L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta
A. Badiou (DeriveApprodi, Roma, 2013)
Avvicinarsi a un’opera di Alain Badiou, nel tentativo di non lasciarsi intrappolare dal “già detto “ e dal “già scritto” sul suo conto, significa in prima istanza tener – e per quanto possibile, render – conto del retroterra culturale, filosofico e politico del pensiero di una delle più notevoli voci del panorama filosofico francese contemporaneo. Un retroterra, quello di Alain Badiou, che, se da un lato sembra affondare le proprie radici in un’unica, imponente e pervasiva condicio sine qua non (quella, per intenderci, offertagli dal maoismo filosofico-politico), dall’altro pare subire gli strali e gli inevitabili sommovimenti a cui la contingenza (storica e interpersonale), operando come un austero ma benigno censore, sottopone l’andatura e i “balzi” della sua riflessione. Ed è, per l’appunto, la contingenza, che «la fa da padrone» nel volume L’avventura della filosofia francese. Un volume che, muovendosi attorno sia alla contingenza dell’incontro sia a quella delle circostanze, si presenta paradossalmente come un fascinoso e coinvolgente “puzzle”, a fronte del quale sarà proprio il concatenarsi dei suoi vari tasselli a fare degli incontri e delle circostanze l’occasione per gettare un sguardo, al contempo ampio e dettagliato, sui momenti più significativi della filosofia francese dell’ultimo secolo. D’altra parte, «questo libro – come afferma Badiou nelle righe che fanno da inicipit al volume in questione – si compone di una serie di testi il cui solo punto in comune (corsivo mio) consiste nel fatto che tutti riguardano filosofi di lingua francese che possiamo dire contemporanei». Per contemporanei – è bene sottolinearlo – è da intendere «che la loro opera è stata pubblicata essenzialmente in un periodo che va dalla seconda metà del XX secolo ai pochi anni di quello appena cominciato». «Non si tratta – pertanto – di una selezione razionale, di una rete prestabilita di preferenze, di un’antologia. No, – prosegue Badiou – è tutto al più legato a un concorso di circostanze», tant’è vero che «la contingenza la fa ancor più da padrona ove si consideri che sono esclusi da questa raccolta una serie di testi aventi statuto analogo (cioè afferenti alla filosofia francese contemporanea), già peraltro pubblicati nel volume Piccolo Pantheon portatile. Ed è per questo che l’autore chiede al lettore di «considerare il volume qui presente e il Piccolo Pantheon come un unico insieme» (p. 5). Ma, al di là del pur determinante e essenziale ruolo giocato dalla contingenza nella composizione di questo mirabile “puzzle”, occorre tuttavia dare il peso che si merita a quella mano che, nel muovere e incastrare ogni singolo tassello, è mossa da un’intentio filosofica ben precisa, mirata a persuadere il lettore che, alla fin dei conti, se «prendiamo come esempi due momenti particolarmente forti e identificabili» come quello «della filosofia greca classica, tra Parmenide e Aristotele, dal V al III secolo a. C.» («momento storico fondatore, eccezionale» anche se «alquanto breve dal punto di vista temporale») e come quello presentatosi a partire dall’irrompere dell’idealismo tedesco («ancora – scrive Badiou – un momento filosofico eccezionale») che vede sulle scene, «tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo», pensatori del calibro di Kant, Hegel, Fichte e Schelling, potremmo senza troppi indugi – e, soprattutto, a buon diritto – individuare, in quella che il filosofo francese battezza «provvisoriamente “filosofia francese contemporanea”», «quel momento filosofico francese il quale, essenzialmente situato nella seconda metà del XX secolo, può paragonarsi, per ampiezza di respiro e novità, tanto al momento greco classico quanto al momento dell’idealismo tedesco» (p. 6). Ma questo momento – ed è, senza ombra di dubbio, l’interrogativo di maggiore spessore e profondità – da quali dinamiche, “eventi di pensiero”, pesi e contrappesi è intimamente caratterizzato? Secondo Badiou, fra le fila di questo – potremmo dire – ulteriore momento filosofico eccezionale, si può rintracciare un cogente e fertile baricentro, cioè «il dibattito a proposito di vita e concetto». E come tende a profilarsi – se così possiamo dire – l’incontro/scontro tra i “sostenitori” della vita e quelli del “concetto”? In altri termini, lo si deve ritenere un cozzare di orientamenti privi di un qualsivoglia punto di contatto, o è possibile rintracciare una sorta di terreno comune?
