Intervista sul nichilismo giuridico

Domanda: Cosa intende nella sua interpretazione con l’espressione « nichilismo  giuridico » ? 

R. Il nichilismo giuridico, espressione del nichilismo europeo, è un ospite  inquietante che bussa alla porta, insidiando la natura stessa del diritto, volgendolo  verso la volontà più forte, scindendone i legami con la ragione e la giustizia. Nel  dialogo monacense tra Habermas e Ratzinger (2004) la questione è emersa almeno  indirettamente per impulso di Ratzinger, che domandava se non esista qualcosa che  non può mai diventare diritto.  

La prospettiva che ho cercato di elaborare da vari anni – trasfusa nel volume  Nichilismo giuridico. L’ultima parola? (Rubbettino 2012) – individua un luogo  centrale del nichilismo occidentale nel positivismo giuridico assoluto, che trae origine  da Nietzsche, e poi in vario modo da Weber e in specie da Kelsen. Secondo Nietzsche  non esiste nulla che sia giusto o ingiusto in sé, ma il giusto e l’ingiusto prendono  vigore solo dopo la statuizione della legge positiva, e questo è ciò che deve valere  come giusto o ingiusto sino a quando una nuova decisione positiva stabilisca una  diversa distribuzione del giusto e dell’ingiusto. Successivamente Kelsen, azzerando  l’idea stessa di ragion pratica – che è ragione ad un tempo conoscitiva e normativa – ha proceduto a togliere al diritto ogni razionalità, finendo per corrompere lo stesso  carattere centrale della scienza giuridica. La corruzione consiste nel fatto che nella  kelseniana dottrina pura del diritto non è possibile valutare il contenuto delle leggi  positive, che in linea di principio possono stabilire qualsiasi cosa, purché sia stata  rispettata la procedura. 

 Il nichilismo ed i suoi adepti si adoperano attivamente per introdurre una nuova  comprensione della legge e del diritto. Ciò accade nell’epoca in cui si fa più forte  l’affidarsi al diritto come a fondamentale istanza e ‘collante’ che possano tenere  insieme le attuali società fortemente pluralistiche e secolarizzate.  

La complessità del problema del nichilismo giuridico implica l’elaborazione di  risposte a domande del tipo: che cos’è il nichilismo giuridico e quali categorie  occorre mettere in azione per intenderlo? Come è sorto? Quali i suoi antefatti e quali i  suoi esiti? Da oltre 150 anni il pensiero europeo ha messo in atto alcune diagnosi  fondamentali sul nichilismo che portano i nomi di Nietzsche, Heidegger, Sartre,  Schmitt, Jünger, Severino, ma che risultano tra loro molto lontane: avvertono  l’imponenza drammatica del tema, non riescono a trovare risposte paragonabili.  Anche la grande tradizione della filosofia dell’essere e del realismo, che si distende  dalla grecità attraverso lo snodo fondamentale di Tommaso d’Aquino sino al XX  secolo (Maritain, Gilson, Fabro), non potrebbe risultare assente in questa contesa  straordinaria in cui ne va della comprensione di noi e della realtà. Dare voce a tale  tradizione è quanto ho cercato di fare nel volume Nichilismo e metafisica. Terza  navigazione (Armando 2004, 2° ed.), elaborando una ricerca sulla natura e l’origine del nichilismo teoretico e dell’antirealismo che sono al centro della deriva nichilistica  e dunque anche del nichilismo giuridico. Nella svolta nichilistica le categorie centrali  di essere, unità, verità, scopo non hanno più contenuto: non esiste più alcuna verità,  unità, scopo, alcun ‘mondo vero’ oltre l’eternità di un divenire senza senso e senza  fine. 

La vicenda del nichilismo giuridico si colloca entro questa vicissitudine epocale, in  cui nichilismo significa che non si dà alcun diritto che sia giusto in sé e misurato dal  diritto naturale. Conseguentemente tutto il diritto è positivo, posto (positum) da una  volontà orientata assolutamente alla decisione (decisionismo giuridico e politico), in  cui si esercita lo scontro tra singole volontà in lotta per il potere. Nel nichilismo  giuridico si manifesta la vittoria del positivismo giuridico assoluto, che separa  problema del diritto e problema della giustizia, identifica loi (positive) e droit,  sostenendo che niente si può contro la legge, ma tutto si può con la legge, dal  momento che questa può avere qualsiasi contenuto.  

