La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale

E. Pulcini (Bollati Boringhieri, Torino, 2009)

Questo volume, di cui è in preparazione l’edizione inglese, è una partitura fondata su una assidua  ed originale interlocuzione con la letteratura contemporanea, nazionale e internazionale. La struttura  è a tre sezioni, costruite su due coppie concettuali, individualismo illimitato – comunitarismo  endogamico, da un lato, vulnerabilità globale – cura del mondo, dall’altro.  

Tratto saliente, e interessante per chi voglia capire il tempo presente, è l’individuazione di ciò  che potremmo chiamare signa prognostica o potenzialità germinali, inscritte nella situazione  dell’età globale. Se da un lato la globalizzazione è descritta come la declinazione del tempo  presente, dall’altro queste belle pagine confermano la legittimità e la fondatezza di una lettura  eminentemente filosofica dei fenomeni globali, come precedenti lavori di Pulcini già avevano posto  in luce. L’autrice mostra qui una ancor più affinata sensibilità per le sfumature riscontrabili nei  mutamenti nelle relazioni intersoggettive e socio-istituzionali, invitando a cogliere la  globalizzazione quale plesso di dimensioni temporali non sincroniche e di condizioni  antropologiche contraddittorie, addirittura stridenti, e pur compresenti.  

Tale composto instabile risulta una realtà talmente carica di rimandi e implicazioni su ogni  aspetto della condizione umana da richiedere un impiego non occasionale di tutte le ottiche  disciplinari oggi disponibili; viene infatti suggerita la necessità di una immaginazione creativa (J.L.  Nancy) che prospetti nuove costellazioni di senso e nuove ipotesi di convivenza. Ciò equivale a  prediligere una immagine volumetrica e non planare dell’insieme dei fenomeni globali e degli  ambiti di intervento e di senso. In tale ottica, la condizione del tempo presente, contro ogni  residuale o nostalgica riproposizione di filosofie della storia, appare premonitrice di possibili  scenari futuri, già predeterminabili nelle caratteristiche. Per far fronte al compito, diagnostico e  prognostico insieme, il testo è diviso in tre parti. Le prime due scandagliano le dimensioni dello  stato patologico in cui versano oggi le relazioni umane e gli attori che le mettono in atto. Nella terza  parte vengono prefigurate le possibili vie di fuga.  

Da un lato, e in prima battuta, le patologie del legame sociale e dell’identità personale vengono  dipinte con i tratti della radicalizzazione, ma non anche della assoluta novità rispetto alla modernità;  infatti, lo sfaldamento delle ragioni del vivere assieme avviene oggi per via di atteggiamenti e  disposizioni socialmente condivise e capillarmente diffuse, aventi carattere acquisitivo e possessivo,  le cui origini sono coeve alla modernità; questi modi di essere hanno prodotto nell’attuale età globale un tipo di identità individuale egocentrica e narcisistica, parossisticamente protesa verso  l’appagamento di bisogni privati, e sempre più effimeri e ‘commerciali’.  

D’altro lato, come l’autrice mostra nella seconda parte del volume, le patologie delle passioni  individuali e collettive configurano, rispetto alla modernità, nuove e più inquietanti forme di  lacerazione e di distruzione delle risorse materiali e simboliche di cui l’umanità e il pianeta  dispongono. Nel primo caso, abbiamo l’apatia dell’Io verso la dimensione politica, nel secondo  caso, l’eccesso di pathos del Noi delle comunità etnicizzate, autoritarie e intolleranti verso il diverso  entro di sé.  

Infatti, il tempo odierno “appreso con il pensiero” risulta quale coagulo potenzialmente  deflagrante di passato e presente, e all’insegna di due fondamentali tassonomie, analizzate con acume critico alieno da semplificazioni: individualismo illimitato – comunitarismo endogamico, da  un lato, vulnerabilità globale – cura del mondo, dall’altro. Tali coppie strutturano le tre sezioni con  eccedenze concettuali e aperture prospettiche rispetto a tutte e tre. 

«Individualismo illimitato e comunitarismo endogamico appaiono come le polarità opposte e  speculari di una divaricazione che vede da un lato ciò che vorrei definire l’ossessione dell’Io,  dall’altro l’ossessione del Noi; una divaricazione che finisce per produrre quella che da Anders e da  Jonas è stata definita una “perdita del mondo”, intesa nel duplice senso di perdita del pianeta che  ospita la vita e di perdita del mondo comune» (p. 14). 

«Se Anders pone l’accento sulla vulnerabilità del soggetto e la (nostalgia del limite) e Jonas sulla  vulnerabilità dell’altro (e sulla potenza del suo appello), Lévinas ci consente di aggiungere il  tassello mancante, proponendo quella che definisco vulnerabilità del soggetto all’altro» (ivi).  