Seguendo il filosofo francese possiamo dire che una «divisione» di “schieramenti” c’è, eccome. Sarebbe pretestuoso, infruttuoso, nonché maldestro negarla. Anzi, non è poi così difficile tratteggiarne i contorni e i confini, delineando al contempo i rispettivi campi d’indagine. Ecco che allora da una parte abbiamo «il vitalismo esistenziale (corsivo mio), che ha la propria origine in Bergson, e passa indubbiamente per Sartre, Foucault e Deleuze; e dall’altra quello che lo stesso Badiou definisce «un concettualismo delle istituzioni (corsivo mio), che permette una loro proiezione formale, che si ritrova in Brunschvicg, e che transita per Althusser e Lacan». Le forze in campo non sembrano lasciare poi molti dubbi. Se così stanno le cose, infatti, non solo i due “schieramenti” sono destinati a un conflitto senza esclusione di colpi, ma anche a far sì che quest’ultimo incorpori la tendenza a cronicizzarsi. Eppure, l’autore de L’Être e l’événément (1988) è di tutt’altro parere. Difatti, se è pur vero che per lui la «divisione» è innegabile, ciò non toglie che sia – in un certo qual modo – misurabile una «diagonale», che interseca su un unico punto sia il vitalismo esistenziale che il concettualismo delle istituzioni. E qual è quest’unico punto? Badiou non ha dubbi nell’identificarlo con la «questione del soggetto». «Il soggetto umano – scrive – è al contempo un corpo vivente e un creatore di concetti»; ed è per questo motivo «l’elemento comune ai due orientamenti: esso è oggetto d’interrogazione rispetto alla propria vita, alla propria vita soggettiva, animale, organica; ma è anche oggetto d’interrogazione rispetto alla propria capacità di pensiero, di creazione, di astrazione» (p. 8). Insomma, il soggetto «non è altro, in fin dei conti, che ciò la cui esistenza ne sostiene il concetto» (p. 14). Detto questo, è evidente che proprio «il dibattito a proposito di vita e concetto», oltre che presiedere «conflittualmente al divenire della filosofia francese», non può far altro che condurre alla «questione del soggetto, questione che pervade tutto il periodo che ci interessa» (p. 8). Ed è appunto ruotando intorno a quest’ultima che Badiou cerca di testimoniare i punti di forza, i capisaldi, le debolezze e i momenti di frizione delle posizioni filosofiche più significative della «filosofia francese contemporanea». Vede nella filosofia di Gilles Deleuze non tanto «un’inferenza, quanto piuttosto una narrazione» (p. 22), che trova nell’«evenemenzialità universale del «tutto accade» («che è anche, per Deleuze-Leibniz, l’universale continuità») il suo punto focale, a patto che con ciò s’intenda che «niente è interrotto»; e che «dunque tutto ha un concetto, quello della sua inclusione nella continuità, come inflessione-taglio, o piega» (p. 29). Tuttavia, «Deleuze-Leibniz» non si accontenta di inscrivere «ciò che accade» nell’in-determinatezza del «vuoto», ma lo vuole leggere invece «nella carne del pieno, nell’intimità della piega» (p. 31), dove per quest’ultima si deve intendere «ciò di cui si tratta», essendo un concetto «iscritto come legge, sia del luogo, sia di ciò che ha luogo» (p. 19). «L’ultima parola chiave della sua proposta teorica è allora: interiorità». È pertanto chiaro – afferma Badiou – che, con il concetto di «Piega», Deleuze sta in realtà cercando una «figura dell’interiorità (o del soggetto) che non sia – tuttavia – né la riflessione (ovvero il Cogito), né il rapporto-a, l’intento (o l’intenzionalità), né il puro punto vuoto (o eclissi). Si delinea piuttosto come «un’interiorità assoluta» e al contempo «rigirata»; un’interiorità che riesca a instaurare con «Tutto» un «legame primario», un vero e proprio vinculum leibniziano, attraverso il quale l’interiorità assoluta possa piegarsi nell’«esterno totale». (p. 31). Ma cos’è che Badiou critica dell’impianto filosofico di Deleuze? Il fatto che quest’ultimo, mettendo al centro del «problema della conoscenza» la «coppia attività/passività (o piega/dispiego), non fa altro che «salvaguardare, se non l’oggetto, quanto meno la linea dell’oggettività» (p. 38). In altre parole, «troppa sostanza, ancora, nel soggetto di Leibniz-Deleuze, troppa piega concava. Non c’è che il punto, e il nome» (p. 39).
Da Deleuze Badiou passa, con un notevole “balzo, a Alexandre Kojève, il quale è “accusato” di aver trasmesso, con il suo «famoso seminario» degli anni Trenta, il «virus hegeliano» (p. 41) nella Francia del tempo. «L’Hegel di Kojève – tuttavia – è esclusivamente quello della Fenomenologia dello Spirito» e per giunta appiattito e schiacciato meramente sulla dialettica Servo-Padrone. Per questo motivo, «Hegel in Francia fu dapprima e soprattutto l’idealismo tragico contro l’idealismo scientista». «Su questo terreno – prosegue –, l’incontro con il marxismo era al contempo inevitabile e impossibile» (p. 43), servendo, «nella prima metà di questo secolo», come «mediazione idealistica per adattare un certo Marx ai bisogni della nostra intellighenzia, per poi ritirarsi «amaramente dietro le quinte» quando «il Marx apolitico degli universitari occupava l’intero campo» (p. 45). Ecco perché occorre far risuonare l’esigenza di restituire «la parola all’Hegel imbavagliato, all’Hegel essenziale». In sintesi, all’Hegel della Logica.
Di Georges Canguilhem il filosofo francese ci regala invece un ritratto prezioso e curioso. Un ritratto che sembra rendere inscindibile l’uomo («brusco» e «spesso sgradevole», nei confronti del quale tuttavia Badiou ha serbato «una viva ammirazione»), la «figura di medico resistente della brigata del Mont Mouchet», dalle sue «costruzioni», «attraverso le quali costruiva la propria fedeltà a Bergson, se non a Nietzsche» (p. 47). Costruzioni complesse, articolate e che tendono a sfuggire ad una presa concettuale ferrea e granitica. A dimostrazione di ciò basti pensare che, se ci limitassimo al livello della «semplice constatazione», potremmo – senza particolari indugi – affermare che, «nell’opera di Georges Canguilhem», «non c’è nessuna dottrina del soggetto (corsivo mio). Eppure, a guardar bene e con maggior attenzione, scrive Badiou: il «“Soggetto” […] è un operatore che viene chiamato in causa – dallo stesso Canguilhem – in punti cruciali dell’impresa di pensiero a cui stiamo rendendo omaggio» (p. 48). Una presenza-assenza – quella del Soggetto con la “S” maiuscola – che non fa altro che attestare, con una limpidezza quasi disarmante, la centralità e la cogenza di tale «questione».
