Le pouvoir des commencements. Essai sur l’autorité

M. Revault d’Allonnes (Éditions du Seuil, Paris, 2006)

Il potere degli inizi” è la suggestiva espressione con cui la filosofa francese Myriam  Revault d’Allonnes (professeure émérite all’École Pratique des Hautes Études di Parigi) definisce il  concetto di autorità. Siamo tutti d’accordo, scrive l’autrice nell’introduzione del testo, quando  diciamo che viviamo oggi una “crisi dell’autorità”: crisi che sembra essere senza precedenti, poiché tocca non soltanto la sfera politica, ma anche la famiglia, la scuola e persino il potere giudiziario.  Tuttavia, comprendere la natura esatta della crisi e interrogare la nozione di autorità è “tout un autre  affaire” (p. 11). Quello che Revault d’Allonnes propone al lettore è un percorso di analisi che  potremmo definire un’operazione chirurgica: a partire dall’evidenza condivisa della crisi, tagliare i  pregiudizi del passato che la crisi stessa porta in superfice, attraverso il bisturi della riflessione  filosofica, per ricucire infine una nuova proposta di futuro. Che l’autorità non sia più ciò che è stata,  che la sua accettazione tradizionale non esista più, è un fatto incontestabile, dicevamo. Ma questo  significa che l’autorità “in generale” è scomparsa? La relazione d’autorità si è definitivamente  assentata dal mondo contemporaneo? O si è piuttosto trasformata, rimanendo nel tessuto delle  nostre esperienze, ma sotto nuove forme? E soprattutto: perché riflettere oggi su una nozione che,  nella sua nebulosità, nasconde in sé il rischio del ritorno all’“autoritario”? A tali domande è  possibile rispondere soltanto riprendendo l’analisi a monte e affrontando l’enigmatico spessore di  una nozione fino ad oggi poco esaminata dal dibattito filosofico. 

Interrogare la nozione di autorità significa prima di tutto confrontarsi con la sua complessità  plastica, dal momento che essa è, sottolinea Revault d’Allonnes, “universale per quanto riguarda il suo concetto”, ma “polimorfa nelle sue figure” (p. 24). Questo implica fare luce sulle confusioni  che la riguardano, e per questo l’autrice è particolarmente attenta alla distinzione del concetto di  autorità da altri concetti vicini (potere, dominazione, violenza). Tutta la prima parte del libro  mobilita, riprendendo le analisi arendtiane, i riferimenti all’antichità greca e romana. E, come  Arendt, ispirandosi al primo di tali riferimenti, Revault d’Allonnes distingue, per estrarre l’essenza  del politico, il potere (potere “con”, prima del potere “su”) dalla violenza (dominazione,  coercizione). Rivolgendosi poi verso il pensiero romano, la filosofa rifiuta di vedere nell’autorità un  semplice attributo del potere, lo strumento della sua legittimazione e della sua inclinazione a farsi  obbedire. Il riferimento alla romanità fornisce, secondo lei, una “matrice” perenne per poter pensare  la questione dell’autorità ancora oggi (anche se tale matrice non può costituire l’oggetto di una vera  ripresa sostanziale). L’autrice apre quindi una finestra temporale, adottando una periodizzazione  attraverso cui identifica tre momenti nella storia dell’autorità: il momento antico, il momento  moderno e il momento contemporaneo, riconoscendo nella contemporaneità l’eredità della rottura  tra i primi due momenti. La modernità, mettendo in discussione ogni tipo di autorità derivante dal  divino o dalla tradizione e cercando il suo fondamento in se stessa, ha concepito una nuova  definizione umana e un mondo regolato da scambi contrattuali tra volontà individuali. È proprio  questo mondo, quello in cui avviene la rottura, che la crisi di oggi avrebbe bisogno di  interrogare: “Le mouvement d’émancipation critique propre à la modernité a-t-il fait disparaître  toute référence au tiers ? […] L’égalité ne souffre-t-elle la reconnaissance d’aucune dissymétrie ?” (p. 12). Secondo Revault d’Allonnes, il passaggio emancipatore che ha operato la modernità non  consisterebbe nella cancellazione dell’autorità, quanto piuttosto nella sostituzione di un’autorità con un’altra, quella del passato con quella del futuro: ed è soltanto nel momento contemporaneo che la questione del fondamento della legittimità è diventata veramente problematica, quando cioè  l’autorità del futuro sembra essere scomparsa. In tale senso, la crisi dell’autorità attuale non è il risultato della radicalizzazione della rottura moderna, ma piuttosto il segno di una crisi più profonda,  che i Moderni stessi hanno ignorato, una “crisi della temporalità”. Tale crisi, evidenzia l’autrice,  genera necessariamente una crisi dell’autorità, se si ammette che, proprio in virtù della duplice  esperienza antica e moderna, è il tempo che “fa autorità” (“le temps fait autorité”, p. 15). Cosa  possono insegnarci, dunque, queste due esperienze?  

