Il problema dell’autonomia di fronte alle scelte bioetiche. Tra morale, diritto e politica

M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa e A. Scerbo (Giappichelli, Torino 2007) e M. Lalatta Costerbosa, (Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007)

Tra i problemi maggiormente dibattuti in ambito bioetico oggi figura quello della concreta  realizzazione degli ideali contenuti nelle Costituzioni, tra cui l’autonomia individuale, la libertà di  scelta, la dignità degli esseri umani. Le laceranti questioni dell’eutanasia o dell’aborto, ad  esempio, hanno a che fare con tutti questi problemi, dal momento che in esse più che mai si  sente il bisogno di mediare tra una visione incentrata sull’individuo e una tendente a preferire la  salvaguardia di altri valori. 

Vita, sacralità della vita, inviolabilità della vita sono i principi di fondo con i quali si misura ogni  tentativo di legittimazione o di delegittimazione di tali pratiche, le quali, quantunque riguardino  essenzialmente gli individui coinvolti, chiamano in causa tutti, poiché rimandano a categorie che  universalmente spingono alla riflessione. Non si tratta soltanto dei bisogni, degli interessi o delle  preferenze individuali, ma di qualcosa di più vasto e generale, che condiziona la coscienza di  ognuno. E benché le Costituzioni degli Stati siano fondate sulla dottrina dei diritti soggettivi,  nelle questioni riguardanti la vita o la perdita della vita è difficile, se non impossibile, difendere  una tale concezione in maniera unilaterale. Anzi, non c’è autonomia se non ideale in tali  questioni, le quali a pieno titolo possono essere definite come “politiche”. Ma d’altra parte,  bisogna guardarsi bene dall’anteporre il solo interesse della società al benessere individuale,  poiché in questa sfera più che in ogni altra ciascuno ha bisogno di non sentire l’oppressione da  parte di terzi, trattandosi di un ambito nel quale come regola generale dovrebbe valere la libertà  di coscienza o di pensiero, nonché di scelta. Sono quelli che Ronald Dworkin chiama ideali di  moralità politica, facenti capo all’individuo singolo sì, ma nello stesso tempo strumenti per  garantire una convivenza pacifica a livello sociale. È questa, del resto, la finalità ultima che il  diritto viene ad assumere nel liberalismo moderno. 

Si pone dunque l’esigenza di mediare tra opposte visioni, di modo che le convinzioni più profonde  di ognuno vengano rispettate, le diverse sensibilità non offese, la dignità individuale non  calpestata. Occorre, in altre parole, molta cautela, poiché le questioni che affrontiamo sono  autentici «dilemmi morali». Qui non si tratta di respingere i valori come non veri o insondabili,  si tratta piuttosto di rispettare qualsivoglia visione della vita e dell’uomo, di collocarsi nel solco  di quella che con Giovanni Fornero potremmo definire una «laicità in senso debole», ispirata dai  criteri dell’autonomia e della tolleranza. Solo in questo modo sarà possibile pervenire ad un  accordo sulle questioni della massima importanza sociale: anzi proprio tali questioni reclamano  soluzioni che aspirino ad un certo grado di universalizzabilità e di coerenza. In altri termini,  occorre collocarsi in una prospettiva antiscettica e vedere nella pluralità delle tesi, nella  controversia e nel dubbio non già un ostacolo, bensì una risorsa da avvalorare. Ciò comporta del  pari l’abbandono di quelle visioni sostanzialistiche del bene, le quali per loro natura escludono la  possibilità che attraverso l’argomentazione si costituiscano delle prove a sostegno delle proprie  tesi.

Ciò non toglie che per alcuni vi sono valori, come quello della vita umana, che sono tutto il  contrario di una determinazione soggettiva. È stato sempre Dworkin a metterne in evidenza il  valore intrinseco, vale a dire «indipendente da quello che alle persone capita di apprezzare,  desiderare o avere bisogno, o da ciò che è bene per loro». Tale valore deriva dalla nostra  percezione di “esserci” ed è ciò che fa della vita qualcosa la cui perdita è vissuta sempre come  un dramma degli esseri umani. Ma in questo caso, l’assoluto o l’incondizionato, lungi dall’essere  un motivo di paralisi, si presenta come un fattore di forza all’interno dei dibattiti, capace di  fungere da collante tra le opposte posizioni. Le controversie nascono allorché si passa  dall’astratto al concreto, allorché si tenta di caricare questo valore di contenuti particolari,  ricavati dall’esistenza. E così, seguendo sempre Dworkin, si potrebbe dire che da un lato vi è chi  privilegia il suo significato biografico ed esistenziale dall’altro c’è chi insiste su quello biologico  nonché ontologico. Nel primo senso il valore della vita non si presenta mai da solo, ma è  associato a contesti, condizioni, trame di relazioni intersoggettive. Più specificamente esso è  associato ad un altro valore relativo. Si parla infatti non tanto di vita (il che farebbe pensare in  questi casi all’esistenza di un diritto alla vita) quanto di “dignità della vita umana”, intendendo  con ciò la vita buona, il vivere bene, cioè qualcosa che va al di là del mero dato dell’esistere,  qualcosa per cui diciamo che essa merita di essere vissuta. Ma la dignità è essa stessa un  assoluto. Essendo stata estesa a tutti gli esseri umani dai Padri della Chiesa, ancora oggi i  credenti ritengono che essa sia un attributo di tutti, indipendentemente dal fatto che gli individui  abbiano o meno una vita morale o di coscienza, ed indipendentemente dalla qualità delle loro  condizioni di vita. In questa prospettiva embrioni, feti, infanti, persone in coma irreversibile, con  disabilità, dementi hanno dignità. 

