’è Stato che non sia nato senza violenza. Il nostro Stato di diritto vive infatti del tentativo di mediare la forza  di una “violenza iniziale – instauratrice abbiamo detto” e la forma di un’organizzazione  istituzionale connotata da una “violenza residua”, incarnata, ad esempio, “nella forza di polizia, a  vantaggio della quale i cittadini sono stati progressivamente privati del potere di vendetta,  espropriati in qualche modo delle relazioni private di violenza. Questa è la principale fragilità del  potere politico, fragilità in certo senso istituzionale e costituzionale”. Il potere intercetta dunque  queste due dimensioni, con il rischio che il fondamento della sua conquista iniziale e la  giustificazione del suo esercizio segnino una lotta insopprimibile tra l’aspirazione all’universalità e  la necessità di una posizione di dominio. “La vita politica – scrive Ricoeur – resta ineluttabilmente  segnata dalla lotta per la conquista, la conservazione, e per la riconquista del potere: essa è una lotta  per il dominio politico”. Tale problema ha destato l’attenzione del filosofo francese fin dai suoi  primi scritti, quasi a testimoniarne la pressione con cui ne ha avvertito l’urgenza. Ricoeur ricostruisce quella che egli stesso non esita a definire “la storia del potere violento”, che  coincide con la storia dell’uomo, a causa della quale “non è più l’istituzione che legittima la  violenza, ma è la violenza che genera l’istituzione nella redistribuzione della potenza tra gli Stati,  tra le classi”. Vi è un conflitto latente nel processo storico, durante il quale esso ha subìto una  trasfigurazione che ha assegnato forma lecita al potere, senza però riuscire a trovare una redenzione  che ne facesse dimenticare l’origine e l’“istituzionalizzazione violenta”: da un lato, infatti, vi è “la  violenza dei padroni, riunificatori di terre, captatori di eredità, aggressori di minoranze etniche,  culturali, religiose”; dall’altro “l’istituzionalizzazione di questa violenza instauratrice sotto la  pressione della razionalità giuridica”. È come se Ricoeur ci domandasse di tenere sempre presente  e vigile la consapevolezza di una ferita fisiologica, che incontestabilmente coinvolge il potere,  persino laddove sembra giunto alla sua destinazione, ovvero la creazione di un ordine e di una  convivenza. Anzi, è come se la società prendesse le mosse nella forma di un sistema di protezione  dalla violenza distruttrice (e poi si legittimasse commettendo violenza in nome della salvezza della  comunità medesima). Persino “lo Stato più ragionevole, lo Stato di diritto”, per cui “l’arbitrio resta  consustanziale alla forma stessa dello Stato”, continua a presentare una ferita, la quale stenta a  rimarginarsi completamente proprio a causa del conflitto implicito nel potere politico “come forza, in quanto detentore della violenza legittima, e come forma, in quanto sottoposto alla regola  costituzionale”; e ciò si deve alla sua violenza instauratrice che stenta a lasciarsi umanizzare e  istituzionalizzare.  All’origine vi è un potere di far soffrire, la capacità di infliggere dolore o morte, che pone alla  riflessione politica e antropologica alcune questioni capitali: se l’uomo è, come Ricoeur sostiene in  altri passaggi della sua riflessione, affermazione originaria di un bene, cosa rende la dimensione  politica il luogo originario della violenza e quindi negazione del bene originario e manifestazione  del male affermato? Questa crisi originaria della politica non è la delegittimazione radicale di ogni  antropologia costitutivamente relazionale? Oppure rappresenta la delineazione mitica del lato  oscuro del potere, del suo versante demoniaco, per dirla con Ritter, che Ricoeur stesso definirebbe  nei termini del paradosso per cui “il male più grande aderisce alla razionalità più grande”? Dire  che l’uomo è politico significa sostenere che la sua vita politica non può fare a meno di una  presenza legittima di violenza? Credo che, per provare a lasciarsi interpellare in maniera costruttiva  da questi interrogativi, una chiave di lettura significativa sia la questione di come il politico si pone  