Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre
Luca Basso (Ombre Corte, Verona, 2016)
Jean-Paul Sartre, nonostante sia un autore a dir poco fondamentale all’interno del panorama filosofico del ‘900, sembra essere ormai divenuto pressoché assente nel dibattito politico contemporaneo. Certamente è un nome che si sente ancora citare spesso, ma oggi lo si fa, per lo più, per richiamare alla mente delle immagini del tutto stereotipate del filosofo francese: Sartre l’esistenzialista, il marxista, l’umanista, “l’ultrabolscevico”, per riprendere l’espressione con cui lo definì Merleau-Ponty. Il testo di Luca Basso, edito da Ombre Corte con il titolo Inventare il nuovo. Storia e politica in Jean-Paul Sartre, è un coraggioso tentativo di andare oltre tutti questi clichés e di tornare a leggere davvero Sartre, per metterne in luce tutta la sua potenza teorica, senza per questo negare il carattere a tratti problematico della sua filosofia. Del resto, si tratta di un autore che ha attraversato tutti i maggiori eventi storici del ‘900 e che è sempre stato interprete di una forte passione politica, che lo ha condotto anche ad alcuni rimaneggiamenti del suo pensiero.
Basso, che sceglie di concentrarsi soprattutto sugli scritti politici di Sartre e, in particolare, sui due tomi della Critica della Ragione dialettica, non dimentica mai di mettere in relazione la filosofia sartriana con il contesto storico-politico in cui Sartre era sempre inesorabilmente engagé. Questo approccio gli permette di rilevare una continuità nella riflessione sartriana: quest’ultima, infatti, non è scevra di correzioni e modifiche apportate dallo stesso Sartre nel corso del tempo, ma sembra sempre legata ad una certa urgenza politica che ben si traduce nell’espressione deleuziana che dà il titolo al testo, ossia l’invenzione del nuovo. Il fil rouge del pensiero sartriano è, dunque, questo tentativo ininterrotto di mettere in moto un conatusin grado di cambiare lo stato di cose presenti. La filosofia di Sartre è permeata da questa esigenza di cambiamento, di rivoluzione, che segna il punto di contatto con Marx, ma anche, al contempo, il suo smarcamento rispetto ad una dottrina marxista divenuta, secondo Sartre, dogmatica e a tratti addirittura positivista.
Il “nuovo” che deve essere prodotto dal movimento rivoluzionario, infatti, non è mai da intendersi come un punto d’arrivo in grado di cambiare in modo permanente il contesto storico politico che si ha di fronte. Per Sartre, infatti, la stessa prassi rivoluzionaria deve sempre fare i conti con delle zone d’ombra che rischiano di deviarne il cammino e, in secondo luogo, anche una rivoluzione riuscita corre sempre il pericolo di trasformarsi in una nuova forma di potere alienante. Questa rilevanza dell’elemento di instabilità della prassi rivoluzionaria si riflette nel rapporto tra i soggetti, da un lato, e la Storia, dall’altro: Sartre conia l’espressione “universale singolare” proprio per dar conto della relazione tra la singolarità del soggetto e dell’evento politico, da una parte, e l’universalità della storia, dall’altra. L’universale singolare, del resto, costituisce anche l’enjeu teorico del libro di Basso, che ripercorre la riflessione politica sartriana a partire dai primi testi – La trascendenza dell’Ego e L’essere e il Nulla – fino agli ultimi scritti degli anni ’70, proprio nel tentativo di mostrare come Sartre, al di là delle sue prese di posizione specifiche e dei suoi cambiamenti di rotta, abbia avuto in ogni caso il merito di pensare la prassi politica senza mai dimenticare di valorizzare né le potenzialità soggettive né la presenza di un’oggettività quasi inaggirabile.