Il diritto diventa dunque legalità positiva. Tale svolta implica l’esclusione di ogni  ordinamento reale preesistente alla decisione normativa e che questa dovrebbe  rispettare, non instaurandolo ma restaurandolo. Alla consegna del diritto alla volontà  che non riconosce criteri esterni a se stessa, consegue che il diritto nichilista esprime  il linguaggio della volontà con la sua illimitatezza aperta ad ogni possibilità e ad ogni  scelta che si manifestano poi nell’incessante produzione giuridica, le cui regole  esistono solo perché gli uomini vogliono che esistano. Poiché la volontà degli umani  vuole e disvuole, desidera e allontana, ama e odia, niente è stabile, tutto è revocabile  e mutabile. Ciò che è stato posto può con pari ragione essere tolto: e là dove non vi è  alcun senso autentico, vi possono essere infiniti sensi. Il senso fattualmente scelto  non sarà vero e buono, ma soltanto scelto, ossia voluto ed eventualmente imposto con  la violenza. Tolto il riferimento essenziale all’atto di ordinamento della ragione ed  alla giustizia, il diritto difficilmente si difende dal confondersi con la violenza. Alte  risuonano in proposito le celebri parole di Agostino: Remota justitia, quid sunt regna  nisi magna latrocinia? (De civitate Dei, l. IV, c. 4). Su una lunghezza d’onda analoga  e nel contempo radicalizzata si pone A. Camus, secondo il quale il nichilismo  conduce a legittimare l’omicidio: “Così da qualunque parte ci si volga, al cuore della  negazione e del nichilismo l’omicidio ha un suo posto privilegiato” .  

 Viceversa essere antinichilisti significa che esiste qualcosa che non può mai  diventare diritto, anche se votato da una maggioranza. In tale prospettiva, elaborata  dalla tradizione e tuttora presente, natura umana, persona e ragione risultano le vere  fonti del diritto, per cui l’incontro tra filosofia greca e diritto romano, catalizzato dal  cristianesimo, ha costituito la base del pensiero giuridico occidentale dal Medioevo  all’Illuminismo e alla Dichiarazione universale del 1948. A partire dal XIX secolo e  in varie ondate sino ad oggi i fondamenti della civiltà giuridica sono stati fortemente  scossi dall’obiezione positivistica, tuttora in atto. La cultura del positivismo intende  apertamente porsi come unico fondamento comune per la formazione del diritto,  atteggiamento cui si accompagna un’esplicita sottovalutazione e talvolta disprezzo di  altre filosofie e culture, tradizionalmente in grado di rendere ragione del diritto e  dell’esperienza giuridica. Per una parte considerevole del XX secolo un argine  importante al nichilismo è provenuto dal giuspersonalismo che riconosce nella  persona umana la sorgente ultima del diritto inteso non come qualcosa che muta  secondo le pulsioni anarchiche dell’io, ma come l’espressione fondamentale di  quanto è dovuto alla persona umana come tale: e questo è il suo diritto. 

In tal modo l’intero ambito del diritto positivo è riferito alla persona ed ai diritti e  doveri fondamentali che ne promanano: ubi persona et societas, ibi jus. L’espressione  che la persona è il diritto sussistente e dunque l’essenza del diritto, proviene da  Rosmini (cfr. Filosofia del diritto), ed è al centro di un giusnaturalismo che si può  anche nominare giuspersonalismo. Il personalismo del XX secolo ha operato in senso  antinichilistico in campo giuridico e politico, ottenendo risultati considerevoli a  livello di Carte costituzionali e di una sensibilità giuridica diversa in cui il concetto di  persona ha spesso preso il posto della nozione di soggetto giuridico astratto. 

Domanda: E’ dunque corretto ritenere che nel nichilismo giuridico l’idea stessa di  ordine interno alla realtà è negato? 