di fronte al disorientamento della differenza. A partire dalla differenza tra antecedenza e fatto  storico, tra autorevolezza altra da me ed esercizio storico del potere su qualcuno: il pensiero  dell’inizio è spesso racconto di una violenza originaria, perché la conquista umana del potere  coincide con l’abbattimento di un’autorità antecedente e con un atto di sangue. Nel mito babilonese  di Marduk e in quello greco di Edipo la violenza originaria segna il rapporto dei figli contro il padre  e la madre, mentre il tema del fratricidio è presente nei miti egizi, nel racconto biblico di Caino e  Abele, nel mito di Roma di Romolo e Remo. L’esperienza dell’energia della fondazione che si fa mito finisce infatti per autorizzarsi da sé e  per auto-incensarsi quale unica legittimazione possibile, a tal punto che il rischio risulta essere  quello di credere che solo la vetustà faccia autorità. Non si può qui non ritrovare il Ricoeur di  Finitudine e colpa, laddove il mito rende conto sia del lato tenebroso che di quello luminoso della  condizione umana; incorpora l’esperienza frammentaria del male nel grandi racconti di origine;  sperimenta una sorta di vasto cantiere di ipotesi come in un laboratorio e articola in linguaggio  l’esperienza del male. Certo, scrive molto giustamente Ricoeur, “nessun potere può essere sicuro di  stabilità e di durata se non riesce a capitalizzare a proprio beneficio la precedente storia  dell’autorità”. Parafrasando Ricoeur si potrebbe dire che il potere è quasi senza origine: “Il  politico è quasi senza origine: voglio dire, che c’è sempre del politico prima del politico”. E  questo politico rimanda ad un’autorità che non è razionalmente in possesso dell’uomo e che marca  la distanza incolmabile della differenza. Scrive Ricoeur, mettendo insieme eco agostiniane e  pascaliane: “È come se ci fosse una dialettica dell’origine e dell’inizio: l’inizio lo si vorrebbe poter  datare in una cronologia, ma l’origine fugge sempre all’indietro, nello stesso tempo in cui essa  sorge, nel presente, sotto l’enigma del già-sempre-là”. Si può cioè dire che anche il potere come  dimensione fondamentale del politico costituisce qualcosa connotato da un difetto di origine, nel  senso di qualcosa di mai presente a se stesso e quindi mai rappresentabile e rappresentato. “Il  filosofo può serbare l’idea di una antecedenza che non è dell’ordine cronologico”. L’origine è un  antecedente che è nell’ordine del fondamentale più che del cronologico, segna una differenza  espressa da una distanza e definisce una indisponibilità e inesprimibilità dell’origine.  Non vi è difficoltà di comprensione se il potere è già legittimato e chiede di farsi obbedire;  difficoltà che compare invece quando ci si domanda donde trae la sua autorità: donde viene in  ultima istanza l’autorità? Ricoeur cioè ravvisa un fondo opaco (arbitrario? irrazionale?) che  concerne l’origine del ricorso dello Stato alla forza legittima: vi è il paradosso, che forse li  racchiude tutti, della tradizione dell’autorità che soverchia l’autorità della tradizione. L’esistenza umana non è infatti padrona della sua origine e del suo fondamento, non è un ens causa sui, non è il  luogo di una autosufficienza. Sul fronte del potere in Ricoeur ciò diviene la questione dell’autorità e  della sua autorevolezza verticale e antecedente: vi è un’anteriorità irrisolvibile dell’autorità.  “Scartata la via che affidava alla tradizione la soluzione di tale problema, la modernità ha a lungo  confidato sulla capacità della ragione di scoprire criteri e norme universali. In questo modo il  principio veritativo è rimasto in piedi, ma è stato spostato in avanti (scoperta scientifica) invece che  indietro (autorità della tradizione)”. La ragione pre-potente della modernità è in grado di accettare  la possibilità di qualcosa di “già-sempre-là” che non dipende da sé e dal proprio potere? E nella  distinzione, anche ovvia, tra cronologico e fondazionale, può essa ammettere che il fondamentale è  qualcosa di antecedente e anteriore rispetto a sé, che, in nome di una differenza che non annulla  l’uguaglianza, rivendica autorevolezza? 

