La libertà fragile. L’eterna lotta per i diritti umani
Louis Godart (Mondadori, Milano, 2012)
Le tematiche relative alla tutela dei diritti dell’uomo vengono ricorrentemente invocate, in maniera del tutto trasversale nel mondo politico, civile e religioso, senza alcuna differenza tra livello interno e livello globale. A fronte di una diffusione tanto capillare del dibattito sui diritti dell’uomo, tuttavia, si è ben lontani dall’assicurare a tutti gli esseri umani i principi affermati dalle più importanti dichiarazioni dell’ultimo secolo. Ancora oggi, in ogni angolo del mondo, si assiste a palesi violazioni dei più basilari diritti sanciti nel corso della storia, senza alcuna eccezione per quegli stati occidentali che si suol definire tra i più avanzati e democratici, i quali continuano a perpetrare azioni di guerra e torture nei confronti di altre popolazioni nel mondo. Eppure i diritti umani sono considerati un prodotto della modernità occidentale, retaggio degli sviluppi intellettuali e filosofici a partire dalla civilta greca a quella romana, con l’apporto essenziale della cultura biblica e cristiana, passando per il XVII-XVIII secolo, i quali trasformarono la fede nel progresso, nella scienza e nella ragione come fulcro portante del sistema della società. È certamentente innegabile guardare ai diritti umani come naturale esito dei processi della modernità; è allo stesso modo rilevante sottolineare con quale peso abbiano influito sul progresso dei medesimi le esperienze ereditate nel corso dei millenni precedenti.
Fermamente convinto che «se i sacri principi di libertà, uguaglianza e fratellanza illuminano le odierne dichiarazioni dei diritti umani, è perchè migliaia di uomini e di donne hanno combattuto strenuamente nel corso dei secoli per imporli a chi deteneva il potere» (p. 9), Louis Godart, professore di Civiltà egee presso la facoltà di Lettere dell’Università di Napoli Federico II, ripercorre le tappe principali delle battaglie per i diritti umani dall’inizio dell’umanità ad oggi. L’autore, considerando la scrittura, e conseguentemente la legge scritta e codificata, l’unico mezzo in grado di tutelare i diritti dell’uomo, pone come punto di partenza del suo excursus storico il IV millennio a.C., periodo della comparsa della scrittura, al termine della rivoluzione neolitica. Sebbene sia universalmente ritenuto che la più antica testimonianza legislativa rinvenuta sia il codice di Hammurabi, una raccolta di matrice mesopotamica risalente al XVIII, grazie alle più recenti scoperte è possibile prendere in analisi un’ulteriore codificazione mesopotamica che precede di tre secoli la più nota. Si tratta del Codice di Ur-Nammu, fondatore della terza dinastia di Ur nel 2110 a.C.: il testo delle leggi, inciso su una tavoletta d’argilla conservata presso il museo di Istanbul, afferma che «la giustizia ferrea dell’occhio per occhio, dente per dente […] aveva già ceduto il passo, nel mondo sumerico, a una giurisdizione più umana, che sostituiva le mutilazioni corporee con risarcimenti economici» (p. 17). Un codice la cui rilevanza è insita nell’affermazione di principi basilari per la tutela dei diritti dei più deboli già ben oltre 4100 anni fa. Il successivo Codice di Hammurabi avrebbe persino assicurato personalità giuridica agli schiavi. Il concetto di giustizia era, infatti, sorprendentemente considerevole nell’antica civiltà sumerica.
Nel 539 a.C. il re persiano Ciro il Grande, dopo aver sconfitto i Babilonesi, incise il “Cilindro di Ciro”, un testo in cui venivano riconosciuti alcuni diritti fondamentali, tra cui la libertà di culto e l’abolizione della schiavitù.