Riguardo al primo punto, la riflessione di Sartre si apre all’effettiva possibilità di un’invenzione del nuovo e, dunque, di un cambiamento dello status quo, attraverso la prassi del gruppo in fusione, che è in grado di superare la serialità e la reificazione a cui il potere sottomette la collettività. Ma, soprattutto nei testi successivi alla seconda guerra mondiale, Sartre sottolinea costantemente che questa libertà e questa potenzialità politica si esercitano sempre in “situazione”, vale a dire all’interno di condizioni materiali e oggettive che prendono il nome di pratico-inerte. Ciò che Basso riesce a mettere bene in luce è come questo rapporto tra la singolarità, il gruppo e il pratico-inerte non sia mai già dato, bensì sempre in continuo movimento, ed è proprio a partire da questo dinamismo che diventa possibile «ripensare la soggettivazione al di là del dualismo “individuale” – “collettivo”, […] evitando il rischio […] di una diffidenza movimentista nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione» (p. 19).
Al fine di mostrare, dunque, come Sartre riesca a superare alcuni dualismi che caratterizzano il pensiero politico del XX secolo e non solo, quali la dicotomia tra universale e singolare, individuo e collettività o, ancora, movimento e istituzione, Basso sceglie di dedicare la prima parte del libro alla lettura sartriana di alcuni momenti fondamentali della modernità e di concentrarsi, invece, nella seconda parte, sull’analisi che Sartre propone dei maggiori eventi del ‘900 e, in particolare, dell’Unione Sovietica.
Nei primi capitoli troviamo, dunque, la ricostruzione del rapporto tra Sartre e alcuni fra i protagonisti della filosofia moderna, come Cartesio, Rousseau (più in generale il pensiero settecentesco che ruota intorno alla Rivoluzione francese) e, infine, Marx e il marxismo. Il confronto che Basso instaura tra le prime opere sartriane e Cartesio mette in luce come quest’ultimo sia stato un riferimento del tutto indispensabile per la costruzione del concetto sartriano di libertà. Ciò che l’autore de L’Essere e il nulla riprende da Cartesio è, infatti, l’idea di una forte libertà creatrice che, però, nel filosofo del ‘600, ha il proprio fondamento in Dio. Il progetto sartriano è quello di distruggere l’elemento della trascendenza divina, in modo da far ricadere la libertà, e la responsabilità che ne consegue, interamente sull’uomo. Questa nozione di libertà, che si configura anche come progetto, viene, però, sempre più connessa da Sartre, da un lato, alla presenza di condizioni oggettive da cui non si può prescindere, e, dall’altro, alla dimensione intersoggettiva, che svolge un ruolo chiave nel tentativo di evitare ogni possibile rischio di solipsismo ancora presente nel cogito cartesiano. La sempre maggiore valorizzazione che troviamo negli scritti sartriani del dopoguerra tanto delle condizioni oggettive in cui si esercita la libertà, quanto della dimensione intersoggettiva, permettono a Sartre di concepire la libertà non più come individuale, bensì come basata su «un continuo scambio fra il “me” e l’“altro”: Cartesio oltre Cartesio» (p. 46).
La sempre maggiore presenza di questi due elementi, ossia l’oggettività e l’intersoggettività, condurrà Sartre a coniare i concetti di “pratico-inerte”, per definire il fondo materiale e oggettivo che vincola la nostra quotidianità, e di “gruppo in fusione”, per indicare una libera interazione tra individui che si oppone alla logica seriale. È a questo punto che Sartre propone, nel primo tomo della Critica della Ragion dialettica, una lettura della Rivoluzione francese, in cui la presa della Bastiglia funziona proprio come esempio del costituirsi di un gruppo in fusione. Le vicende storiche che seguono tale evento, ossia il Terrore, vengono spiegate da Sartre come un’istituzionalizzazione del gruppo, la cui prassi viene stabilizzata segnando una ricaduta nell’alienazione. Basso segnala qui un possibile limite della riflessione sartriana, ossia il suo «antigiuridismo» (p. 82), che va inteso come il rifiuto di qualsiasi organizzazione, operato al fine di evitare ogni possibile rischio di ritorno ad una logica seriale. Viene instaurato qui, inoltre, anche un interessante confronto con Rousseau, con il quale Sartre condivide non solo l’apertura verso un possibile cambiamento dello stato di cose presente, ma anche una forte sottolineatura della dimensione “fusionale” del gruppo, resa evidente dal ruolo strategico che viene fatto giocare al concetto di fraternité, ossia quello di mediazione tra liberté e égalité.