Per quanto riguarda l’antichità, Revault d’Allonnes si fonda sull’opposizione tra un pensiero  politico greco e uno romano. Il primo elabora principalmente una teoria dello spazio (o “dei  luoghi”), che permette di pensare l’eguale partecipazione di tutti all’esercizio del potere: i Greci  sono i veri inventori della democrazia – cioè dello spazio pubblico come matrice del potere politico,  potere fondato sui principi della discussione (e in questo senso, la rottura dei Moderni sta nell’aver  interpretato tale spazio come un luogo vuoto dove gli individui si aggregano per mezzo di un  contratto). Il pensiero politico romano è più attento al fenomeno dell’autorità e incentrato sulla  questione del tempo – non il tempo lineare o cronologico della storia degli eventi, ma quello che  assicura la permanenza del mondo comune, questa “durata pubblica” che garantisce la continuità  delle generazioni secondo le regole della “trasmissione” e della “filiazione”. Indicando i Romani come i fondatori di un pensiero dell’autorità, che è di un ordine altro rispetto al potere e alla  persuasione, Revault d’Allonnes ne indaga l’esercizio: i Romani operavano una distinzione tra il  magistrato, che rappresentava il popolo e che disponeva del potere di decisione (il potere in senso  proprio) e il Senato, depositario dell’autorità, nel senso in cui “l’autorité n’ordonne pas, elle  conseille” (p. 26). La legittimità del Senato si fondava sul legame che intrattenevano i suoi membri  con il momento della Fondazione (l’initium della civitas) e con la tradizione che tale momento  aveva iniziato. L’autrice si serve dell’esempio romano per marcare l’originalità universale della  relazione d’autorità, che oscilla tra l’ordine e il consiglio: “Ni égalitaire ni hiérarchique au sens  strict du rapport commandement/obéissance, la relation d’autorité implique néanmoins une  dissymétrie caractéristique: une dissymétrie non hiérarchique, si l’on préfère” (p. 41). Una  “dissimmetria non gerarchica”, quella inscritta nel rapporto di autorità, che costituisce esattamente  il fulcro del progetto di emancipazione dei Moderni. 

