In principio era l’azione. Realismo e moralismo nella teoria politica

Bernard Williams (Feltrinelli, Milano, 2007)

L’opera di Bernard Williams raccoglie tredici saggi editi tra il 2005 e il 2006, incentrati sul  rapporto tra realismo e moralismo nella teoria politica. Il primo studia i principi morali che  dovrebbero modellare le istituzioni politiche di una società. Tuttavia, tali principi  stabiliscono cosa sia giusto solo moralmente, rinnegando la propria vocazione politica. In  questo modo, una teoria non diventerà mai realistica, ma resterà una filosofia che si rivolge  solo a se stessa. Il secondo, invece, è “un approccio che dà maggiore autonomia a ciò che è  specificamente pensiero politico” (p. 5). Chi si trova davanti ai saggi di Williams potrebbe  chiedersi se, dopotutto, è lo stesso testo che pone al lettore il seguente quesito: qual è  l’autenticità del politico e del morale nella teoria politica? L’affermazione di derivazione  biblica che dà il titolo all’opera è goethiana, ed esemplifica il primato della pratica, ove ciò  non è la descrizione della pratica, ma pratica della critica. Se il moralismo, ossia le teorie  politiche dell’utilitarismo e del contrattualismo, si basa sulla priorità della morale sulla  politica, Williams capovolge la prospettiva (o ritorna al ‘via’ di partenza?): il filosofo non  muove dai principi morali ma dalle pratiche sociali in un senso che non è certo alla Alasdair  MacIntyre. Infatti, prendere le mosse dalle pratiche non vuol dire descriverle punto e basta,  ma criticarle alla luce delle pratiche stesse e non in base a un qualche principio etico che  guida ‘fuori strada’ dall’ambito politico. L’inversione di marcia operata da Williams  permette di guardare ai temi classici della filosofia politica, fra i quali libertà, eguaglianza,  liberalismo, diritti umani e tolleranza come questioni politiche, non morali. Il termine  questione, utilizzato spesso dal filosofo, presuppone: che le nozioni menzionate si trovino,  per così dire, sottoposte a un climax di riappropriazione che le considera, anzitutto, disposte  all’azione; che si trovino, successivamente, soluzioni pratiche ai problemi che esse  sollevano; e che tali soluzioni, infine, siano il risultato di decisioni politiche. A tale scopo,  il realismo politico appare a Williams più promettente rispetto a un moralismo poco  politico che ha dimenticato “i termini morali propri della teoria politica” (ibidem). In ciò  che segue, si dialoga con l’opera di Williams scendendo nei particolari della sua originaria  e originale tesi.  

Nel saggio di apertura, il filosofo affronta il tema della legittimità di uno stato.  Affinché uno stato sia legittimo e liberale, si deve rispondere a ciò che Williams definisce  “richiesta di legittimazione fondamentale” (ibidem). Ciò implica il requisito  dell’accettabilità da parte di tutti i suoi cittadini. Muovere da questa richiesta ha un  importante corollario: il fondamento di uno Stato non deriva da un qualche principio etico  formulato dal moralismo politico. Il τéλος di uno Stato non risiede nella condivisione di  principi morali, ma nel risolvere il primo problema politico: “l’assicurazione di ordine,  protezione, sicurezza, fiducia e delle condizioni per la cooperazione” (ibidem). Il realismo  di Williams è connesso alla prospettiva del liberalismo della paura di Judith Shklar. Il  liberalismo della paura ha come nodo tematico il pluralismo non morale, ma delle  istituzioni principali di una società. Tale approccio “non rimpiazza la politica, ma si  comprende soltanto alla luce della politica e in quanto si rivolge ai suoi narratori alla luce  della loro politica” (p. 72). L’approccio fattuale-effettuale di Williams è in linea con un  liberalismo che si confronta con la realtà politica e storica, non filosofica, guardando ai  diritti delle persone in un ambito locale: ciò che conta è il qui e l’ora. Già, ma dov’è il posto  per l’etica? Il realismo del filosofo non ‘accomoda in sala d’attesa’ l’etica ma questa  rinasce solo se riesce ad abbracciare la modernità. Considerando il rapporto tra etica e  modernità, Williams si contrappone al fondazionismo di Ludwig Wittgenstein e riflette sul  contenuto etico nelle società pluralistiche che non può astrarsi dal mondo che lo circonda. 