Proprio questa coimplicazione di libertà e uguaglianza è ciò a cui deve mirare la prassi del gruppo in fusione, ed è su questo punto che si instaura il rapporto spesso ambivalente di Sartre con il marxismo. L’autore della Critica della Ragion dialettica, infatti, critica un certo uso del marxismo che, a suo avviso, svaluta eccessivamente la dimensione della relazione umana, rischiando di concepire gli individui come isolati. Nonostante su questo tema vi sia una bibliografia pressoché sterminata, Basso ha il merito di rilevare come Sartre, al di là delle polemiche con il marxismo, si ponga in realtà in linea di continuità con Marx nel momento in cui pone il gruppo in fusione, da un lato, come un superamento dell’alienazione e, dall’altro, come una totalizzazione in corso, ossia come un processo mai compiuto, in cui la prassi continuerà sempre a risentire di quella stessa serialità che pur tenta di oltrepassare. In tal senso, vi è il rischio che l’alienazione diventi una categoria permanente e inaggirabile della condizione umana, ma, ciò nonostante, Sartre sembra riuscire ad evitare questo esito analizzandola non come una categoria eterna, bensì come un elemento storicizzato all’interno del capitalismo.
Inoltre, per Sartre, una disalienazione rimane possibile, ma solamente in momenti autenticamente rivoluzionari, in cui la rivoluzione non è più da intendersi come una presa di potere, bensì come un universale singolare, ossia come praxis che si iscrive nel quotidiano e che è in grado di tenere insieme «la singolarità dell’azione politica» e «l’universalità del progetto» (p. 126).
Si tratta, dunque, per Sartre, di affermare contemporaneamente che gli individui fanno la Storia e che la Storia fa gli individui: è questo l’intento del secondo tomo della Critica della Ragion dialettica, pubblicato postumo con il titolo L’intelligibilità della Storia. Come sottolinea ampiamente Basso, è in questa seconda parte che troviamo l’analisi filosofica forse più ampia dell’Unione sovietica. Quest’analisi è particolarmente rilevante perché ci permette di cogliere le categorie sartriane calate all’interno della contingenza storica; in tal modo possiamo leggere la vittoria di Stalin su Trotsky come il risultato dell’incarnazione di una necessità storica. Stalin, infatti, con il suo socialismo in un solo paese, ha saputo incarnare perfettamente la Russia nazionalista e particolarista che aveva di fronte. Egli, inoltre, è stato in grado di adattare la sua prassi alle condizioni oggettive, attraverso una serie di deviazioni e spostamenti, che lo hanno condotto, infine, ad un’ipertrofia dello Stato. Quest’ultimo, affiancato da un forte processo di burocratizzazione, segna l’inizio della ricaduta del socialismo sovietico in una nuova serialità, che non propone altro che un’uguaglianza reificata.
Come sottolinea Basso, il merito di Sartre è quello di aver saputo leggere lo stalinismo nella sua temporalizzazione e, soprattutto, adottando come metodo d’analisi una certa prudenza storica, che gli consente di criticare l’esito dello stalinismo, senza per questo negare l’importanza dell’Unione Sovietica come esperienza rivoluzionaria. Questo gli permetterà, inoltre, di valorizzare altre sperimentazioni socialiste, che si opponevano esplicitamente all’Unione Sovietica, come la Jugoslavia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Cina e Cuba. Si tratta, perciò, per Sartre, di cercare continuamente quel conatus verso il nuovo, che vedrà incarnato anche in altri fenomeni, quali le lotte anticoloniali e il ’68, verso i quali prenderà esplicitamente posizione.
Al di là, però, delle singole lotte in cui Sartre si è trovato engagé, quello che emerge chiaramente dall’analisi di Basso è la portata teorico-politica di alcuni concetti sartriani, quali quello di gruppo, situazione, fraternità e totalizzazione, che costituiscono un lascito importante e ancora oggi del tutto attuale e attualizzabile. Tale lascito si può condensare nel concetto di “universale singolare”, che il libro di Basso riesce a far emerger in tutta la sua potenzialità, grazie alla capacità dell’autore di restituire in modo chiaro ed articolato quel «conatus di trasformazione all’interno e all’esterno dei soggetti» (p. 264) che costituisce l’elemento di continuità dell’intera riflessione sartriana.