Anche Ricoeur non può che avere a che fare con il tema del soggetto. Il soggetto, però, di cui ci parla il filosofo francese – secondo Badiou – gode d’una certa e ineludibile particolarità o – per meglio dire – d’una vera e propria «militanza», inscritta a caratteri cubitali nel suo stesso articolarsi in quanto tale. Senza tirarla troppo per le lunghe, è il «soggetto cristiano», frutto di una ben definita «visione militante», che trova le sue radici filosofiche in quella che Dominique Janicaud definisce, «con una certa severità», «la svolta teologica della fenomenologia» (p. 58). Un soggetto che Ricoeur ha cura di tener strategicamente ben nascosto, quasi occultato, per farlo apparire nelle sue vesti autentiche «il più tardi possibile». «Un po’ come – scrive il nostro autore –, se posso esprimermi in questi termini, Dio che ha comunque atteso a lungo, rispetto alla storia degli uomini e dei loro peccati, prima di organizzare la venuta redentrice del Figlio» (p. 61). E allora quale sarà il “compito” che Badiou stesso si assume nell’andare a leggere il testo La Mémoire, l’histoire, l’oubli? Com’è facile intuire, «mostrare dove e come entri in scena, senza che mai il suo nome sia pronunciato, quello che chiameremo il soggetto cristiano» (p. 60).
Di tutt’altro genere gli incontri e le circostanze che legano a doppio filo Alain Badiou e uno dei filosofi più “dirompenti” del Novecento. Stiamo parlando di Jean Paul Sartre. Difatti, quest’ultimo è stato colui grazie al quale, nel 1954, la filosofia si è – in un certo qual modo – «rivelata a Badiou (corsivo mio)» «in una sorta di convocazione», a cui segue tuttavia, alla fine degli anni Cinquanta, un non trascurabile allontanamento, una drastica e decisa «revocazione». Era arrivata la «stagione dello strutturalismo» e con essa la domanda «se la filosofia, rispetto alle nascenti scienze umane, non fosse stata una pura e semplice illusione». Ecco che allora Badiou tende ad allontanarsi «sistematicamente» da Sartre, per ritrovarlo e non lasciarlo più – mostrandogli la sua piena «fedeltà» – nell’integrare il «tema del soggetto» e quello della «matematizzazione dell’essere», nel «conciliare la forza delle scienze sociali a quella della poesia» e nel «liberare una politica comunista dalla sua carcassa staliniana» (p. 72). Da quel momento Sartre diviene, agli occhi di Badiou, uno di quei rari «esploratori» in grado di inoltrarsi fin «nell’oscurità di una verità», intesa come l’antro buio che l’uomo, essendo «quel che fa giustizia dell’uomo», riesce a raggiungere solo «strisciando» e solo dopo essersi separato dal «proprio cadavere» (p. 81).
Non molto diverso si presenta l’incontro/scontro con Louis Althusser. «Senza dubbio – scrive Badiou – colui, tra i contemporanei, con il quale ho avuto i rapporti più complessi, e anche più violenti». A dividerli il Maggio ’68 e il maoismo. A ricongiungerli, se così possiamo dire, il «debito» (in primo luogo teorico e, se vogliamo, teoretico) che Badiou riconosce di aver contratto nei suoi confronti (p.82). Un debito che, tuttavia, non “acceca” lo sguardo di Badiou ma che, anzi, lo spinge a vagliare scrupolosamente – da buon discepolo – la riflessione del suo maestro; e che lo porta a collocare l’opera di quest’ultimo in una «situazione di rottura», pur non stentando a riconoscerla ancora come un’«opera interpellante». D’altra parte, l’opera di Althusser è, per l’autore de L’Être e l’événément, per molti aspetti «ancora governata dal risentimento teorico, il che talora la rende cieca a quel che ancora essa deve alla tradizione filosofica, se non all’ideologia». In ultima istanza, avrebbe dovuto «disfarsi», «uccidendola», «della grande tirannia teorica entro la quale abbiamo imparato a esprimerci»: «la tirannia hegeliana» (p. 104).
