L’idea di incompletezza. Quattro lezioni

Salvatore Veca (Feltrinelli, Milano, 2011)

Esploratore di connessioni e coltivatore di memorie: si definisce così Salvatore Veca nella Premessa L’idea di incompletezza. È un’opera importante, perché costituisce l’esito di una riflessione decennale del  filosofo, sebbene «i commenti saranno, com’è facile prevedere, solo ironicamente conclusivi» (p. 121). Se in  Dell’incertezza la questione centrale sulla quale Veca si era interrogato si riferiva a quali circostanze  chiedono teoria negli ambiti di ciò che vi è, ciò che vale e su chi noi siamo, lo studio sull’incompletezza, ora,  investe l’esame della natura delle teorie con cui si risponde all’incertezza. Si tratta di un’analisi complessa,  poiché mette in evidenza l’esistenza di molteplici concezioni dell’incompletezza le quali vengono esaminate  in ambiti distinti. Le quattro lezioni rendono conto della distinzione di questi ambiti: il problema del valore,  della giustificazione, dell’interpretazione e della dimostrazione. Il problema risiede nel saggiare le  connessioni e i limiti fra le diverse teorie dell’incompletezza: grazie al momento correlativo sono possibili la  generalità e l’astrazione proprie del ragionamento filosofico; attraverso la riflessione sui limiti, invece, non si  affida l’ultima parola a una teoria in particolare, altrimenti diventerebbe completa e non aperta alla ricerca.  Non l’ultima parola ma la penultima, scriveva Veca qualche anno fa così: «Il destino della penultima parola  è, per dirla in modo solenne, il semplice promemoria dell’incompletezza e dell’apertura dei frammenti del  discorso filosofico» (S. Veca, La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Laterza, Roma-Bari  2001, p. 143). D’altra parte, l’incompiutezza è insita nell’essere umano. Così, a proposito di connessioni,  Pierre Sansot scrive che «l’uomo è, per principio, incompiuto: l’inizio della sua avventura, come la sua fine,  si sottrae ai suoi sforzi» (P. Sansot, Quel che resta. L’importanza della memoria, trad. di L. Cortese, Tropea,  Milano 2008, p. 18).  

Il concetto di incompletezza, di fronte al problema del valore, costituisce il luogo di ciò che vale. Il  pluralismo – ma non il relativismo – dei valori implica riconoscere l’esistenza di una pluralità di valori  secondo gli svariati ambiti nei quali si attua la scelta di un valore rispetto a un altro. Affinché una cosa sia  definita valore occorre la comparazione: la definizione di un valore nasce dal confronto con altre alternative.  La comparazione, a sua volta, è debitrice della memoria: siamo «eredi di descrizioni e prescrizioni che  abitano un mondo che non abbiamo fatto, ma abbiamo essenzialmente ricevuto» (Veca, L’idea di  incompletezza, cit., p. 17). In questo senso, Veca sottolinea di essere debitore nei confronti della lezione  berliniana: la filosofia deve prendere sul serio la storia giacché è il riconoscimento del carattere situato e  contingente delle concezioni etiche e politiche attuali. Non solo: l’elogio dell’imperfezione dice un “no”  risoluto al costruttivismo politico del Novecento e alla conseguente politica assoluta. Ebbene sì: bisogna  scegliere in un mondo di incessante deformazione. L’idea, nel luogo dei valori, è quella che sostiene  l’incompletezza in qualsiasi dominio dei valori. Per ogni dominio, infatti, occorre definire i confini perché  solo così è possibile predicarne l’incompletezza. Bisogna, inoltre, trovare la connessione per convivere in  questo mondo così diverso e incerto. Come? La comune umanità, dice Veca rievocando il concetto di  Bernard Williams, potrebbe essere una via ragionevole. Viviamo, infatti, nella sarabanda delle voci  dell’umanità, ma è la reciproca diversità ciò che appunto ci accomuna. Tuttavia, come è possibile giustificare  l’idea di incompletezza? L’analisi di Veca sul problema della giustificazione è condotta a un livello  metamorale ove si rintraccia prevalentemente l’immagine del filosofo come coltivatore di memorie: John  Rawls, e soprattutto qui Bernard Williams, sono una parte di esse. Anzitutto, ci poniamo il problema della  giustificazione perché i valori contano, altrimenti non avrebbe alcun senso porsi la questione. Non ha altresì  senso parlare di giustificazione in assenza di conflitto tra valori, altrimenti non vi sarebbe alcun motivo di  giustificare un valore rispetto a un altro. Tra le teorie dell’incompletezza Veca annovera la genealogia ideale nella quale l’interrogativo della giustificazione si risolve grazie alla costruzione delle circostanze in cui i  valori per noi contano. Tuttavia, una volta eliminate le circostanze, si eliminano i valori. Una seconda  concezione dell’incompletezza è rappresentata dalla genealogia storica necessaria. In quest’ambito,  giustificare vuol dire riconciliare: in realtà i valori si giustificano da sé, perché è la storia che li ha resi tali. 