Dall’area mesopotamica l’autore dirige poi la propria attenzione verso Occidente, passando in analisi le evoluzioni nell’ambito delle origini della tutela dei diritti umani in Grecia. Antecedentemente alle testimonianze di Omero, grazie al ritrovamento di tavolette in lineare B risalenti al II millennio a.C., è possibile individuare le prime tracce di giuridicità nella società micenea: la condizione dello schiavo miceneo è del tutto assimilabile allo schiavo sumerico; questi avrebbe potuto, secondo la legislazione del tempo come nel codice di Hammurabi, godere di personalità giuridica, ricorrere ad un’autorità centrale per far valere i propri diritti, sposare persone di condizione libera e possedere terre e greggi. È tuttavia presumibile che nella società vi fossero dei “veri schiavi” (con ogni probabilità prigionieri di guerra) che, diversamente dai primi, non avrebbero potuto godere di tali condizioni. Il più importante codice dell’antica Grecia è quello delle leggi di Gortina (VI-IV secolo), una raccolta di articoli concernenti svariati ambiti, i quali regolano questioni che vanno dalla libertà alle offese corporali, dai figli nati dopo una separazione ai figli adottivi, segnando una svolta per quanto riguarda l’introduzione delle norme relative alla partecipazione delle donne all’eredità dei genitori. Altra fonte rilevante per la disamina della tutela dei diritti in Grecia è rappresentata dalla letteratura. Nell’Orestea, Eschilo decanta l’elevatezza delle leggi di cui Atene si è dotata sconfiggendo l’anarchia e il dispotismo. Come sottolineato dall’autore «nell’Atene democratica i conflitti sono risolti non più a colpi di vendette o di ritorsioni sanguinarie, ma sotto l’egida di Dike, la Giustizia» (p. 48). L’Antigone di Sofocle – cosa ben nota – afferma che la legge della Giustizia è superiore alla “ragion di Stato”. Godart tuttavia, anticipando le conclusioni a cui giungerà nella parte finale del libro, pone in rilievo un episodio, quello del processo a Socrate, che sembra scardinare i progressi fino a quel momento raggiunti in una Grecia tollerante nei confronti dei deboli e dei fedeli appartenenti ad altre religioni.
Anche Roma, dapprima con le leggi Cornelia (81 a.C.) e Petronia (61 d.C.), e successivamente con il Senatus consultum Claudianum, emana delle disposizioni a tutela degli schiavi, abolendo il diritto del padrone di uccidere lo schiavo, l’obbligo per gli schiavi di combattere contro le bestie feroci, la castrazione e istituendo il dovere per il padrone di assicurare cure mediche allo schiavo.
Il tragitto che congiunge tali primi accenni di tutela dei diritti dell’uomo alla formulazione delle moderne Dichiarazioni e delle Carte costituzionali è ripido, tortuoso e richiede secoli di gestazione. Godart rivela però che, contrariamente a quanto si è soliti credere, non bisogna attendere il XVIII per poter rintracciare le pietre miliari delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Nel 1222, infatti, Sundjata Keita, primo imperatore del Mali, rivolgendosi al mondo intero, proclama la carta Manden, una dichiarazione dei diritti umani essenziali come il diritto alla vita e alla libertà, alla giustizia e alla solidarietà. Eliminando la schiavitù, la Carta anticipa di diversi secoli le acquisizioni che l’Occidente affermerà in via definitiva soltanto nel 1948.
Ritornando in Europa e ripercorrendo la storia del concetto di diritti dell’uomo, Godart pone in evidenza l’importante ruolo della Magna Charta Libertatum: essa è strumento di garanzia contro l’imprigionamento prima di aver subito un regolare processo da parte di una corte di pari o seguendo la legge del regno, secondo l’Habeas corpus, un «mandato esecutivo che impone la conduzione di un suddito imprigionato di fronte a un tribunale per un giusto processo o, in alternativa, alla scarcerazione» (p. 64). Ulteriori testi britannici, quali la Petition of Rights del 1628 o il Bill of Rights del 1629, fondamentali per lo sviluppo dei diritti umani, affermando l’impossibilità del re di sospendere le leggi, la competenza ad approvare le imposte e gli interventi dell’esercito da parte del Parlamento ed il divieto di infliggere pene crudeli o sanzioni pecuniarie spropositate, potrebbero essere pacificamente considerati come antecedenti delle dichiarazioni rivoluzionarie americane e francesi.