Non è poi così infondato, né tantomeno “forzato”, affermare che Badiou riconosce in Jean-Francois Lyotard, per così dire, un altro suo, legittimo, “creditore”, nella misura in cui fu proprio l’autore de Le Différend a tentare di strapparlo, «nella misura del possibile», al suo «isolamento» e alla «totale pubblica indifferenza» che affliggeva la sua opera, invitandolo nel 1982 al seminario «Le retrait du politique», organizzato all’Ècole Normale Supérieure. Da allora Badiou non può che riconoscere nei suoi confronti una «fedele riconoscenza» (p. 106), arrivando a definirlo persino un «guerriero astuto» che, nel «far sì che il genere speculativo e la politica narrativa si battano tra di loro», mostra «come questi due grandi nemici finiscano – alla fine – per annullarsi l’uno con l’altro». Di qui, la domanda cruciale: «Di quale risultato possibile Auschwitz è infatti il segno?» Del resto, «il silenzio in cui si frasa il nazismo deriva dal fatto che, se è vero che quest’ultimo è stato abbattuto, come un cane, non è stato però refutato, e non lo sarà mai, dunque non sarà mai superato, non produrrà mai un risultato». Pertanto, «ciò che permette di concatenare», «rispetto ai massacri nazisti», non è né una «frase», né un «concetto» ma – ed è questo il punto nodale – un «sentimento», con il quale ci si riconosce in grado di «annunciare» una «frase infrasabile». Ed è per questo, e non per altri motivi, che il «sentimento» si rivela essere «procacciatore di giustizia» (p. 113), nella convinzione che è la stessa «ontologia» a ordinare al filosofo di «testimoniare dal punto di vista del sentimento, nell’accettazione del non-sapere dell’essere del “c’è”» (p. 114).
In Françoise Proust Badiou, invece, vede l’attestazione di un encomiabile «pensiero della resistenza», alimentato dalla «costante meditazione di Kant», con il quale condivide la convinzione che la «chiave della storia» non stia «tanto nella continuità delle strutture quanto nell’intervallo evenemenziale delle discontinuità» (p. 120). Ciò non toglie che riconosca nell’autrice francese un «pathos singolare» che la induce a concedere «al tempo stesso troppo e troppo poco». «Troppo, quando suppone la “preparazione trascendentale dell’evento in un supposto soggetto passivo»; «troppo poco, quando riduce l’evento a un’insorgenza finita» (p. 129). E Badiou, a costo di apparire e di ritenersi «ingiusto», intravede in questa “duplice concessione” il rischio di non cogliere le dinamiche che sembrano coinvolgere l’«evento», il quale, nel momento stesso in cui «”finisce” un tempo», «ne fonda anche un altro» (p. 130).
E che dire di un filosofo come Jean-Luc Nancy, di cui «nessuno potrebbe ragionevolmente dirne o pensarne male», nemmeno fra le fila dell’«acrimoniosa e selvaggia corporazione dei filosofi?» Ecco perché Badiou ritiene che Nancy rappresenti «una duplice eccezione. Prima di tutto perché equanime e sereno con chiunque. E poi perché amato da tutti» (p. 131). Al filosofo francese non rimane altro che tentare di dimostrarsi «malevolo» riguardo quest’ammirevole, irriducibile «duplice eccezione», anche se essere «malvagi» nei confronti «di Jean-Luc Nancy non è davvero una buona idea» (p. 132). Un progetto che si rivela essere dunque, se non integralmente fallimentare, non del tutto congruente rispetto alle aspettative di “malvagità” e “malevolenza” prospettate. Prova ne è il fatto che Badiou si sente «già sufficientemente malevolo mantenendo puramente e semplicemente la tesi secondo la quale: “Finitezza” è il significante-padrone del discorso filosofico di Jean-Luc Nancy» (p. 135). E perché mai? Perché sa cosa «pensa» quest’ultimo, se non altro perché se lo è sentito più volte ripetere; e cioè che quello che lui definisce «l’infinito» si identifica in realtà «concettualmente» con quello a cui Nancy dà il nome di «finitezza». Una «coincidenza» (p. 138) che, nel liberare definitivamente il campo d’indagine da un’illusoria malvagità, lascia il posto a un più sincero e meno “pretenzioso”: “Saluto quindi l’amico, l’uomo leale, l’ultimo comunista, il pensatore, l’artista concettuale delle discrepanze sensibili (p. 142).