R. Sì, possiamo sostenere che la nozione di ordine e di ordine giuridico e quella di  nichilismo giuridico si escludono mutuamente. Parlare di ordine giuridico significa in  sostanza avvertire che il diritto si fonda su un ordine non soltanto esclusivamente  mobile e creato ad ogni momento dalla volontà umana, ma su un ordine che affonda  le sue radici ultime nella vita e nell’essere. Mi pare che in un senso analogo proceda  Paolo Grossi nella sua feconda ricerca sull’ordine giuridico medievale. Parlando della  società medievale la cui cifra ultima sta nel diritto, aggiunge: “Un ordine che non si  lascia scalfire dagli episodi grandi e piccoli della vicenda storica, perché si colloca al  di là del potere politico e dei suoi detentori, svincolato dalle miserie della  quotidianità, collocato sul terreno fondo e sicuro delle radicazioni supreme e dei  valori. Un valore immanente – la natura delle cose, un valore – trascendente – il Dio  nomoteta della tradizione canonica, l’uno in assoluta armonia con l’altro secondo i  dettami della teologia cristiana, costituiscono un ordo, un ordo juris”. Il focus della  ricerca di Grossi sull’epoca medievale non è il nichilismo, che è tema moderno e  postmoderno; tuttavia le categorie sviluppate nella ricerca sul medioevo risultano in  vari casi singolarmente in grado di ‘spiegare’ il nichilismo giuridico contemporaneo. Nei lavori di Grossi trovo la diversità tra legge e diritto e l’anteriorità del secondo,  l’avversione al monismo giuridico ed al positivismo kelseniano, l’importanza delle  formazioni sociali intermedie, l’elaborazione del concetto di ordine, che risultano nuclei importanti per delineare il nichilismo giuridico. 

Un altro tema di rilievo, proprio della tradizione positivistica, è di intendere diritto e  legge come identici ed appartenenti entrambi all’ambito del positivo. Ma se si allarga  il quadro dell’analisi e si procede oltre la tentazione nichilistica, è agevole percepire come il concetto di diritto sia molto più complesso, difficile da determinare e delicato  di quello di legge. Il positivismo giuridico radicale sclerotizza il diritto in legge, e  non trova più il cammino per percepire che nella realtà sociale è possibile trovare uno  spazio privo di leggi, ma mai uno spazio privo di diritto. 

Domanda: quale impatto ha avuto ed ha, a suo giudizio, il nichilismo giuridico non  solo e non tanto nella prassi giuridica, ma nella concreta vita vissuta e nel costume  della nostra società? 

R. Enumero un insieme di fenomeni presenti nella cultura diffusa e nel costume nei  quali sembra riflettersi un certo influsso di moduli nichilistici, che non si esprimono  forse con la drastica secchezza di una posizione teorica netta, ma che nondimeno  sono attivi. Dapprima il sentimento che la legge possieda un carattere pattizio e  convenzionale in cui non si esprime una situazione reale ma l’esito di un accordo che  avrebbe ben potuto essere diverso. Ciò significa che sempre di più si chiede alla legge  di concedere autorizzazioni, di permettere, più che di indirizzare verso la vita buona.  A sua volta questo aspetto implica che sia svanito l’elemento pedagogico della legge  civile, a cui appunto non si domanda un indirizzo ma una quota crescente di  permessi, autorizzazioni e ‘diritti’. Conseguentemente aumenta l’area del  convenzionale e diminuisce ciò che vale per natura. In questo processo esercita un  impatto decisivo la potenza della tecnica che mettendo a disposizione possibilità  quasi illimitate di intervento e manipolazione, inclina a ritenere che il fattibile  tecnicamente sia ipso facto lecito moralmente. Tende perciò a prevalere il  funzionalismo che dice: magari non è lecito, ma funziona, ed evviva l’efficacia. In  sostanza nel costume e nella cultura si osserva lo sfumarsi crescente della differenza  tra diritto e pretesa.  Del carattere convenzionale del diritto è testimonianza una posizione estrema, sinora  marginale ma che qua e là viene teorizzata. Essa dice che ciascuno potrebbe creare il  suo proprio diritto in base al semplice atto della sua volontà infinita e insindacabile.  