A voler dunque esasperare la dicotomia, si potrebbe dire che da un lato vi sono quelli che la  intendono in maniera individualistica, connettendola alle capacità e alle prestazioni, e coloro che  invece ritengono che essa sia una dote di tutti gli esseri umani. I rischi insiti in entrambe le  posizioni sono evidenti. Abbracciando infatti la prima si finisce per negare tutela agli individui  più deboli, quelli che non sono in grado di autodeterminarsi. Viceversa, la soluzione offerta dai  secondi presenta il rischio di connettere troppo strettamente la dignità al diritto alla vita.  Anche qui occorre dunque un tentativo di mediazione tra le opposte posizioni. Anziché limitarci  a dire che la dignità è una dote di tutti, cosa in linea di principio vera, sarebbe perciò preferibile  interrogarsi sulla “qualità” di certe condizioni di vita e prendere atto che vi sono delle vite che  degne non sono. In altre termini, si tratta di rendere concreta e operante quella dignità che si  vorrebbe di tutti. Ciò dovrebbe indurre a riconoscere che vi sono circostanze che spingono a  favore di pratiche che comportano la perdita della vita, l’eutanasia e l’aborto, considerate  inizialmente. Nel primo caso si tratta di situazioni terminali o di situazioni in cui non vi è alcuna  possibilità di un ritorno ad una vita normale (si pensi alle malattie degenerative gravemente  invalidanti o allo stato vegetativo permanente). L’aborto invece potrebbe apparire legittimo  quando si tratta di salvare la vita della madre, o nel caso dello stupro, o in quello dei feti  deformati e dei bambini destinati ad una grave indigenza. 

Nelle questioni di cui ci occupiamo dobbiamo immaginare uno stato che, attraverso la scienza,  ha il potere di vita sugli individui, situazioni in cui la morte diventa problematica, qualcosa da  allontanare, quantunque spesso ci imbattiamo in condizioni di vita intollerabili dal punto di vista  dei soggetti coinvolti. Questioni morali si fanno pertanto politiche. Vi è, come dicevamo,  un’autonomia che di fatto è eteronomia, vi è una sacralità riferita alla vita che la trasforma in un  bene collettivo e indisponibile, vi sono degli interessi dei pazienti che la comunità è chiamata a  soddisfare. 

A tal proposito, vorrei qui riferirmi a due opere di carattere bioetico-politico, uscite di recente,  le quali in comune hanno proprio la tendenza a contrastare visioni incentrate sul “bene comune”:  Questioni di vita o morte. Etica pratica, Bioetica e Filosofia del Diritto, a cura di Massimo La  Torre, Marina Lalatta Costerbosa e Alberto Scerbo e Il diritto come ragionamento morale.  Saggio sul giusnaturalismo contemporaneo e le sue applicazioni bioetiche di Marina Lalatta  Costerbosa. Ciò che viene contestato qui dagli autori è soprattutto il paternalismo, il suo  appiattimento dell’interesse dell’individuo singolo sulla visione del bene predominante all’interno  della società. Si tratta della tensione evidenziata dai filosofi analitici della scuola di Sheffield,  Deryck Beyleveld e Roger Brownsword tra dignità as empowerment e dignità as constraint (in Human dignity in Bioethics and Biolaw, Oxford University Press, Oxford, 2001). «Nel primo  significato la dignità umana conduce alla difesa dell’autonomia individuale e diventa il  fondamento dei diritti umani […] Nel secondo significato invece la dignità umana porta all’individuazione del criterio di limitazione della libera scelta degli individui. Si è di fronte alla  giustificazione di un bene comune che limita l’autonomia individuale alla difesa dei valori  sociali». Si tratta di due posizioni apparentemente inconciliabili. Da ciò la domanda presente  in entrambe le opere di un responsabile tentativo di giustificazione degli argomenti che si  utilizzano a favore o contro il riconoscimento di un diritto. 

Immaginiamo che tutte le norme e le scelte compiute in ambito giuridico fossero precedute da  una discussione intorno ai valori. Tali norme acquisterebbero un valore etico oltre che un  significato politico, si perverrebbe in altri termini ad un concetto «normativo» di diritto. Questo  è, ad esempio, l’ideale che percorre Il diritto come ragionamento morale. Per l’autrice è molto  importante che gli argomenti che si utilizzano siano in certa misura universalizzabili, e tuttavia  ella non considera i diritti umani come principi moralmente presupposti, quanto piuttosto come  ‘buone ragioni per agire’, la cui validità «dipende in parte, seppur non strutturalmente, dalla  comunità, dal tempo, dal luogo». 