Passando al momento della modernità, Revault d’Allonnes ammette che il suo avvento  consacra la scomparsa di un certo rapporto all’autorità, ma, si chiede, “viviamo, nonostante ciò, in  un mondo senza autorità?”. La filosofa cerca di comprendere in cosa consista la vera novità dei  Tempi Moderni, ciò che fonda la loro “legittimità”. A partire da Cartesio, fino a Kant, la modernità  vuole auto-autorizzarsi, al punto che la sua originalità sembrerebbe essere prima di tutto la  conquista della propria autonomia rispetto a ogni tipo di trascendenza. Tuttavia, tiene a evidenziare Revault d’Allonnes, ciò che caratterizza la modernità non è la messa in opera del progetto, quanto il  progetto in sé. In altre parole, la modernità non cancella, ma reinveste la questione dell’autorità: “Si  paradoxal que cela puisse paraître, la perte de l’autorité de la tradition relance, chez les Modernes,  la question de la transmission dans la mesure où elle projette en avant une autorisation qui ne peut  plus se réclamer d’un passé immémorial” (p. 15). Nei Moderni, la domanda non è più “da dove  viene l’autorità?”, ma “verso dove va l’autorità?”, nota Revault d’Allonnes. Dunque l’autorità non è  più soltanto quella del passato e della tradizione, ma anche quella del futuro; in effetti, è il progetto  che ci autorizza ad agire, e l’autorità si esercita soltanto quando essa iscrive l’azione in un divenire.  I Moderni hanno certamente rifiutato l’autorità della tradizione, rompendo con l’argomento  d’autorità e con il primato di una trascendenza teologico-politica. Ma nello stesso tempo essi si  sono auto-istituiti e hanno assicurato la loro esistenza e la loro perpetuazione facendosi garanti di un  divenire storico e politico “da pensare” e “da fare”. Pertanto si sono auto-autorizzati a trasmettere,  vale a dire hanno attribuito autorità al futuro. Viene così istituito un altro rapporto al tempo, nel  quale la dominazione del passato scompare per lasciar spazio al futuro, e che viene espresso  perfettamente nelle filosofie del progresso caratteristiche della modernità, dove il tempo subisce  un’accelerazione e la storia diventa un oggetto controllabile dall’uomo. Ma è esattamente il proposito dei Moderni a essere divenuto problematico oggi: il crollo dei progetti legati al carattere determinante dell’avvenire (la fine delle ideologie, l’esaurimento dei miti rivoluzionari, la  scomparsa delle speranze secolari…) ha fatto sopraggiungere un tempo che Revaut d’Allonnes  definisce “senza promesse” (“Le temps a cessé de promettre quelque chose”, p. 138). Perché,  potremmo chiederci, un tempo che “ha smesso di promettere qualcosa” avrebbe generato la nostra  “crisi dell’autorità”? E soprattutto, di quale aspetto dell’autorità stiamo parando? 

L’ipotesi dell’autrice, che è il filo conduttore del libro, è che “il tempo è la matrice  dell’autorità come lo spazio è la matrice del potere” (“le temps est la matrice de l’autorité comme  l’espace est la matrice du pouvoir”, p. 13). L’autorità ha a che fare con il tempo, perché essa si  esercita in un mondo la cui struttura è temporale. Non tanto perché la nozione si elabora a una certa  epoca e in determinate condizioni (il riferimento va all’auctoritas romana), ma perché essa cambia  di senso e di contenuto secondo determinazioni storiche e politiche. È, secondo la filosofa francese,  il carattere temporale dell’autorità – più precisamente la sua “générativité” (“generatività”) – che ne  fa una dimensione indispensabile del legame sociale: essa assicura la continuità delle generazioni,  la trasmissione, la filiazione, rendendo conto delle crisi, delle discontinuità, delle rotture che ne  strappano il tessuto, la trama. Essendo la “générativité” di ordine temporale, il suo ruolo è dunque  quello di assicurare l’articolazione del passato, del presente e del futuro. Ma con la rottura dei  Moderni, il guadagno in materia di emancipazione è stato pagato con una profonda incertezza che  tocca la radice stessa del legame sociale: spezzando l’idea di tale “générativité” come struttura del  vivere-insieme, “le problème de la déliaison atteint un point crucial” (p. 153). È qui, di fronte  all’acme dello “slegamento” contemporaneo, che Revault d’Allonnes reintroduce la nozione di  “durata pubblica” (“durée publique”), alla quale si richiama per varcare i limiti di un riferimento esclusivo allo spazio pubblico e per pensare la consistenza (temporale) del legame sociale. Proprio  nei passaggi dedicati al “lien social”, l’autrice mostra tutta la sua attenzione alla filosofia  dell’Istituzione e del Terzo, pensata tuttavia al di fuori – o meglio, al di là – dello spazio pubblico.  Le sue considerazioni conducono alla proposta di un cambio di paradigma nel pensiero politico  democratico, spostando il fulcro dell’analisi dalla metafora spaziale – che nasce con la polis greca e  che giunge alle riflessioni più contemporanee sul “lieu vide du pouvoir” (Claude Lefort) – alla  metafora temporale, il cui sviluppo occuperà i due ultimi capitoli dell’opera. L’autrice si chiede se  non sia proprio dalla “trascendenza” (“transcendance”) nata dalla “durée publique” che procede  l’autorità (p. 153): in effetti la questione della “trascendenza”, o dell’esteriorità (“extériorité”) iscritta nella relazione di autorità, resta oggi pienamente pertinente. Mettendola al centro della sua  riflessione, Revault d’Allonnes modella la questione dell’autorità sotto la forma di  un’interrogazione sulle configurazioni accettabili (non gerarchiche) di una relazione asimmetrica.  Soltanto la dimensione del tempo come durata pubblica, può pienamente soddisfare l’esigenza di  render giustizia alla trascendenza costitutiva della relazione d’autorità. L’analisi si concentra prima  di tutto sul fenomeno della credenza (a cui dedica il terzo capitolo dell’opera, “Croire en l’autorité”),  prendendo spunto dalle riflessioni di Max Weber sui “regimi di credibilità” nei tre tipi di dominio (“tradizionale”, “carismatico”, “legale-razionale”), ma anche da quelle che Paul Ricœur sviluppa  sul concetto di ideologia. La credenza nella legittimità va al di là dei motivi che spingono all’obbedienza. La legittimità non è un “plus” che si aggiunge alla dominazione esercitata, essa è in  realtà fondatrice e permette d’iscrivere ogni relazione d’autorità “legittima” nello spazio del  riconoscimento. L’enigma weberiano “del supplemento di credenza” (identificato e sviluppato da  Paul Ricœur) permette a Revault d’Allonnes di riformulare più precisamente l’“enigma dell’autorità” (“énigme de l’autorité”) come “aumento” o “supplemento”: si tratta di un  “supplément d’origine” che rinvia all’ “excès primordial” della credenza, secondo le motivazioni che aveva già identificato Max Weber. In altre parole, “toute approche de l’autorité rencontre,  quelle que soit sa perspective, l’énigme d’une supériorité, d’une extériorité en amont, d’un valoir plus” (p. 195).  

