La società possibile. Una lettura del Contrat social di Jean-Jacques Roussseau

Annamaria Loche (FrancoAngeli, Milano, 2018)

“L’antropologia cui si deve fare ricorso per capire come costruire la società legittima ha come base  la libertà e l’uguaglianza, le quali sono, nella filosofia di Rousseau, elementi imprescindibili per  capire ‘chi’ è l’uomo”. Certo si tratta dell’uomo mutato e decaduto nel corso della storia della  specie dopo l’uscita dallo stato originario, ma che può riappropriarsi della sua “essenza” (pp. 17-18;  61-63) edificando una forma di convivenza giusta in cui la “constitution humaine” arrivi a  realizzarsi in modo coerente ai suoi fini intrinseci. Annamaria Loche, nella sua ricostruzione del  Contratto sociale, ripercorre, con grande rigore e attraverso un’analisi dettagliata dell’opera, la  trama attraverso cui Rousseau dà forma non a un’utopia, ma a una proposta normativa (p. 18) che,  mentre da un lato si caratterizza per la sua fondamentale portata speculativa, dall’altro si situa nella  prospettiva della “possibilità”. La consapevolezza della complessità e delle zone oscure del divenire  storico fa emergere la più netta differenza dalle costruzioni astratte del giusnaturalismo sei e  settecentesco. Certo, Rousseau fa ricorso al lessico del diritto naturale e dei diritti naturali (pp. 53  ss.), ma ne cambia il significato perché quanto scrive su diritto/diritti ha alla sua base  un’antropologia al cui centro stanno i temi della liberté e dell’egalité. Proprio nella misura in cui la  rigidità delle categorie del giusnaturalismo è messa da parte, la normatività viene a caratterizzarsi  per il suo essere il prodotto dell’applicazione della ragione alla politica, ma di una ragione che, in  quanto umana, è insieme capace di universalità e però anche insidiata dagli aspetti negativi dell’  uomo qual è, cioè dell’uomo in cui, come la storia dimostra, la passione, l’egoismo, il male  insidiano costantemente l’artificio politico.  

Entro questo quadro generale trovano posto i vari passaggi del testo della Loche. Intanto c’è da chiedersi di quale natura è la normatività della “société bien ordonné” (per il termine  vedi Manuscrit de Génève, I, 2). Non basta distinguere la normatività dall’utopia, ma bisogna differenziarla, seppur non separarla, dalla morale; infatti, la normatività del Contrat social è politica, sebbene mantenga sullo sfondo e come giustificazione ultima i caratteri dell’essenza  umana già ricordati, vale a dire libertà e uguaglianza (p. 59). Sostenere che gli esseri umani non  sono in grado di partecipare, secondo quanto vorrebbe la tradizione scolastica, alla legge di Dio,  può essere un modo, non privo di ironia, per dire, da parte di Rousseau, che la giustizia è  prettamente opera dell’uomo (Du contrat social, II, 6, [p. 59 del testo]). Ovviamente su questa asserzione si potrebbero avanzare dei dubbi, specie tenendo conto della teologia del Vicario  savoiardo contenuta nell’Emilio, ma è ben vero che l’analisi della Loche è dedicata a un esame  strettamente interno del Contratto sociale. E in questo scritto il problema, come Rousseau afferma  esplicitamente, è capire cosa sia e quale funzione abbia la legge positiva: “quando si sarà detto  cos’è una legge di natura non si saprà meglio cos’è una legge dello Stato” (Du contrat social, II, 6).  