Se è così, non hanno bisogno di giustificazione. Il modello teorico della genealogia storica contingente,  invece, considera i valori entro una determinata storia interpretata. La prospettiva di Williams, ripresa da  Veca, si riferisce a un modello giustificativo che vale per chiunque, e non solo per il “noi”: è il carattere  situato e contingente del modello in questione che lo permette. È proprio questo carattere che consente il  nesso tra giustificazione e incompletezza. L’incompletezza essenziale delle giustificazioni apre, dunque,  all’inaspettato. Ciò non è per nulla banale, giacché rende conto del carattere instabile del nostro futuro, di cui  non possiamo prevedere e modellare gli esiti di un modello giustificativo di valori se non tentando di  proiettare quelli attuali. È umano, si sa. Tuttavia, l’apertura all’inatteso lascia aperta la “porta” delle  possibilità che ancora non conosciamo. E cosa fare con quelle che conosciamo?  

Eccoci arrivati al problema dell’interpretazione, ove emerge prevalentemente l’immagine  dell’esploratore di connessioni. Veca, infatti, prende in considerazione due differenti tesi sull’interpretazione.  La prima riguarda l’assunto della corrispondenza tra fatti e interpretazioni. A ben vedere, la tesi dice che non  ci sono fatti, ma solo interpretazioni. L’idea di natura nietzscheana ha la pretesa di completezza, poiché non  ammette alternative. La seconda tesi, invece, è una obiezione forte allo scetticismo e si avvale dell’idea di  incompletezza. Veca opera una connessione fra le due tesi, ovverosia «se non ci convince la pretesa  nietzscheana con la sua voglia di completezza, allora possiamo confutarla con una obiezione e con una  replica non diretta all’argomento scettico, considerato nella sua struttura generale» (ivi, p. 86). Veca invita a  pensare al rapporto tra scienza e filosofia al cui interno non è per niente detto che per ogni fatto vi sia una  interpretazione. Anzi, è il contrario proprio perché il mutamento si vede bene in ambiti come la fisica  teorica, la biologia molecolare e, si potrebbe aggiungere, la bioinformatica. In questi campi si potrebbero  mettere in evidenza entità strane e sospette che sfuggono alle interpretazioni e che sono indipendenti da esse.  Si potrebbe, certo. Tuttavia, Veca pensa a un’altra alternativa: introduce, cioè, la distinzione tra oggetti saturi e insaturi rispetto alle interpretazioni. Un oggetto è saturo quando resta valida nel tempo una certa  interpretazione di quell’oggetto. L’interpretazione, quindi, funge da spiegazione. Un oggetto, invece, è  insaturo quando vi sono interpretazioni diverse ma che convivono insieme, di quell’oggetto. Ciò vuol dire  che l’oggetto insaturo è, per definizione, esposto al mutamento. Il campo dell’interprete è l’oggetto insaturo  che è variamente connesso con oggetti saturi, i quali hanno la funzione di fissare i limiti dell’interpretazione  stessa. La connessione qui attuata da Veca è di tipo olistico. Le due tipologie di oggetti, infatti, sono  connesse poiché tali oggetti sono generati da una rete di credenze, e nessuna credenza può darsi  isolatamente. Se è così, ad avviso di Veca, gli oggetti saturi possono diventare insaturi e nulla lo vieta: questa  è la concezione più pertinente dell’incompletezza dell’interpretazione che si ottiene muovendo dal  presupposto che «la classificazione è un problema e non un dato per l’osservatore» (ivi, p. 102). Lo è quando  ci poniamo il problema dell’interpretazione sul mondo; lo è quando – direbbe forse Achille Varzi – ci  poniamo il problema di analizzare le relazioni tra le entità del mondo al fine di redigere un “catalogo  universale” dell’esistente ove la costruzione di una teoria completa diventa ambigua (A.C. Varzi, Parole,  oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 20094, p. 18).  

Come la mettiamo, poi, con i sistemi formali della matematica? La completezza della matematica,  così tanto difesa da Gottlob Frege, porterebbe a bandire le intuizioni e a sostituirle con dimostrazioni non  contraddittorie. Tuttavia, Veca si richiama ai teoremi di Kurt Gödel sull’incompletezza della dimostrazione  nei sistemi formali che hanno come sfondo il presupposto dell’inesauribilità della matematica. Più  precisamente, la riflessione sui teoremi di Gödel permette a Veca di formulare quattro idee fondamentali: la  completezza di un sistema si misura esclusivamente in rapporto a un altro dominio; la giustificazione  necessita dell’estensione dei confini del sistema; ciò suggerisce di vedere alternative diverse rispetto al sistema di riferimento e che non potrebbero essere viste all’interno del sistema; l’incompletezza, infine, tiene  conto del mutamento e delle possibilità che sono caratteristiche proprie dell’indagine filosofica. In questo  modo, le due immagini del coltivatore delle memorie e dell’esploratore delle connessioni designano due  pratiche intellettuali con le quali, da un lato, si mette a fuoco il repertorio delle nostre diversità e affinità alla  luce della tradizione filosofica, dall’altro, si osa esplorare nuovi mondi. «Sarà così osservato il precetto della  fedeltà a se stessi e dell’attenzione verso altri» (S. Veca, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche,  Feltrinelli, Milano 1997, p. 375).  

19/06/2011
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