Il potenziamento e la facilitazione della fioritura di tali germi di mutamento, realizzati attraverso  dispositivi teorici e pratici, consentirebbero una inversione di rotta. Di tali nuclei germinali,  collocati su un piano “genericamente normativo”, l’autrice parla nella parte conclusiva, in cui  confluisce la diagnosi, effettuata precedentemente, delle patologie del self e della sfera emozionale  intersoggettivamente considerata. 

In definitiva, la categoria di cura del mondo è l’esito del processo di decantazione e di  superamento delle precedenti tassonomie. La cura del mondo, derivante dall’etica della cura,  presuppone una soggettività che tolleri di risiedere nella negazione, riconoscendosi come un  qualcosa di incompleto e vulnerabile, ma in modo tale da compiere un salto mortale tramite quelle  passioni che, con una certa consonanza con Hobbes, si dispongano a farsi orientare dalla  ragionevolezza. La valorizzazione in negativo della vulnerabilità e della contaminazione trasformerebbero l’individuo dei nostri giorni in un soggetto compiutamente e consapevolmente  relazionale, tanto responsabile quanto solidale, capace di prendersi cura del mondo, come  dimensione dell’inter-esse comune.  

Alcune riflessioni di commento. Indubbia l’importanza strategica della nozione di vulnerabilità;  questa allude ad un soggetto la cui vita non finisce con se stesso, ma si amplia e si approfondisce in  una serie di rapporti intersoggettivi da proteggere, da valorizzare, da far fiorire. Si può inoltre  apprezzare come la nozione di vita vulnerabile sia meno thick di una visione eticamente connotata  della vita, ma allo stesso tempo anche meno thin di una comune teoria liberale della giustizia (A.  Carnevale, Vita buona, Vita vulnerabile, in corso di pubblicazione, 2011). 

Ancor più, all’interno di ciascuna delle due coppie concettuali, individualismo illimitato/  comunitarismo endogamico e vulnerabilità globale/cura del mondo, Pulcini non solo individua la  molteplicità dei significati ma sostiene la legittimità di alcuni a scapito di altri, e grazie  all’intervento latitudinario ma sempre rigoroso delle nozioni di identità e di riconoscimento. Queste  nozioni le consentono di criticare con successo tanto il narcisismo cannibalico dell’Io  autoreferenziale e apatico, quanto la violenza delle necro-comunità intolleranti, violente e omicide  verso il diverso entro di sé, ed operanti con modalità emotive ipertrofiche rispetto alla creazione di  miti auto-fondativi a carattere primitivista e autarchico. 

L’andamento a spirale, che riprende e rilancia le acquisizioni degli interlocutori contemporanei  superandone le eventuali unilateralità (Castells, Touraine, Bauman, Appadurai, Caillé, Nancy,  Taylor, fra gli altri), riflette e pratica l’ideale di “un’arte della separazione” rispettosa delle  differenze e delle distinzioni, mai così preziosa come in questo “mondo in frammenti”,  rammemorato da Pulcini attraverso le frequenti citazioni da Clifford Geertz. Si avverte inoltre una  specifica attenzione al principio meta-teorico, tipico della Philosophy of Social Sciences, della  chiarificazione dei concetti di volta in volta in uso, a seconda dei contesti e degli slittamenti  semantici rispettivi. Un esempio fondamentale, fra tutti: il significato del “bisogno di comunità”.  

Valore assiologico positivo viene giustamente attribuito nel volume a una esigenza  fondamentale, quella espressa dai singoli di partecipare a gruppi di sodali per ottenerne  gratificazione emotiva e significato esistenziale; peraltro molto importante è condividere con  Pulcini l’insistenza sul carattere e la funzione squisitamente moderni di tale bisogno positivo. Non  si tratta infatti qui di una riedizione primordialista o tradizionalista delle comunità arcaiche o  antiche: al contrario, è proprio a partire da Rousseau, al più tardi dal romanticismo tedesco, che la  questione della comunità, o, meglio ancora, della dimensione ‘comunitaria’ del vivere associato è  divenuto un orizzonte ineludibile della riflessione teorica sulla politica. Ciò è condiviso da parte di  chi scrive, anche se va detto che la codificazione del binomio comunità – società dal punto di vista delle discipline sociali e politiche ha luogo nel tardo ottocento, grazie all’omonima opera di  Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft; per dare un quadro completo, va tenuta altresì presente la  massiccia e perdurante influenza esercitata da Hegel e da Marx su alcuni filoni entro tali scienze,  rispetto alla ricezione ed appropriazione in senso dialettico di tale tassonomia.  