Allorché tratta della libertà, l’Autrice ribadisce con molta chiarezza il legame tra antropologia e  politica: “fra libertà antropologica e libertà politica esiste una relazione di reciproca garanzia, per  cui se, per un verso, la libertà politica è possibile solo perché l’uomo ha una natura libera; per un  altro, solo nella società del patto, dove il cittadino è ‘politicamente’ libero, la libertà antropologica  può manifestarsi in modo completo e senza ostacoli” (p. 72). La libertà politica è diversa sia dall’  “indipendenza” di cui godeva l’uomo nello stato di natura (p. 73), sia dalla “libertà naturale”, che “è  definibile come assenza di subordinazione reciproca […] e può forse richiamare il concetto  hobbesiano di assenza di impedimenti” (p. 75). L’una e l’altra costituiscono passaggi in progress della libertà, che diventa politica solo con la stipulazione del patto: unicamente questa forma di  libertà porta a sintesi antropologia e politica (pp. 77-85). Più precisamente, la libertà politica  coincide con l’obbedienza alla “volontà generale”, che è la volontà razionale dei citoyens riuniti  nell’assemblea sovrana e il cui senso è peculiare, almeno alle origini della modernità, a Rousseau.  Infatti, non indica più, come per esempio in Hobbes in Locke, la libertà d’azione rispetto a ostacoli  esterni all’individuo (cioè non è mera “indipendenza”), ma è la facoltà di obbedire esclusivamente  alle leggi che i cittadini stessi si danno in qualità di membri del sovrano: è autolegislazione. Il  cittadino è libero, essa scrive, non solo nella misura in cui si autodetermina, ma quando, in qualità  di sujet, cioè di suddito, obbedisce in tutto alla volonté générale (p. 89): “Il cittadino è libero nel  momento in cui la sua volontà coincide con quella generale perché è essa che assegna valore  compiuto alla libertà antropologica della quale, nello stato di natura, egli a volte rischiava di non  avere consapevolezza”. Però -si può osservare- che, se la volontà generale è intesa, secondo la  lettura dell’Autrice, come coincidente con la volontà empirica del popolo sovrano, ne deriva una  teoria dell’obbligo politico in cui rimane, per così dire, scoperto un lato non poco rilevante nella  stilizzazione della “società ben ordinata”. In effetti, chi mai può impedire che il popolo sbagli e,  magari con tutte le buone intenzioni, non finisca anche per opprimere quanti hanno votato contro le  decisioni del sovrano? Una cosa è che la volontà generale debba essere considerata giusta dal punto  di vista normativo, un’altra, ben diversa, è che essa può benissimo non esserlo dal punto di vista  empirico. C’è da chiedersi se sovrapporre i due piani non abbia come esito quello di svincolare la volontà generale da ogni limite e accettare, come scrive la Loche, che l’unico modo della sua limitazione sia l’“autolimitazione” (p. 90). 

Rousseau ci dice che il problema, così posto, non ha senso, perché anche chi vota contro la volontà  generale erra non essendone cosciente: “Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò  prova soltanto che mi ero sbagliato e che ciò che ritenevo essere la volontà generale non lo era. Se il  mio parere particolare fosse risultato vincente, avrei fatto una cosa differente da quella che volevo;  è in quel caso che non sarei stato libero” (Du contrat social, IV, 2). Ma chi è l’interprete autorizzato  della volontà generale? Qui Rousseau è tutto meno che chiaro, ma si può dire che la posizione  prevalente -al netto delle incertezze e anche delle aporie che emergono su questo aspetto- consiste  nel sostenere che l’interprete è la maggioranza. Però la maggioranza è composta di uomini che,  come tali, sono fallibili e sottoposti all’insidia delle passioni, degli interessi egoistici, delle  tentazioni del particulier; e allora addio diritti della minoranza e anche dei singoli, se questi  debbono sottostare a ogni legge votata dal popolo sovrano, il quale può dare come unica garanzia  quella di autolimitarsi (pp.89-90; 173). Più avanti, Loche sostiene che “il sovrano non ha alcuna  ragione di agire contri i privati i quali sono la sua ‘materia’” (p. 168), mentre i privati “non sono in  grado di cogliere sempre e del tutto il modo in cui l’interesse comune realizzi anche gli interessi  […] di ciascuno” (ibidem). Ma perché mai i privati, nel momento in cui sono investiti della potestà  sovrana, non possono sbagliare nel cogliere il nesso equo tra gli interessi (cfr. anche p. 172)?  L’analisi dell’Autrice è dettagliata e minuziosa, ma mi sembra di poter di poter dire che,  relativamente a questo aspetto, tende a far sua una posizione tutt’altro che isolata tra gli interpreti di  Rousseau, ma non per questo meno passibile di qualche appunto critico. 