Tra Barbara Cassin e il nostro autore tende a instaurarsi, al contrario, una «collaborazione» (da più di vent’anni dirigono insieme collane di filosofia) che ha tutto il sapore e l’attrattiva del paradosso: la prima, infatti, è una «brillante specialista» e «ammiratrice» della sofistica, il secondo un tenace e «vecchio platonista». Come si può, quindi, conciliare ciò che – per definizione – appare essere inconciliabile? Forse accampando il sacrosanto e inalienabile diritto da parte del «vecchio platonista» di poter «parlare», «chiacchierare» con scioltezza di sofistica? Diritto – è bene evidenziarlo – asimmetrico, nella misura in cui per «una supposta sofista» non sarebbe poi così facile parlare di un platonista. Dopotutto – afferma Badiou – è il sofista ad essere «un personaggio dei dialoghi di Platone», non il contrario. È una «conciliazione» che il filoso francese ironicamente ipotizza ma che non rende “operativa” fino in fondo, essendo maggiormente interessato a ciò che lo separa da Barbara Cassin, e non tanto a ciò che – in linea di massima – potrebbe assottigliare le loro differenze. È dalla/nella «separazione» – e solo da essa – che può scaturire una qualche forma di contatto. «Ciò di cui abbiamo più bisogno – scrive – è ciò che meno ci somiglia, e in verità ciò che meno si somiglia è ciò che meglio si appariglia» (p. 143). Tanto è vero che, alla fin dei conti, «quello che intendiamo prendere di mira, nella sofistica, è il fatto che, dietro le sue apparenze sovversive, essa non consente altro, nel pensiero, che una variante tecnica della conservazione dell’insieme delle risorse linguistico-politiche». Una pungente e non facilmente ovviabile critica che potrebbe essere sintetizzabile nello “slogan”, sicuramente d’impatto: «La sofistica non vale la pena». Ma la «logologia» di Barbara Cassin viene, per così dire, “travolta” dalla valanga inarrestabile che la critica di Badiou ha prodotto? No, perché se – come abbiamo detto – «la sofistica non vale la pena», l’autrice francese, invece, «non ci annoia nemmeno un secondo». «Forse perché la sua strategia più viva non consiste tanto nel riabilitare la preminenza della sofistica, quanto nel salvare Heidegger. In questo risiede – e non in altro – […] la forza contemporanea del suo approccio» (p. 151).
Anche il rapporto che intercorre tra Christian Jambet, Guy Lardreau e Badiou pare essere teso, in un primo momento, verso una radicale e cruda «contrapposizione». Una contrapposizione, per altro, tutta interna al «maoismo francese», che vede fronteggiarsi da una parte la «Gauche prolétarienne», diretta da Benny Lévy, e dall’altra l’organizzazione in cui militava Badiou, «il cui nome per esteso era Groupe pour la fondation de l’Union des communistes de France marxistes-léninistes». Eppure la «sorpresa» prende il posto dello “scontro”, quando, nel corso degli anni Ottanta, Badiou riesce a instaurare con i due autori francesi – «che erano stati, da liceali, militanti convinti della Gauche prolétarienne» – «ottimi e stimolanti rapporti». La ragione dell’incontro e del “contatto”? L’Ange, ontologie de la révolution, libro «teso e provocatorio», nel quale Jambet e Lardreau condensano il «bilancio» ricavato dalla loro «esperienza di rivoluzionari radicali»; libro – potremmo dire – che funge da “catalizzatore, facendo emergere sia «le radici
d’importanti divergenze future» (153), sia una serie, non troppo scarna, di convinzioni comuni. Ad esempio, scrive Badiou: «Bisogna riconoscere a Lardreau e Jambet il merito di avere esecrato l’idiozia operaista, che è in realtà il più sommo disprezzo e ostacolo che separi la classe operaia dall’antagonismo, dal programma della rivoluzione e dalla classe in senso politico. Perché – conclude Badiou – solo ciò che concerne tutto il popolo è politico, e veramente antagonista» (168). Uno dei loro – forse il più eclatante e lesivo – “demeriti”? Quello «d’esser stati ridotti alla sottomissione e all’idiozia politica dal culto subdolo del lavoro operaio, del lavoro quale si dà nella fabbrica capitalista» (p. 167).
