Il sovversivismo dell’immanenza. Diritto, morale, politica in Michael Walzer
Thomas Casadei (Giuffrè, Milano, 2012)
L’opera propone una riflessione analitica e d’insieme sulla produzione di Michael Walzer, studioso e intellettuale ebreo-americano, da tempo impegnato nel campo della riflessione politica, sociale e filosofico-morale.
L’elaborazione di Walzer rappresenta, indubbiamente, un modo per esaminare la funzione dell’intellettuale nell’era contemporanea, collocandosi sullo stesso livello di altre figure che non rigettano un impegno diretto nel dibattito pubblico anche su questioni molto controverse come, solo per fare qualche esempio, Jürgen Habermas e Zygmunt Bauman. Walzer coniuga, a questo proposito, un’accurata analisi storico intellettuale con la delineazione delle caratteristiche stesse che, a suo avviso, dovrebbe avere il critico sociale: in questo modo, la definizione della funzione e delle qualità del critico emerge, specie nel corso del quarto capitolo del volume, da un attento esame dei meriti – e dei demeriti – di alcuni dei più noti “intellettuali militanti” del XX secolo.
L’“intenzione politica” viene così efficacemente definita da Casadei, in una disamina storiografica e metodologica accurata, condotta nel primo capitolo, che precede la trattazione dei vari «approdi degli itinerari di ricerca walzeriani». «Appartenenza, tolleranza, cittadinanza, eguaglianza, autonomia, società giusta, costituiscono», egli evidenzia, «i nuclei concettuali che nella teorizzazione di Walzer si intrecciano in maniera articolata e complessa, e questo offre – entro una visione ‘comprensiva’ della sua opera […] – la possibilità di analizzarli nelle loro strette relazioni» (p. 647).
In questo senso, l’indagine sviluppata è saldamente inserita in un approccio non relegato al solo ambito filologico, ma deciso a “misurarsi” criticamente con le tensioni del vivere associato e della politica, con questioni e concetti «costitutivamente controversi» (p. 1). L’opera di Walzer configura, indubbiamente, un vettore originale – come rileva bene Casadei – per l’«indagine di alcuni tornanti decisivi del dibattito contemporaneo» (p. 8): dalla disobbedienza civile e dall’obbligo giuridico, alle modalità del cambiamento politico, al ruolo dell’intellettuale (e della critica) nella società, a quello dell’eguaglianza e della giustizia distributiva, della cittadinanza, della convivenza tra gruppi e identità culturali diverse, della tolleranza, del relativismo e del pluralismo, della guerra (cfr. pp. 1-2). Un aspetto – quello della “complessità” della teorizzazione walzeriana – che Casadei evidenzia in diverse occasioni, sottolineando la centralità dello «sforzo pluralizzante» (p. 653) come un Leitmotiv dell’impegno intellettuale e della produzione scientifica di Walzer. Emerge così un’anatomia precisa della vastissima produzione di uno studioso decisamente eclettico.
Walzer viene annoverato tra gli esponenti di punta della corrente Left del pensiero politico contemporaneo – un’appartenenza che si origina sin dai primi anni Sessanta con l’esperienza di militanza attiva nella New Left americana (vedi soprattutto pp. 45-48); significativo, a questo riguardo, è il suo progetto, via via affinato e rielaborato, di far convergere le linee-guida del socialismo democratico e con i princìpi cardine del liberalismo, di combinare il ruolo centrale della comunità e con le istanze individuali (aspetti, questi, ampiamente trattati soprattutto nel corso del sesto capitolo del libro). Nella concezione walzeriana gli «argomenti devono marciare al passo con il mondo reale» (p. 2), la filosofia politica deve esser radicata nella cultura e nei topoi specifici della società, senza cadere in velleità astratte. Una militanza che Walzer ha costantemente alimentato mediante la cerchia del socialist journal «Dissent», entro la quale si genera «la peculiare propensione dell’autore statunitense a tenere strettamente intrecciate la riflessione teorica, intellettuale, da un lato, e l’impegno politico, la vera e propria «militanza», dall’altro»: con «Dissent», del resto, nasce l’attivismo politico di Walzer (cfr. pp. 41 e ss.).