Lo stesso Rousseau riconosce che la costante e indistruttibile rettitudine della volontà generale (Du  contrat social, II, 3) non impedisce che le deliberazioni del popolo non siano qualche volta tutt’altro  che rette; ciò perché “si vuole sempre il proprio bene ma non sempre lo si scorge” (ibidem). Quindi  il problema da risolvere diventa quello di adeguare e portare a sintesi volontà del bene e cognizione  di esso: un problema, appunto, di conoscenza (p. 207 e 221 ss.). E qui entra in gioco la figura del  Legislatore, che ha come compito quello di condurre a realizzazione piena le clausole del patto. E’  molto interessante la rassegna che l’Autrice fa delle varie possibili interpretazioni che sono state  date di questa enigmatica figura (cfr. pp. 231-240). Quella verso la quale sembra propendere  implica che la funzione del Legislatore sia duplice, cioè colmare il vuoto tra intelligenza e volontà  nel corpo sociale e, inoltre, plasmare i membri della società politica in modo che in essi si sviluppi  la sociabilité e che quindi si abituino a ragionare seguendo non il loro interesse particolare, ma il  bene comune: quindi una funzione che possiamo definire, seguendo Loche, gnoseologica e morale (p. 239). Tutto si gioca sul piano dell’educazione pubblica e della formazione civile dei cittadini,  scartando ogni riferimento alle tecniche di controllo e limitazione del potere tipiche del  costituzionalismo. E il perché è evidente: queste tecniche (governo della legge, divisione dei poteri,  inalienabilità di alcuni fondamentali diritti degli individui) contraddirebbero l’indivisibilità e  l’inalienabilità della sovranità (cfr. pp. 180-184). Locke e Montesquieu, in questo caso, sono  lontani, anche se per altri aspetti, puntualmente rilevati dall’Autrice, il rapporto di Rousseau con  quest’ultimo è molto importante (per es., a proposito della diversità dei popoli che devono ricevere  una costituzione [cfr. pp. 241-243] e quando si tratta del “gouvernement”, cioè del potere esecutivo  [pp. 253-256]). 

Passando a esaminare, dopo il concetto di libertà, quello di disuguaglianza, Loche, dopo aver  sottolineato le differenze fra la trattazione del concetto nel Discorso sulla disuguaglianza e il  Contratto sociale (pp. 98-101), mette l’accento sul carattere prettamente normativo che Rousseau conferisce al tema nel 1762: qui la contrapposizione cruciale è tra “forza” e “diritto”.  Innanzitutto questo vuol dire che l’uguaglianza si lega strettamente al requisito dell’“unanimità”  nella stipulazione del patto; “Non vi è nelle loro tesi [di Hobbes e di Locke], un legame teorico  necessario tra unanimità e uguaglianza. In Rousseau, invece, sono strettamente collegate  all’unanimità in duplice senso. Per un verso, è per la loro natura di esseri liberi e uguali che gli  individui possono stringere il patto sociale […]. Per un altro verso, il patto, in quanto unanime, dà  luogo a quella che è stata definita una ‘libera comunità di uguali’ [J. Cohen]” (p. 108).  Inoltre la legge è la garanzia fondamentale dell’uguaglianza, sia civile e politica che sociale  (pp.211-217). 