Solo così una filosofia morale diventa realistica. Si potrebbe osservare che l’idea di  Williams Giulio Preti sembra averla anticipata. Nelle sue parole: “Per la filosofia il  problema si presenta come quello della «realizzazione della filosofia»” (G. Preti, Praxis ed  empirismo, Mondadori, Milano 2007, p. 188). E ancora: “La filosofia, si può dire, è un  orientamento attivo verso il mondo” (ivi, p. 8). L’orientamento pretiano diventa in  Williams direzione prospettica nella misura in cui una teoria politica, privandosi  dell’αυ̉τάρκεια, si confronta con le circostanze politiche, storiche e sociali ad essa presenti.  

Tuttavia, ad avviso di Williams, nei confronti della modernità l’etica persiste  nell’assumere l’atteggiamento delle lamentele. Ciò conduce alla nostalgia etica, una sorta  di rifugio (o una gabbia?) per coloro che, così testardi nel mostrare la loro insoddisfazione  nei riguardi dell’etica contemporanea, si aggrappano a “un ‘prima’ generalizzato e  ricorsivo” (p. 50). Tale πρότερον assume le sembianze, per così dire, di una dogma di fede:  il passato è sempre migliore del presente. Deludente, agli occhi di Williams, è  l’applicazione della nostalgia etica operata dalla filosofia politica, giacché raggiunge l’esito  dell’autoreferenzialità. Per rispondere all’esigenza di una etica sostanziale, il filosofo  prospetta la liberazione dalla nostalgia e concettualizza una federazione etica all’interno  della quale la giustificazione pubblica procede per fasce etiche di riferimento. Williams,  pertanto, traccia una mappa geografica dell’etica nella quale vi sono concetti etici spessi,  applicati a un livello locale e nozioni etiche sottili impiegate a un piano più elevato. Il  discorso di Williams ha come conseguenza cruciale l’abbandono della pretesa di una  giustificazione pubblica universale. Lo stesso abbandono appare connotare il tema dei  diritti umani il cui nodo centrale è la dicotomia tra universalismo e relativismo. Williams  non si schiera né a favore del primo né del secondo. Il suo è un relativismo della distanza.  Non si tratta del solito e vecchio relativismo, giacché “il relativismo volgare si differenzia  dal relativismo della distanza poiché indica alle persone quali giudizi formulare, mentre il  relativismo della distanza parla loro di quei giudizi che non devono formulare” (p. 83). Alla  luce di tale differenza, il filosofo esplora il quesito del che cosa si debba fare in presenza  delle violazioni dei diritti umani, ritenendolo un dilemma propriamente politico, non  filosofico. Il problema della definizione dei diritti umani, per Williams, non è una reale  issue dato che questi sono autoevidenti e ciò che conta è il farli rispettare. E il dilemma  della giustificazione dei diritti umani? Nelle pagine di Williams non si trova alcun  riferimento a tale quesito, nemmeno un cenno. Il filosofo, invece, si concentra sulle  decisioni politiche che impegnano gli Stati in operazioni di soccorso umanitario  internazionale. Williams ritiene che il diritto d’intervento sia giustificato sulla base di un  principio di responsabilità: l’intervento diventa, quindi, un dovere. Le ragioni per agire  risiedono, in prima istanza, nella considerazione morale basata sul riconoscimento delle  persone che soffrono. Tuttavia, la natura politica dell’intervenire, sottolinea Williams,  comporta valutazioni che sono legate alla giustapposizione fra obiettivi e interessi da parte  degli Stati, vincolate dal rischio ragionevole piuttosto che connesse alla sofferenza delle  vittime. Cosa dire, poi, dei valori della libertà e dell’eguaglianza? E valori per cosa?  Williams si occupa di costruire la libertà come valore politico cioè dà alla libertà una  dimensione normativa. Per questo fine, il filosofo tiene in considerazione tre condizioni:  una pratica applicata da uno Stato non rappresenta una violazione della libertà ma ciò non  implica nessuna conseguenza relativista, ossia inerente a uno Stato in particolare;  similmente, esiste la tendenza a confrontare uno Stato con il modello utopico di Stato che,  nella prospettiva del filosofo, non aiuta a costruire la libertà come valore politico. Vi si  aggiunge la terza condizione: limitando il pensiero utopico, la costruzione della libertà,  insiste ancora Williams, ha le sue fondamenta nella modernità. L’eguaglianza è analizzata  su due versanti: la comune umanità e l’eguale distribuzione dei beni. Entrambe le nozioni  sono utilizzate in contrapposizione negativa al postulato della modernità per il quale tutti  gli uomini sono uguali. Comune umanità come concetto ideale non comprende solo le  caratteristiche per le quali le persone possiedono la medesima capacità di provare dolore o  piacere, ma anche il rispetto dovuto loro a prescindere dai ruoli sociali che giocano o dalle strutture diseguali in cui si trovano. Tuttavia, il punto di vista umano non basta per rendere  sostantiva l’idea politica di eguaglianza. L’eguaglianza s’invoca nelle situazioni diseguali  di distribuzione dei beni alla quale è legata l’eguaglianza delle opportunità. In queste  circostanze, la differenza nel trattare le persone chiede ragioni. Ad avviso di Williams, i due  versanti dell’eguaglianza non sono conflittuali ma il loro essere rivolte all’azione è lasciato  al si potrebbe sperare. Se i due versanti dell’eguaglianza non ‘fanno a pugni’, ciò non può  essere parimenti detto per il rapporto fra eguaglianza e libertà. Nella prospettiva del  filosofo, il costruire la libertà necessita della “continua esistenza del conflitto politico” (p.  155). Stando così le cose, il conflitto in questione non è risolvibile ma va continuamente  relazionato a una cornice politica dinamica. Pertanto, libertà ed eguaglianza coesistono nel  modello di “accettazione simultanea di due idee in contrapposizione” (ibidem). Alla  domanda posta dal decimo saggio, Tolleranza, una questione politica o una questione morale?, Williams risponde che essa è, in prima istanza, un fatto politico. Ciò vuol dire che  il filosofo mette knock-out il valore dell’autonomia della tolleranza, attribuitole da Thomas  Nagel o John Rawls, per considerarla nei termini di pratica della tolleranza. Avvicinarsi ad  essa in quanto questione politica permette di osservarla non come valore in sé, ma alla luce  della cooperazione fra cittadini e della comprensione dei costi per l’uso del potere  coercitivo. Questi elementi rientrano nel campo delle virtù sociali.  