La poderosa “lettura complessiva” dei testi walzeriani offertaci da Casadei, indaga in modo molto efficace – con il sostegno di un consistente e compatto corpus bibliografico – come Walzer prenda sul serio, anziché questioni astratte e meramente teoriche riconducibili alla politica, la «dimensione attiva e partecipata della politica» (p. 3). Una specificità che rimanda continuamente alla tensione fra “particolarismo” e “apertura universale” e che si trova paradigmaticamente incarnata dal profeta Amos, ma anche da altre figure, come Albert Camus, George Orwell, Ignazio Silone e John Dewey (cfr., in particolare, il terzo capitolo del libro). Si tratta di una prospettiva che muove da un “ragionare laico”, aperto a continue modifiche e revisioni, ad aggiustamenti e ridefinizioni, una visione sancita dalla convinzione che «la ragione dei migliori è temperata dal dubbio o forse dall’umiltà» (p. 4). In questo contesto, si muovono, in particolare, alcune delle elaborazioni più originali di Walzer: la teoria dell’“eguaglianza complessa” – che lega il concetto di “giustizia distributiva” a quello di “sfere di giustizia” e al “significato sociale dei beni” (profili esaminati nel corso del capitolo quinto del volume); la teoria della “guerra giusta” che ha suscitato, in varie occasioni, un ampio e articolatissimo dibattito negli ultimi decenni (dettagliatamente ricostruito nel corso del nono capitolo, a partire dalle tesi di Walzer); e, infine, l’idea di critica sociale “immanente” che trae le proprie “mediane critiche” dalla cultura condivisa di una comunità, ma che non rinuncia ad una singolare trattazione dell’universalismo inteso in senso “reiterato”.
Casadei – già autore di importanti contributi sulla tradizione democratico radicale (si veda, fra gli altri, Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine, 2012) – riconduce, correttamente, la riflessione di Walzer nello scenario del dibattito filosofico-politico e filosofico-giuridico, ma anche etico-pratico, a partire almeno dalla metà degli anni Sessanta dal Novecento fino alle «“nuove frontiere” della discussione dell’epoca globale» (p. 6). In questo percorso egli svolge un’accurata disamina dell’attenzione che Walzer pone, nelle sue opere, alla “concretezza” e ai “dettagli” dei contesti in cui, di volta in volta, sono collocate le diverse questioni: il tentativo, riuscito, è quello di proporre uno studio integrale e comprensivo dell’opera di Walzer, «non sottraendo l’analisi ad un faticoso e laborioso censimento delle sfumature del suo pensiero, cercando di mostrare e rivelare di questo le potenzialità ma anche le ambiguità, gli scarti, i limiti, nonché […] i cortocircuiti teorici e i rischi pratici» (p. 28), come avviene, emblematicamente, per la concezione walzeriana della guerra.
Quel che in conclusione scaturisce dalla lettura del libro è l’interessante prospettiva nella quale si colloca il “pluralismo delle differenze” come sfida ricorrente. In un periodo in cui la democrazia si pone al centro del dibattito politico per le prassi di “de-democratizzazione” e di aumento profondo delle diseguaglianze, proprio un tratto cruciale della visione politica di Walzer, quello della “fragilità” della democrazia stessa, risulta particolarmente significativo così come l’intima convinzione che muove il critico sociale ebreo-americano: la coesione e l’integrazione – in estrema sintesi – non possono dipendere dall’imporre un’unità, ma discendono piuttosto dall’articolarsi delle differenze all’interno delle comunità, che siano queste locali, nazionali, sovranazionali (aspetti questi diffusamente studiati nel settimo e nell’ottavo capitolo del volume). La tutela delle differenze garantisce una forma di identità: un concetto, questo, icasticamente riassunto dall’immagine di una sorta di “prisma”, di un “gioco di pluralismi” che ci restituisce Casadei; uno spazio in cui può innestarsi quell’argomentazione “radicale”, a cui Walzer in tantissime occasioni si richiama, che colloca l’impegno politico alla sua scaturigine. Vale a dire, l’annosa questione del rapporto – l’intima e problematica tensione – fra politica e morale, ossia quello che può rappresentarsi come un vero e proprio dilemma, quel «dilemma delle mani sporche», stante il quale «nessuno ha successo in politica senza sporcarsi le mani» (come si evince nel corso del secondo capitolo dell’opera). Un tema più che mai attuale, che dopo avere percorso – nel corso del Novecento – le discussioni e le modalità di engagement degli intellettuali in rapporto non solo all’azione politica soggettiva, ma anche a quella della propria comunità e nazione di appartenenza, ripropone la questione se possa esistere, oggi, una specifica funzione per l’«intellettuale militante». Un ruolo che Walzer – come diversi altri intellettuali nella storia – ha individuato nel ruolo insostituibile della discussione pubblica e dell’educazione come strumenti essenziali «per vincere la grande scommessa della democrazia» (p. 384), nonché per animare, in maniera continuativa e reiterata (come si mostra nel corso del capitolo terzo del libro), l’ideale del cambiamento politico.