Domanda: In questo suo volume lei critica Kelsen e la tradizione kelseniana di  essere antipersonalista. Cosa intende con ‘antipersonalismo’? 

R. Antipersonalismo significa dissolvere la natura propria della persona umana. Ciò  è accaduto e può accadere in vari modi. Nella modernità sono stati attivi  l’antipersonalismo marxista in cui il soggetto è ‘sciolto’ nei rapporti sociali (vedi la  sesta tesi di Marx su Feuerbach), quello dei totalitarismi che hanno schiacciato gli  esseri umani, le varie posizioni mortaliste e materialiste secondo cui l’essere umano è  solo materia animata (e dunque è completamente mortale, compresa l’anima), e le  posizioni che leggono l’io empirico solo come una apparizione transeunte di un Io  trascendentale oggettivo e impersonale. L’antipersonalismo kelseniano, curiosamente  rimasto in ombra, sembra appartenere a quest’ultimo versante. Ho svolto talune  considerazioni in merito in Il Principio-Persona (Armando 2006), oltre che nel  volume di cui parliamo.  

 Forse alcuni commentatori potranno ritenere che il concetto di persona sia estraneo  alla dottrina pura del diritto, concentrata solo sul descrittivo. In realtà questa è tanto  poco pura e descrittiva che Kelsen parla ampiamente della nozione di persona sotto il  titolo inequivoco “La dissoluzione del concetto di persona”. Persona è per Kelsen  “soltanto un artificio del pensiero… persona è soltanto un’espressione unitaria  personificante d’un gruppo di obblighi e di autorizzazioni giuridiche, cioè di un  complesso di norme” (cfr. Lineamenti di dottrina pura del diritto). Dunque la persona  è solo un punto di imputazione di obblighi giuridici: si direbbe che è il diritto positivo  a ‘creare’ la persona attraverso l’imputazione, e non la realtà vivente e sostanziale  della persona a costituire la sorgente del diritto. 

 In sostanza per Kelsen la persona non è un concetto reale ma un concetto creato  dalla giurisprudenza, mentre l’uomo reale, l’uomo-individuo, è un concetto solo  biologico e fisiologico, ed il comportamento degli individui è pienamente  determinato dalle leggi della natura secondo il principio di causalità. Accade in  proposito una separazione completa tra persona (nozione giuridica) ed uomo (nozione  naturalistica), e tra persona cui si attribuisce fittizziamente la libertà e l’uomo  determinato in tutto dalla causalità. La dottrina pura del diritto e chi la difende rischia di sognare ad occhi aperti se non  fa i conti con simili semplificazioni, a mio avviso disastrose. La kelseniana teoria del  diritto in sostanza rompe con la tradizione dell’umanesimo politico e giuridico  occidentale, che si è edificato su una nozione concreta, vivente e non formale di  persona. 

Domanda: Un modello di democrazia come quello kelseniano, che a suo avviso  poggia su radici antipersonalistiche, può ancora dirsi tale? Perché una democrazia che  si basi su presupposti antipersonalistici non può essere una risposta efficace  all’insidia totalitaria, anche nelle nuove forme che presenta nella nostra attuale  società? 