Conclusione 

Al termine di queste sottolineature problematiche, credo sia quanto mai opportuna un’attenzione  che Ricoeur stesso domanda, ovvero resistere a due possibili esiti: “il primo che ingrandirebbe la  razionalità del politico, con Aristotele, Rousseau e Hegel, e l’altro che porrebbe l’accento sulla  violenza e sulla menzogna del potere, secondo la critica platonica del ‘tiranno’, l’apologia  machiavellica del ‘principe’ e la critica marxista dell’‘alienazione politica’” o addirittura sulla sua  dinamica violenta o impolitica. All’interno di questi confini e fedeli all’invito ricoeuriano, credo  che gli spunti della sua riflessione filosofico-politica ci rimandino ad almeno una duplice sfida,  relativamente alla quale siamo chiamati a metterci in dialogo costruttivo con altre voci. La prima è quella per cui Ricoeur ci aiuta a tornare, in modo più approfondito, sulla distinzione  tra “politica” e “politico”, nella misura in cui egli stesso ricorre a questa distinzione. Con il primo  termine intende l’insieme delle attività individuali e collettive (dei partiti o di altro genere) relative  all’esercizio del potere, per conquistarlo, per esercitarlo, per difenderlo: se il potere, attraverso la  sua sovranità, ricopre l’insieme delle attività della città, si può dire che la politica ha la stessa  estensione del legame civico che collega ognuno di noi al potere proprio dello Stato. Quanto al  politico, esso designa la struttura stessa del potere proprio dello Stato e il rapporto dei cittadini con  tutte le istituzioni coordinate da tale potere. Queste parole permettono di distinguere due piani  grazie ai quali si possono cogliere due differenti espressioni del legame tra dimensione politica e  potere. Se infatti il politico è “organizzazione razionale”, “la politica è decisione: analisi probabile  di situazioni e scommessa probabile dell’avvenire”: il primo va avanti solamente e  indissolubilmente con la politica; dal primo alla seconda “si passa dall’avvento agli eventi, dalla  sovranità al sovrano, dallo Stato al governo, dalla Ragione storica al Potere”. Da un lato, il piano  della quotidianità dell’esercizio, della decisione e della pratica, la politica; dall’altro, il livello  architettonico dell’organizzazione ragionevole e della struttura istituzionale della comunità, il  politico. Quest’ultimo assume il proprio senso solo nella “retrospezione”, mentre la politica si gioca  a piccoli passi, nella “prospezione”, nel progetto, cioè allo stesso tempo in una decifrazione incerta  degli avvenimenti contemporanei e nella fermezza delle risoluzioni. Questo è il motivo per cui se il  politico è senza intermittenze, si può dire in un certo senso che la politica esiste solo nei grandi  momenti, nelle “crisi”, nelle “svolte”, nei punti cruciali della Storia. La vita quotidiana della città  e il suo progetto: ecco i due cardini entro i quali si estende la vastità dell’agire politico e la diversità  di declinazioni dell’impegno del cittadino, che trovano nell’insieme delle relazioni di potere il  mezzo e il luogo per costruire la convivenze alla base di una comunità e affrontare in tal modo i  suoi rischi e le sue ricchezze. Ad accomunare entrambe le coordinate sono sia il riferimento ultimo  al bene sia la minaccia della violenza, tanto un’aspirazione teleologica quanto un insufficiente piano  fondativo, una razionalità specifica e un male specifico, una dimensione di senso e una di forza. In particolare, qui è interessante mettere Ricoeur in dialogo con Wunenburger, il quale sostiene  che il “non razionale” non è solo un residuo deplorevole o addirittura un veleno per il politico, ma  un suo fattore dinamico che può facilitare il progetto politico del ben vivere insieme. Scrive  Wunemburger: “il potere comporta genericamente un’eccedenza”, che va oltre la sua costruzione  giuridica e che rimanda ad altro per assicurare il proprio fondamento e la propria perennità. Serve  un’ermeneutica del politico che dia diritto di cittadinanza all’immaginario (il mito della terra, la  memoria degli antichi e la promessa del futuro), perché senza finiremmo per essere privi persino  della libertà. Servono immagini del possibile e la consapevolezza di un’irriducibile componente non  razionale del politico. Politica e politico, ragione e decisione, progetto e volontà vivono la sfida della differenza. Come  la ragione la vive di fronte alla credenza, al sacro, alla metafisica, come il soggetto ne vive  esperienze primordiali, così – come abbiamo visto fin qui – la politica e il politico vivono il  dilemma del ponte tra autos ed heteros. La riflessione di Paul Ricoeur su questi temi, la crisi del  politico all’origine del potere, nel suo ineliminabile versante violento e nel suo inesplicabile  originario mitico, ci aiuta ad avvicinare un tema decisivo. La politica, infatti, come scrive Meyer,  con cui in questo caso è fruttuoso mettere Ricoeur in dialogo, è il luogo in cui si sperimenta come  “ogni modello antropologico, sociale, storico, psicologico ma anche religioso, sia attraversato dal  concetto di differenza”. Scrive ancora Meyer: “La differenza si è imposta […] come il problema  stesso dell’uomo o, in altri termini, dell’umano come problema. Negoziare la differenza è la sola  strada praticata dall’io per costruire se stesso. Con ciò ne va dell’individuo come della società”.  