Il cap. 6 è dedicato al governo, cioè a quel potere cui è delegato il compito di mettere in esecuzione  le leggi emanate dal popolo sovrano. Nel complesso, credo si possa parlare, a proposito della  materia di questo capitolo, di un paradosso del governo

1) esso è necessario per tradurre in concreto le leggi emanate dal sovrano, la cui assolutezza e  indivisibilità impediscono di pensare che l’istituzione dell’esecutivo sia opera di un patto -il quale  implica sempre la compresenza di due poteri indipendenti; ed infatti è con una legge del sovrano  che il governo viene istituito e, poiché il sovrano ha la facoltà di cambiare tutte le leggi che vuole e  come vuole, ne deriva che il governo viene a dipendere completamente dalla sua volontà (Du  contrat social, III, 18; diversamente da Montesquieu, la distinzione tra sovrano e governo non è una  divisione di poteri ma di “funzioni” (p. 248); 

2) però, come l’esperienza insegna, la tendenza naturale dei governi è di usurpare l’autorità del  sovrano; è un caso particolare della contrapposizione tra generale e particolare nel corpo politico: il governo per sua natura si deve occupare solo di casi specifici e determinati, mentre al sovrano  spetta di curare il generale, che è la legge; ma il governo, come “corpo”, ha e deve avere facoltà,  prerogative, attribuzioni, privilegi -prima di tutto il diritto di usare la forza- che poco a poco lo  portano a minare le competenze del sovrano.  

Le modalità di questo processo possono essere diverse, ma l’esito è sempre o stesso: lo Stato finisce  per essere distrutto (cfr. pp. 279-283). L’importanza del libro III del Contratto sociale, dedicato  appunto al governo, sta nel fatto che qui emerge palesemente la potenziale contraddizione della  politica, anche della politica migliore: quella tra forza e diritto. La società ben ordinata si fonda  sulla supremazia della legislazione (non della legge), ma è insidiata costantemente dalla potenza  degli interessi particolari che si fanno valere con l’inganno o con la forza. Il contratto giusto vive  sempre accompagnato dall’ombra del contratto iniquo descritto nel Discorso sulla disuguaglianza.  E qui emerge la fecondità della categoria della possibilità, su cui la Loche ha impostato il suo  lavoro; tutti gli Stati vivono sul crinale della possibilità: i meglio edificati (Sparta, Roma  repubblicana) vivono più a lungo, ma anche per essi sembra valere, almeno come monito quanto  Rouseau scrive all’inizio del cap. 10 del libro III: “Come la volontà particolare opera  incessantemente contro la volontà generale, così il Governo compie uno sforzo continuo contro la  Sovranità. Più questo sforzo cresce, più la costituzione si altera e, poiché in tal caso non esiste  affatto un’altra volontà di corpo la quale, opponendo resistenza a quella del Principe, la  controbilanci, deve accadere presto o tardi che il Principe schiacci il Sovrano e rompa il trattato  sociale. E’ il vizio insito e inevitabile che, dal momento della nascita del corpo politico, tende senza  sosta a distruggerlo, così come la vecchiaia e la morte distruggono il corpo dell’ uomo”. Fino a un  certo punto è dato agli uomini impegnati nella costruzione della società giusta far fronte a questa  degenerazione; infatti, solo a due condizioni può essere istituito un governo, cioè premettendo ogni  volta due “formule”: “La prima: se è volontà del Sovrano conservare la presente forma di Governo.  La seconda: se è volontà del popolo di lasciarne l’amministrazione a coloro che ne sono  attualmente incaricati”. 

Peraltro la storia è lì a dimostrare che questi princìpi sono stati prima o poi violati. Ma la possibilità  si regge su una forza potenzialmente più grande delle smentite dei fatti: anche se per ipotesi non  fosse mai accaduto che uno Stato sia stato edificato secondo i “princìpi del diritto politico” e/o se le  clausole del patto non fossero mai state “formalmente enunciate”, ciò non toglie nulla alla loro  validità e portata universale (“sono ovunque le stesse”: Du contrat social, I, 6), perché contengono  ed esprimono i princìpi trascendentali di ogni ordine politico, cioè le condizioni di possibilità di esso, e nessuna smentita empirica, nessuna crisi, li può cancellare. La possibilità si tinge di una  coloritura tragica, ma resta in piedi.

18/12/2018
Data
Roberto Gatti
Autore

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