Questa specificità del “supplemento d’origine” che introduce la relazione d’autorità  consente alla fine a Revault d’Allonnes di affrontare la questione dell’istituzione. Riprendendo la prospettiva fenomenologica, di cui Merleau-Ponty è il principale interlocutore, la filosofa tratta la  questione della “dimensione istituente” del sociale. Dietro all’istituzione “istituita” (“instituée”), si  trova l’istituzione “che istituisce” (“instuante”): l’autorità non è soltanto dell’ordine dello stabilito  (“établi”), ma è una forza istituente, ha una capacità dinamica. Essa non prende appiglio da un  passato inteso come un “residuo” o un “deposito” – il passato non si riduce alla tradizione -, essa si  radica in una profondità vivente. Simmetricamente, ricorda l’autrice, l’avvenire al quale essa apre è  un’esigenza intrecciata d’incertezza, il richiamo a una continuazione che non è votata ad alcuna  realizzazione. Il ritorno sulle origini dell’“institué” e la risalita verso l’“instituant” permette di  articolare emancipazione e tradizione in un nuovo rapporto all’autorità: “Je ne peux donc  m’affranchir d’une histoire sédimentée, retombée, qu’en renouant avec le sens enfoui sous les  sédimentations, en le refaisant présent, en le présentifiant. Mais je ne le retrouverai jamais tel qu’il a  été « à l’origine » : le mode d’être du sens n’est pas la survie, encore moins la conservation du passé,  mais le renouvellement” (p. 219). L’istituzione non è quindi, per Revault d’Allonnes, dell’ordine di  un patto o di un contratto. La vera funzione dell’istituzione è articolare le tre dimensioni del tempo  (passato, presente, futuro) per rendere possibile “le partage temporel du monde commun, habité non  seulement par des générations différentes qui coexistent les unes avec les autres – les  «contemporains» – mais aussi par ceux qui ont disparu – les «prédécesseurs» – et par les vivants  encore à naître – les «successeurs»” (p. 256). Agli occhi della filosofa francese, questo approccio  all’istituzione che ne fa prima di tutto una “risorsa dell’azione” votata al futuro, è possibile soltanto  se rinunciamo sia a un discorso politico meramente contrattualista, sia alle letture che fanno  dell’autorità o un puro strumento di dominazione, o un luogo dedicato alla sola conservazione del  passato. Certamente, riconosce Revault d’Allonnes, “Rien de plus difficile à admettre, on le sait,  que l’idée d’une réciprocité dissymétrique – entre des termes incomparables – ou d’une dissymétrie  non hiérarchique dans un monde où le passé ne fait plus autorité et où l’autorité a cessé d’être  tradition” (p. 259). Tuttavia questa evidenza non può impedirci di scoprire una nuova maniera di  “trattenere il passato” e di “immaginare un avvenire indefinito”. 