«Indubbiamente siamo troppo vicini per poter accettare d’essere, su alcuni punti specifici, tanto lontani». Ecco, invece, come Badiou si appresta a descrivere, con una “tinta” certamente accattivante, l’insieme di relazioni che lo legano all’opera e al pensiero di Jacques Rancière. Fin dall’inizio, tuttavia, il filosofo francese mette ben in chiaro ciò intende, per quanto possibile, portare a compimento: portare alle sue «estreme conseguenze» la loro «prossimità» (p. 170). Il raffronto che Badiou intesse fra se stesso e Rancière trova subito la strada dell’«elogio integrale», nella misura in cui il primo non stenta a riconoscere nel secondo il «merito», «tanto e più di Foucault», di aver realizzato un primo «dispiegamento concettuale» della «dialettica tra sapere e potere»; e più specificatamente «tra il sapere dell’intellettuale e il potere del Partito di cui l’intellettuale è compagno, di strada, e di uscita di strada» (p. 181). Chiave di volta di questa dialettica sempre e comunque «disgiuntiva» è Platone. «Ragion per cui – afferma Badiou – Platone è stato, sia per Rancière che per me, un interlocutore costante e fondamentale». Ma il filosofo greco, oltre a essere stato un “compagno di viaggio” comune, è anche un vero e proprio «crinale», rispetto al quale – tuttavia – i due autori tendono a guardare su «versanti opposti» (179). «Si può dire che, nella sua visione generale di Platone, Rancière insista sulla dimensione reattiva dell’univocità pratica (ciascuno al posto suo), mentre Badiou sulla «molteplicità teorica (il posto dei dirigenti, da sempre, si s-posta)» (p. 179-180). In fin dei conti, Rancière non è altro che un accorto e brillante «antiplatonico» e, come ogni buon antiplatonico, non può esimersi dall’avere una «versione “buona”» di Platone: «il Platone che ha incontrato, o forse inventato, il maestro ignorante. Ed è proprio nell’incontrare quest’ultimo che la gioventù può ambire, d’altronde, all’introiezione di un «sapere nuovo» o di un «vero sapere» (p. 189). Ciò detto, è possibile o impensabile prodigarci nel tentativo di rintracciare, per così dire, un fil rouge che, attraversando – pagina dopo pagina – l’intero panorama filosofico offertoci da L’avventura della filosofia francese, richiami ogni singolo incontro – dettato dalle più disparate circostanze – a un télos, se non comune, almeno accomunante? Forse sì, se diamo il peso che merita al «desiderio» che Badiou esprime nelle prime pagine del volume preso in esame: quello «di fare del filosofo qualcosa di diverso dal saggio» e «qualcosa di diverso da un semplice rivale del prete». «Farne uno scrittore agguerrito, un artista del soggetto, un amante della creazione». Ecco il télos accomunante che stavamo cercando. Ed ecco i «termini che esprimono il desiderio che ha attraversato questo periodo, e che voleva che la filosofia agisse in nome proprio» (p. 17).