Bene, non molto. Il saggio di chiusura dell’opera lascia l’amaro in bocca: è il  sapore delle verità schiette, proprio quelle che, senza bisogno di una mongolfiera di parole,  toccano direttamente il cuore dei problemi. Williams si occupa qui dell’autoinganno della  politica (ma è anche l’autoinganno della filosofia?). Il filosofo parla di verità nei termini di  sincerità e precisione e della sua applicazione nel discorso politico. E rivolge l’attenzione,  da un lato, ai metodi per la trasmissione della verità in ambiti circoscritti; dall’altro, agli  ambiti che hanno importanza per la politica fra i quali il sistema di mercato o la gestione  delle informazioni da parte dei governi. Quel che importa notare è quanto vale la verità per  la politica. Williams ritiene che sia da parte dei cittadini sia da parte della politica ci si trovi  davanti all’autoinganno per il quale “c’è un tipo di congiura tra chi inganna e chi viene  ingannato” (p. 199). In altri termini, inganno e autoinganno si sostengono reciprocamente.  Dopotutto, l’inganno è per qualcuno che si lascia ingannare. 

Un’osservazione conclusiva. Le tematiche che strutturano In principio era l’azione sono in sintonia con la filosofia della chiarezza, il che non è una nozione abituale fra i  filosofi i quali “affermano che lo scopo dei loro sforzi è rendere più chiaro ciò che lo è  poco. Ma i filosofi possono rendere non chiaro ciò che lo è: possono fare in modo che le  verità semplici si dissolvano in casi difficili, i concetti sensati in definizioni complesse, e  via dicendo” (p. 79). Tuttavia, questa è una storia che forse solo Eraclito avrebbe potuto  raccontare. 

20/10/2007
Data
Autore

Non utilizziamo cookies di tracciamento degli utenti o di profilazione. Per saperne di più puoi visitare la pagina relativa ai cookies.