La prima dichiarazione occidentale dei diritti dell’uomo dell’epoca moderna, quella dello Stato della Virginia, riferimento per la formulazione della successiva Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776 e dei primi dieci emendamenti alla Costituzione degli Stati Uniti, afferma che: «tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti e hanno alcuni diritti innati, cioè il godimento della vita e della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguire e ottenere la felicità»; «tutto il potere è nel popolo»; «i poteri legislativi ed esecutivi devono essere separati»; «tutti gli uomini hanno uguale diritto al libero esercizio della religione»; «la libertà di stampa è una delle principali roccaforti della libertà».
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, base del diritto costituzionale moderno, segna la fine della sovranità monarchica in Francia a favore della sovranità nazionale ed istituisce vigorosamente il concetto di uguaglianza. «I diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo sono legati alla sua natura umana» (p. 84) e dunque la concezione secondo la quale possa esistere un diritto naturale al di sopra del diritto positivo viene invocata e ampiamente riconosciuta. Proclamando i diritti umani “per natura”, la Dichiarazione assume portata universale, nello spazio e nel tempo, e include delle caratteristiche che le permettono di contraddistinguersi dai precedenti documenti. La Dichiarazione del 1793 riprenderà i principi della precedente enfatizzando la felicità quale scopo della società, la sovranità del popolo, le libertà di espressione, opinione e culto, l’uguaglianza e introducendo una serie di nuovi diritti quali la libertà del commercio e dell’industria e l’interdizione di ogni forma di alienazione. La schiavitù, invece, verrà abolita nel 1794, ma sarà reintrodotta dopo un brevissimo lasso di tempo, nel 1802, da Napoleone.
Ad essere volutamente enfatizzata dall’autore, sfogliando le pagine del testo, è la continua tensione tra l’evoluzione e l’involuzione. La condizione dello schiavo nel periodo napoleonico e, ancor prima, durante la corona di Luigi XIV (attraverso la promulgazione del cosiddetto Codice Nero con il quale veniva legalmente regolamentata la condizione degli schiavi neri nelle Antille francesi) sembra essere paradossalmente peggiore rispetto a quella dello schiavo nella Mesopotamia di Hammurabi e nella Grecia di Agamennone.
Nel 1781 Nicolas De Condorcet denunciò la condizione dello schiavo nero, considerato come un oggetto, privato di qualsiasi diritto, privato del diritto di possedere e coltivare un appezzamento terriero, del diritto di sposarsi senza il permesso del padrone ed esclusivamente con altri schiavi, e soggetto al ricorso a pene sproporzionate e violente. Soltanto nel 1848, in Francia, l’abolizione della schiavitù sarà considerata definitiva.
Prima di giungere all’evoluzione nella contemporaneità, l’autore si sofferma sul rapporto tra religione e diritti umani. Sebbene la Bibbia proclami l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge e alla giustizia e assicuri determinate tutele nei confronti di ogni essere umano, tali principi non possono in ogni caso essere assimilati all’idea moderna di diritti dell’uomo. L’individuo è ivi considerato, seguendo una concezione di tipo olistico, parte di un insieme, semplice componente di un corpo sociale, entro una prospettiva nettamente divergente rispetto alle posizioni individualistiche tipiche della modernità, le quali lo pongono in posizione prioritaria, considerando la società come prodotto di un’associazione volontaria di individui (il contratto fondativo della statualità moderno).
Tuttavia tra il Cinquecento e il Seicento, periodo caratterizzato da una forte influenza del clero nella scienza del diritto, i teologi della Scuola di Salamanca ebbero un ruolo rilevante nella creazione del diritto internazionale e della dottrina dei diritti dell’uomo.