R. La posizione kelseniana sulla democrazia è stata ed è ampiamente considerata per  il nesso che essa pone tra relativismo e democrazia, ossia per il legame indissolubile  introdotto tra assolutismo filosofico e assolutismo politico, come tra relativismo  filosofico e relativismo politico. Non è questa la sede per ripercorrere tale posizione  (ne ho trattato spesso, in specie in Le società liberali al bivio, Marietti 1991, e in Le  ragioni della laicità, Rubbettino 2007). Minor attenzione è andata all’idea di persona  e di popolo in Kelsen. Lego insieme i termini di persona e di popolo (quest’ultimo è  una nozione-realtà centrale di ogni concezione politica), poiché l’approccio  antipersonalistico e formalistico di Kelsen vede il popolo come oggetto del potere  dello Stato e come costituito dall’ordinamento giuridico statuale: “Il popolo appare  uno in senso più o meno preciso dal solo punto di vista giuridico; la sua unità, che è  unità normativa, risulta in realtà da un dato giuridico: la sottomissione di tutti i suoi  membri al medesimo ordine giuridico statale” (La democrazia). Poiché poi l’ordinamento giuridico si rivolge non agli individui ma ai loro atti, il  popolo è per Kelsen solo “un sistema di atti individuali, determinati dall’ordine giuridico dello Stato”. In certo modo la dottrina dello Stato e del popolo è parte  intrinseca della Rechtslehre, per cui la realtà esistenziale di un popolo che è alla base  di ogni sistema politico autentico, viene resa astratta e giuridicizzata.  Quanto al totalitarismo politico, ritengo che la sua insidia risulti oggi assai meno  presente rispetto ad altre tragiche fasi del ‘900. Semmai il rischio può provenire da un  ‘pensiero unico’ e dal poderoso dispiegamento dei mezzi tecnici, delle tecnologie che  si pongono imperiosamente come necessarie e indispensabili per tutti i possibili fini,  compresi quelli affetti da disumanizzazione. In rapporto a tali orizzonti sembra che la  democrazia vagheggiata da Kelsen risulti indifesa. Quale senso possiede sostenere  che ”la democrazia stima allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come  rispetta ugualmente ogni credo politico, ogni volontà politica”, e nel contempo  opporsi al nazismo? 

 E’ vero che egli ha sostenuto come uomo comportamenti opposti a quelli che  possono trarsi dalle sue teorie e questo – a mio avviso – avrebbe dovuto indirizzarlo a  mutare le basi della sua dottrina pura del diritto e di quella sulla democrazia. Sembra  qui sussistere una profonda contraddizione tanto esistenziale (e viva Kelsen uomo!)  quanto teoretica (ed allora, oserei dire, abbasso Kelsen teoreta!).  In base a ciò è fondato sostenere che per quanto concerne la Germania nazista il  positivismo giuridico kelseniano non offriva risorse giuridiche che potessero essere  impiegate per opporre resistenza al nazismo: molti giuristi tedeschi vennero  intellettualmente e moralmente disarmati dal positivismo giuridico. Tale è stata  l’opinione di molti, tra cui Gustav Radbruch, Charles E. Rice e, si licet, mia. 

Rimane la domanda se la sua teoria relativistica e personalistica della democrazia, di  una democrazia senza valori e principi fermi, e la sua dottrina pura del diritto secondo  cui il diritto positivo può avere qualsiasi contenuto, non siano la fine della  democrazia e del diritto e la loro consegna al potere egemone in un determinato  momento storico. Ieri erano i totalitarismi, oggi può essere la potenza della tecnica,  che assume l’uomo come oggetto di manipolazione e di produzione. Produrre la  persona è il più folle sogno che l’ideologia della Tecnica sembra nutrire: sogno che  rimane tale ma che nel tentativo di essere realizzato comporta per noi enormi rischi. 

Da questi cenni si diparte la necessità di un nuovo umanesimo politico condiviso,  basato sulla realtà della persona e della natura umana, sulla loro estraneità ed  intangibilità rispetto alla potenza della tecnica (questa non può produrre l’uomo nel  senso che la sua natura o essenza appartiene all’ambito del necessario, ossia di quanto  non è producibile), e sul mantenimento della barriera uomo-animale. 

Domanda: Perché, come lei afferma in alcuni passaggi delle sue considerazioni a  margine dell’uscita di questo volume, non tutti i diritti umani sono riducibili a diritti  di libertà? Quali le conseguenze di ciò nella prassi giuridica in atto?

R Dalla Dichiarazione universale del 1948 in avanti si sono espresse due visioni  predominanti dei diritti umani, che chiamerò visione “libertaria” e visione  “dignitaria”, nel senso che la prima fa perno sui diritti di libertà del singolo e l’altra  sulla dignità della persona. Già non coincidenti all’inizio e in certo modo anticipate  alla fine del XVIII secolo in America e in Francia, le due strade non si sono mai  compiutamente congiunte e anzi sembrano da alcuni decenni entrate in una fase di  accentuata differenza. Il modo libertario di pensare i diritti, influenzato da correnti  liberalradicali, nutre diffidenza verso tutto ciò che sa di amministrazione e di  governo, mentre punta sull’iniziativa individuale. Ciò comporta che il discorso sui  diritti assegni una forte priorità a quelli individuali di libertà, di cui si sottostimano i  limiti e il rapporto con altri diritti. 