Ri-pensare l’autorità del e nel tempo, significa in ultima analisi de-centrare la tradizione  maggiore della filosofia politica: se la questione del potere è sempre stata posta come la questione  fondamentale – seguita da quella dell’autorità, intesa come un suo attributo -, è perché essa è stata  inscritta nel quadro di una topologia, di una teoria dei “luoghi”. Considerare che, prima ancora di  parlare di potere, di Stato, di sovranità, occorra trattare altrimenti l’autorità, significa calare la  temporalità nel cuore della riflessione sul vivere-insieme. Riprendendo la questione dell’autorità  attraverso la categoria della “générativité” sarebbe allora possibile, seguendo Revault d’Allonnes, oltrepassare un’analisi che si iscriverebbe soltanto sotto il segno della mancanza e della perdita. Che  la nostra “ultra” modernità sia alle prese con un “disincantamento del mondo” (Max Weber) quasi  strutturale, è certamente un fenomeno incontestabile, ma non irreversibile. E le pagine di questo  libro invitano ad aprire un nuovo sguardo sul fenomeno della crisi, dal quale ripartire per una nuova  “mise en sens” del mondo. La “générativité” temporale, assicurando la permanenza del “mondo  comune” (il mondo che noi condividiamo non soltanto con i nostri contemporanei, ma anche con i  nostri predecessori e con i nostri successori, con coloro che sono nati prima di noi e con coloro che  nasceranno dopo di noi), è tanto determinante quanto la dimensione dello spazio pubblico o dello  spazio comune. È per la durata di questo mondo comune che noi possiamo infine interpretare  positivamente la nozione di autorità e comprenderne in profondità la “force liante” (“la forza che  lega, che unisce”). Revault d’Allonnes dedica il libro a Paul Ricœur, di cui cita una frase: “Je  reporte sur ceux qui viendront après moi la tâche de prendre la relève de mon désir d’être, de mon  effort pour exister, dans le temps des vivants”. C’è, si chiede l’autrice, una più giusta definizione di  autorità? L’enigma del “potere degli inizi” e del suo continuo oscillare tra conservazione e frattura,  non si nutre in fondo della possibilità di donare a coloro che verranno dopo di noi la capacità di  iniziare a loro volta? È un enigma, questo, che si trova meravigliosamente riassunto nell’aspetto paradossale delle due frasi che concludono il volume: “Commencer, c’est commencer de continuer.  Mais continuer, c’est aussi continuer de commencer” (p. 264). Il grande merito dell’analisi rigorosa con cui Revault d’Allonnes accompagna il lettore alla  comprensione del fenomeno della “crisi dell’autorità”, è di aver smussato la complessità di tale  fenomeno senza tuttavia averne ridotto la tridimensionalità. Con chiarezza di linguaggio, la filosofa  riconosce i nodi fondamentali della questione, sviluppandoli nella preoccupazione di aprire un  “oltre” al processo apparentemente inesorabile di “deistituzionalizzazione” del mondo  contemporaneo. Una lettura originale e una voce potente, quelle di Revault d’Allonnes, che  valorizzano l’importanza del dialogo intergenerazionale, la centralità del progetto comune e  l’articolazione feconda tra fiducia e speranza. Una lettura e una voce che, oggi più che mai, la  nostra realtà politica (e non solo) avrebbe bisogno di ascoltare per pensarsi altrimenti.

19/05/2006
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