A seguito di un incontro tra il domenicano Bartolomé de Las Casas, testimone della sanguinosa cristianizzazione forzata del popolo indigeno sottomesso alla dominazione spagnola e fervente attivista nel combattere contro tali pratiche, e l’imperatore Carlo V nel 1542, nacquero le “Leggi nuove“. Tali norme proclamavano la libertà degli indigeni, l’affrancamento degli schiavi, la libertà del lavoro, la libertà di residenza e della libera proprietà dei beni. Da veri precursori, tali autori rinnovano la teologia cattolica attribuendo ai non cristiani i medesimi diritti garantiti ad ogni cristiano, creando in tal modo una comunità mondiale fondata sull’appartenenza ad una stessa natura, ovvero la natura umana, piuttosto che sulla fede.
L’ultima parte del libro, giungendo ai giorni nostri, ripercorre il processo di internazionalizzazione dei diritti umani all’indomani del secondo conflitto mondiale. Nel 1948 l’ONU proclama la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un’enucleazione di diritti valida per ogni cittadino del mondo. La Carta non ha alcuna efficacia vincolante ma, senza dubbio, è insita in essa un’autorità di tipo politico e morale. I trenta articoli che ne fanno parte affermano i diritti individuali, politici, civili, economici, sociali e culturali di ogni essere umano, spaziando dal diritto alla vita alla libertà e alla sicurezza individuale, dalla libertà di opinione alla libertà di espressione, di associazione, di lavoro, di istruzione. La Dichiarazione ONU, la quale rappresenta un faro per la comunità internazionale e per le associazioni non governative in sostegno alla tutela dei perseguitati, è certamente molto influente e rilevante per i diritti umani nel mondo, ma è possibile porsi degli interrogativi sull’attualità della dichiarazione stessa. Oggi le nuove aree che necessitano di tutela sono quelle che vengono appena accennate nel testo, non essendo considerate di centrale importanza nel periodo in cui venne redatto (basti pensare alle questioni connesse ai fenomeni migratori, alle biotecnologie e all’ambiente).
Un ulteriore passo per l’internazionalizzazione dei diritti umani è rappresentato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), firmata a Roma nel 1950 ed entrata in vigore tre anni dopo: sebbene limitata a livello europeo, è attualmente il modello più avanzato in grado di garantire agli individui “il controllo giurisdizionale sul rispetto dei loro diritti”. Nonostante nel trascorrere dei secoli ricostruiti pagina dopo pagina, Godart abbia presentato sin dall’inizio la tortuosità di un cammino lungi dall’essere lineare, passando repentinamente da inaspettati successi ed innovazioni a sconvolgenti sconfitte e retrocessioni, il volume si chiude mettendo nuovamente in rilievo l’instabilità del raggiungimento della protezione dei diritti umani, affermando che «la lotta per la conquista dei diritti umani è segnata da vittorie e da sconfitte e il suo cammino non somiglia affatto al corso di un lungo fiume tranquillo» (p. 131).
Secondo Godart, «i diritti umani costituiscono una battaglia quotidiana dell’homo socialis contro il ritorno alla condizione animale» (p. 5), una continua tensione per evitare di cadere nella vera natura umana, quella animale appunto, imperniata di crudeltà. La conquista dei diritti umani, dunque, non è mai un traguardo definitivamente acquisito, ma un continuo sforzo, una perenne propensione nel tentativo di non piombare nuovamente nell'”arbitrio della forza bruta”. Alla domanda posta nelle ultime pagine del testo («Possiamo trarre qualche lezione dalle infinite insidie poste sulla strada di chi, nel corso dei millenni, ha cercato di far prevalere i diritti dell’uomo?» – p. 134), l’autore stesso risponde ammettendo che non esistono acquisizioni irreversibili e che è sempre necessario difendere il terreno conquistato dall’intolleranza e dall’ignoranza. Una riflessione che, nel contesto delle società occidentali, all’interno delle quali i diritti acquisiti vengono superficialmente considerati elementi ovvi ed immutabili, potrebbe assicurare la conservazione degli stessi, esortando a non distogliere lo sguardo dalla continua e necessaria tutela dei traguardi faticosamente raggiunti.