La visione dignitaria dei diritti umani, che sembra legarsi ad una parte consistente  della cultura europea, all’Illuminismo di un Kant, all’etica sociale delle Chiese  cristiane, concede attenzione non solo alla libertà ma anche all’uguaglianza e alla  solidarietà/fraternità. Nella visione dignitaria il governo politico è posto in una luce  migliore e i diritti individuali sono temperati da limiti e doveri. Il riferimento ultimo  all’uomo è diverso nei due casi. Nella tradizione libertaria prevale l’idea di un  individuo radicalmente autonomo e capace di assoluta autodeterminazione, mentre  nell’altro cammino si mette in luce che le persone sono esseri relazionali, non chiusi  in un’isola. La corte costituzionale tedesca in una decisione del 1954 sostenne:  «L’immagine dell’uomo nella Legge fondamentale non è quella di un individuo  isolato e sovrano. La tensione tra individuo e società [è risolta] a favore del  coordinamento e dell’interdipendenza con la comunità senza alterare il valore  intrinseco della persona». 

 Di per sé la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 appartiene alla  visione dignitaria più che a quella libertaria, a partire da sue espressioni che ricordano  la dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e il valore della persona  umana (vedi il preambolo e l’art. 1 che recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”), sino all’art. 16 che si riferisce alla famiglia come  “nucleo naturale e fondamentale della società”, abilitata a ottenere, come tale,  protezione dalla società e dallo Stato. 

Ma lo scorrere del tempo e la dialettica culturale hanno mutato il quadro  ermeneutico. Da varie parti si cerca da alcuni decenni di trattare la Dichiarazione  come una lista da cui si può scegliere a piacere i diritti che meglio fanno al caso  nostro, ossia alla battaglia cui ci siamo votati, privilegiando nettamente i diritti di  libertà. Ne è seguito un doppio esito sconcertante, ossia che non poche agenzie  culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari  strappati a forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e proiettati in  contesti extraoccidentali dove fanno molto fatica ad attecchire per la ben differente  situazione della cultura e delle istituzioni. Nel contempo in Occidente queste  “avanguardie libertarie e radicali” hanno assolutizzato alcuni diritti a scapito di altri,  dando origine all’individualismo dei diritti umani, inidoneo ad edificare vincoli di  solidarietà.

Il punto cardine su cui si fa leva per imporre una visione oltranzista dei diritti umani  è la nozione di “uguaglianza”, e collegata strettamente con essa quella di respingere  ogni “discriminazione”. Ciò in concreto significa che a tutti si deve riconoscere  un’uguaglianza aritmetica e astratta, a prescindere dalla reale situazione in cui il soggetto si trova (si pensi alle richieste di non ‘discriminare’ la cosiddetta famiglia  omosessuale da quella naturale, le convivenze di fatto da quelle riconosciute dalla  legge, la persona singola che desidera diventare padre o madre tramite eterologa, etc). Ora, se è vero che un’uguaglianza fondamentale deve essere riconosciuta alle persone  per quanto concerne un notevole numero di diritti quali il diritto alla vita, alla libertà  religiosa, al lavoro, alla liberazione della miseria, ecc., non possiamo applicare in  maniera illimitata il criterio di uguaglianza e quello di non-discriminazione senza  ledere altri fondamentali diritti della persona. Esemplifico: i criteri di uguaglianza e  non-discriminazione risultano gravemente violati oggi in ambito bioetico quando si  ricorre alla diagnosi pre-impianto degli embrioni, mediante la quale alcuni sono scelti  e altri soppressi. Ciò significa che il criterio di non-discriminazione è applicato  secondo le convenienze del momento, evitando di confrontarsi con la natura delle  cose.  