Ricoeur da par suo ne è consapevole: il pensiero simbolico, l’alterità del corpo rispetto a me stesso,  la grande questione del rapporto tra reciprocità e asimmetria. Tutta la sua riflessione, come  evidenziavano ottimamente le parole di Kearney con cui abbiamo aperto, è attenta a costruire un edificio che sia rispettoso della differenza. Parole che in un certo senso testimoniano una  consonanza con quanto scrive De Rougemont: “di fronte a questo stesso problema dell’uno e del  diverso, le metafisiche orientali decidono di sopprimere il conflitto riducendo uno dei due termini – il diverso – ricorrendo ad una lunga, estenuante ascesi […]. Ma l’Occidente, agli albori della cultura  greca, cerca di mantenere i due termini non in un equilibrio neutro, bensì in tensione creatrice” e  questo è lo sforzo su cui si è misurata via via la salute del pensiero europeo. Il politico è quindi il luogo per antonomasia che si fa carico della questione della differenza: e se  alla politica spetta la responsabilità di farlo attraverso i problemi che l’esercizio violento del potere  spalanca, al politico si pone dinanzi attraverso la crisi dell’origine. Vi è un originario che è altro da  noi, rispetto al quale ci è concesso solo un inizio cronologico, la cui distanza rispetto ad esso si  colma con la violenza o si veste con il mito. Si può cioè realmente indagare l’origine di tale potere,  che, parafrasando Benjamin, è segreto per la dignità della sua origine ed esplicito per quanto  riguarda l’ambito della sua validità. Sta qui la seconda sfida, dato che la riflessione politica di Ricoeur ci invita a mettere a tema in  maniera autentica e non retorica la grande sfida della differenza, la cui portata politica si esplica  almeno su tre livelli. a) Autorità e obbedienza. “Vi è chi all’interno di un gruppo, essendosi investito di tale potere o  vedendoselo attribuire dagli altri, è legittimato a qualificare la propria identità e a poter dire a tutti  chi egli sia, quale sia il suo ruolo, garantendo così al gruppo coesione simbolica e unità in ragione  di ciò che è e di ciò che fa. Chi è costui?” Costui che introduce una differenza dentro l’identità?  Colui che, citando Italo Mancini, apre la questione del perché e del come per degli essere nati tutti  uguali ci sia qualcuno che comanda e qualcuno che obbedisce. b) Rappresentanza e delega. Scrive Meyer: “il potere politico non sarebbe potuto sopravvivere  senza l’addomesticamento della differenza da cui è scaturito. Per quanto si sforzi di ‘rappresentare’,  ossia di esprimere il gruppo, esso lo trascende e in quanto potere non è altro che una differenza che  non deve più nulla all’identità”. Nelle nostre democrazie in crisi, dove comunque il riferimento  all’eguaglianza resta fondamentale e costitutivo, come si rapporta differenza, legittimità e  rappresentanza? c) Differenze e diritti. Ciò che Martha Minow chiama “il dilemma della differenza”, e cioè “la  difficoltà di capire fino a che punto i trattamenti differenziati enfatizzano le differenze”42. Le attuali  democrazie vivono il cambiamento radicale che è avvenuto da un’età moderna avvinta  dall’angoscia per la differenza, in cui il “desiderio di neutralizzare la differenza, di  addomesticarla” era prevalente, ad un tempo, quello odierno, in cui massimizzare la  legittimazione dell’aspirazione di ognuno alla differenza, riconoscendole uno statuto di legittimità:  una esaltazione della singolarità che rischia di spezzare ogni “comune” possibile. Ecco allora che ogni differenza mette in crisi, in quanto segna una lacerazione tra il nostro  personale orizzonte di attesa e quanto lo spazio di esperienza ci attesta, tra ciò che era atteso e ciò  che accade (non è forse questa una delle caratteristiche della crisi che stiamo vivendo?). Vi è un  limite, che neppure il paradigma moderno di razionalità è stato in grado di sfondare, che ci attesta.  Ricoeur ce lo ha indicato, le crisi che costituiscono la crisi che stiamo vivendo ce lo ricordano:  spetta a noi inaugurare un nuovo tratto di strada in compagnia non violenta della differenza, senza  fagocitarla o assolutizzarla. 

Luca Alici

05/09/2012
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Luca Alici
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