Quanto precede ci invita a considerare come la “nostalgia tipicamente moderna” per la comunità  nasca non da ultimo perché la dimensione del vivere fra sodali e affini, dal crollo dell’Antico  Regime in poi, inizia a profilarsi distintamente in contrapposizione rispetto alla dimensione  ‘sociale’. Secondo la riflessione ancora attualissima delle human sciences, nella comunità, in cui il  legame è di tipo gratuito e solidaristico, risiederebbe l’aspetto originario, autentico, spontaneo,  immediato ed affettivo del legame collettivo; i rapporti interpersonali di una piccola città ne sono  l’esempio tipico. Nella società, invece, su cui è modellata la forma politica liberale,  predominerebbero i legami astratti, contrattuali, formali, utilitaristici ed asettici della coesistenza. Il  nesso diretto con la questione del multiculturalismo sta nel fatto che i communitarians contemporanei sono stati fautori di un recupero del valore e dell’effettività pubblica delle comunità  – definibili come aggregati culturali, in quanto comprensivi degli aspetti linguistici, valoriali,  religiosi – dei cittadini/e di una società liberale e democratica. 

Ciò detto, e proprio per giungere a una più nitida definizione del volto di Giano della comunità,  dovremmo fare un passo indietro, e ricorrere alle modalità di costituzione e di analisi delle  aggregazioni comunitarie, parlando esplicitamente di identità quale criterio definitorio  discriminante

Come contributo alla lettura, va detto con chiarezza che i due modelli esplicativi del “ritorno  della comunità” – endogamica e malsana da un lato, solidaristica e sana, dall’altro – rinviano a  significati profondamente diversi e a modalità altrettanto divergenti di costruzione dell’identità  sovraindividuale. Il primo è detto ascrittivo, ed i sostenitori ne dispongono nel modo seguente: vien  usato per indicare, prescrivere, o addirittura imporre dall’esterno, ai veri o presunti membri  dell’identità collettiva, caratteri e qualità comuni, continuità storica, stabilità e coerenza di  atteggiamenti e costumi aventi valenza pratico-morale, ed in modo da legarli tutti/e, e una volta per  tutte, in un unico destino. Si noti che i detrattori del modello sono anche i medesimi scienziati  sociali che lo hanno coniato, eleggendolo anche ed erroneamente ad unica modalità adeguata a concepire l’identità sovraindividuale: Nierhammer, Kreckel, Remotti.  

Il secondo modello, detto riflessivo-interpretativo, viene usato per descrivere le prassi e le auto – rappresentazioni, nonché le visioni del mondo, definite e comunicate dai soggetti concreti che si  attribuiscono una certa identità, tanto in senso sincronico quanto diacronico. L’osservatore si  dispone a considerare gli individui come attori e interlocutori nelle loro relazioni reciproche, e non da ultimo rispetto a sfide e crisi laceranti effettivamente verificatesi nel tempo. Ian Assman è uno  dei più insigni propagatori di tale modello, nell’ambito delle Kulturwissenschaften (J. Straub,  Personal and Collective Identity. A conceptual Analysis, in H. Friese (2002, Ed.), Identities. Time,  Differences and Boundaries, Berghahn Book, London-Oxford, pp. 56-76, 69). 

Fare la precedente distinzione fra modelli ha almeno due conseguenze di valore euristico non  indifferente. In primo luogo, risulta chiaro che si tratta in entrambi i casi di tipi ideali di cui gli  osservatori e gli attori si servono per interpretare e dare stabilità alle catene di eventi e fenomeni. In secondo luogo, l’assunzione dichiarata del modello riflessivo-interpretativo di costituzione  delle identità fa emergere le criticità delle appartenenze dal loro interno, ossia dà visibilità e voce ai  soggetti subalterni. Ciò facilita, ogniqualvolta indaghiamo i reali contesti comunitari senza  atteggiamenti pregiudizievoli, l’emergere della ragione del legame che più di altre sta a cuore ai  sodali, in specifiche condizioni, e per la quale essi/e siano disposti/e a subire perdite in termini di  altre lealtà a valori intersoggettivi altrettanto rilevanti. Emerge anche per contrasto la condizione  liminale del cosiddetto livello di guardia, oltre cui l’appartenenza si lacera. Inoltre, avremmo il  vantaggio di ottenere un quadro più realistico e quindi non edulcorato o velleitario delle condizioni  delle società in cui viviamo, da descriversi non come società di eguali, come vorrebbe la narrazione  di un certo liberalismo falsamente neutrale, ma piuttosto come società di dissimili. La formulazione  esprime la circostanza che la radicalità latente delle opposizioni risulti interna sia ai singoli sia ai  gruppi, anche a quelli dominanti. La non belligeranza in condizioni di latente conflitto è la regola,  non l’eccezione. Tuttavia, la regola deve essere un habitus riflessivamente conosciuto, voluto,  esercitato, come pure lo deve essere la sensibilità diagnostica per quale sia il livello di guardia da  non superare, per garantire la sopravvivenza del legame; altrimenti, più facilmente del previsto  entra in gioco una posta più alta, per cui l’equilibrio fra i dissimili si lacera, e da ultimo si scatena il  conflitto violento, non più mediato da pratiche di compensazione e negoziazione. In questi  frangenti, la certezza della propria vulnerabilità non sarebbe antidoto sufficiente, né la cura del  mondo avrebbe spazio né luce per fiorire. 

09/10/2011
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