 Le correnti libertarie e radicali compiono dunque molteplici riduzioni. Dimenticano  che alcuni diritti come quello alla vita e al lavoro non sono diritti di libertà, mandano  avanti solo questi ultimi come fossero la totalità dei diritti, ritengono che il diritto alla  vita del soggetto sano sia molto più forte di quello malato, applicano al contrario i  criteri di uguaglianza e di non-discriminazione cui pur si richiamano senza requie.  Nella diagnosi pre-impianto degli embrioni che accoglie e scarta, il diritto alla vita di  quelli messi da parte non è salvaguardato, e altrettanto vale per i criteri di  uguaglianza e non-discriminazione, palesemente violati. Solo chi è sano ha diritto alla  vita? In realtà prima viene il diritto alla vita, poi quello alla cura di eventuali  patologie, non viceversa. 

Non si può dunque spingere sul pedale dei diritti di libertà, tra cui il diritto al figlio,  al figlio sano, alla sua programmazione, ad averlo in tarda età, poiché il diritto  autentico si deve confrontare col dovere e la giustizia verso l’altro. 

Concludo osservando che dobbiamo pervenire ad una società postliberale, in cui il  riferimento alla libertà di scelta del singolo non sia più l’unico (o quasi) criterio di  governo delle questioni pubbliche. Il termine ‘postliberale’, che non significa  naturalmente ostilità verso la libertà, è sostanziato da quattro nuclei: i diritti di libertà  non devono avere sempre e dovunque il predominio; il bilanciamento tra diritti e  doveri deve essere più rigoroso che nell’individualismo liberale; la religione non può  essere soltanto cultus privatus, ma deve avere una presenza e influsso pubblici; infine  più radicalmente la libertà non può essere lo scopo politico unico o supremo, il quale  si concreta nel bene comune.  

Domanda: come fronteggiare, innanzitutto dal punto di vista culturale, l’estesa  egemonia del proceduralismo e delle sue implicazioni nichiliste?

R. Noi ci affidiamo alle procedure sia perché sono necessarie, sia perché è diventata  più difficile una condivisione sociale dei contenuti. In tal caso si ritiene che l’output generato dalle procedure sia di per sé valido. Ma poiché tale esito spesso non ci  soddisfa, siamo spinti a cercare risposte sostantive e non procedurali, e  spontaneamente facciamo appello ai valori. Ciò mostra che il ricorso alle procedure  non può tutto ed è anzi impari rispetto a quanto ci sta a cuore, ossia la presenza di  qualcosa di giusto e di sostanziale4. Una società non è giusta per il solo fatto di essere  formalmente democratica, ma perché include una tavola di principi, valori e regole  che mirano verso il rispetto della persona e verso la giustizia. 

 Per raggiungere un esito più sostantivo appaiono utili due assunti: che la democrazia  abbandoni la tentazione di esprimersi in una forma meramente aggregativa, cioè in  quella forma che R. Dworkin ha icasticamente denominato «democrazia statistica»; e  che la discussione pubblica, necessaria ad un autentico processo deliberativo, rifiuti il  primato e l’insindacabilità delle preferenze individuali e delle opinioni, accogliendo il  presupposto che la gente possa cambiare idea. La deliberazione è un metodo per far  cambiare idea alle persone mediante ragioni ponderate. È specifico della  deliberazione mirare alla trasformazione delle opinioni con argomenti razionali o  ragionevoli, sì da raggiungere un comune modo di pensare

In questo cammino, invece di cedere ad una forte rassegnazione nei confronti delle  procedure e a sovrastimare le virtù del formalismo che per taluni giuristi nichilisti è  come un salvagente universale proprio in quanto è in grado di accogliere tutti i  contenuti, può risultare salutare il richiamo all’esperienza elementare delle persone,  alla loro vita, lavoro, relazioni, dunque ai rapporti concreti nel mondo della vita: essi  rivestono un rilievo immenso anche per il Diritto. E’ difficile cedere al nichilismo  giuridico quando ci si cali nell’esperienza elementare dell’umano e nei suoi rapporti. 

04/10/2012
Data
Intervistato

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