Da ciò scaturisce, di conseguenza, l’esigenza di un’attenzione maggiore per le sfumature, per gli  interessi particolari e, di volta in volta, rilevanti dei soggetti che si trovano a vivere situazioni  drammatiche. La questione centrale qui è quella se sia lecito o meno disporre, nel senso più  generale del termine, della vita umana. Prendiamo il caso dell’aborto, così come analizzato da  Cristina García Pascual in Questioni di vita o morte. Certamente esiste un dovere morale, oltre  che giuridico, di proteggere ogni embrione o feto, in quanto «promessa di vita umana».  D’altra parte però, tale dovere incontra un limite serio nell’autonomia delle donne e nella loro  facoltà di scelta. Si tratta di un equilibrio difficile che il diritto dovrebbe costruire, ma sappiamo  anche ad oggi la legislazione vigente in molti paesi contiene solo una serie di proibizioni che lo  fanno apparire come una pratica assolutamente immorale, sottoponendo la donna ad una trafila  burocratica a dir poco umiliante, attraverso cui se ne costituisce la giustificazione, facendo leva  sulla sua angoscia, sul suo squilibrio, sul suo stato di radicale necessità. Più precisamente,  l’aborto è autorizzato solo in considerazione della condizione socio-economica della madre, o  della sua salute fisica e mentale nonché delle circostanze che hanno portato alla gravidanza. E  così, ancora una volta, si ribadisce il divieto di disporre della vita umana anche laddove il diritto  si mostra accondiscendente alla soppressione di un embrione o di un feto. Non che le motivazioni  non siano importanti in questi casi, al contrario nessuna legge può costruirsi senza il riferimento  ad esse, ma d’altra parte non si può tacere completamente sul diritto alla libera scelta della  donna, sul suo statuto di persona responsabile, capace di compiere scelte che hanno per oggetto  la vita. 

Analoghe considerazioni sull’autonomia individuale possono essere fatte valere se ci spostiamo  al polo opposto del segmento della vita e ci riferiamo alla questione dell’eutanasia. A differenza  di pratiche come la tortura o la pena di morte, per le quali in linea di principio non sorge  confusione sulla loro esecrabilità, dal momento che c’è una vittima, vale a dire una persona  contro la cui volontà tali pratiche sono poste in essere, e dal momento che la funzione del boia  o del carnefice è soltanto strumentale al loro compimento, con l’eutanasia sorge tensione poiché,  se ci poniamo dal punto di vista del paziente, essa può in talune circostanze apparire anche  giusta e doverosa. Ma il vero problema, tanto etico quanto giuridico, deriva dal porsi nei panni  di colui che dovrebbe fornire l’aiuto a morire. Molti di noi sono favorevoli all’uccisione pietosa,  ma quanti ucciderebbero per pietà? Questa è una domanda a cui soltanto le circostanze possono  dare una risposta. Ad ogni modo, data la presenza di una morale religiosa, quella cattolica, e  dato l’approccio penalistico che il diritto ha di fronte a una questione così delicata, processare le  intenzioni di chi aiuta a morire sembra essere più importante dell’interrogare i bisogni del  morente. 

Come rilevato da Francisco Javier Ansuategui Roig, il problema qui è morale prima ancora che  giuridico. Si tratta infatti di fornire una giustificazione a determinate richieste nonché alle  risposte a tali richieste in determinate circostanze. Si tratta, come accennato, di situazioni  terminali o di situazioni in cui un soggetto si trova come in un limbo, sospeso tra la vita e la morte: la morte non è imminente e tuttavia non vi è possibilità alcuna di un ritorno ad una vita  normale. Ora, è evidente che le circostanze a cui facciamo riferimento di per se stesse non  forniscono una giustificazione alle condotte eutanasiche. Non stiamo infatti dicendo che  l’eutanasia dovrebbe applicarsi a tutti i malati terminali, piuttosto che a tutti i malati di sclerosi  laterale. Occorre altresì che vi sia un desiderio o una volontà di morire nonché di fornire l’aiuto  a morire, occorre in altri termini che le persone coinvolte, in autonomia, giudichino l’atto in sé  come un bene. Quanto a colui che desidera morire, il suo giudizio deve basarsi su una valutazione  delle proprie condizioni di vita attuali, egli deve giungere alla conclusione che vivere sia per lui  più un male che un bene, ai suoi occhi la sua vita dovrà caratterizzarsi per una «irreversibile  assenza di dignità». Ciò avviene perché, come abbiamo detto, accanto all’idea oggettiva, di  matrice cristiana, della dignità, ve n’è un’altra, la quale si configura come una determinazione  soggettiva, fatta sulla base di criteri scelti personalmente e non imposti da terzi. Parallelamente,  lo stesso giudizio dovrà essere formulato dal medico affinché egli non solo consenta, ma, come  detto, desideri fornire l’aiuto a morire. 

E dunque, qual è l’argomento più valido quando si tenta di legittimare le condotte eutanasiche?  In verità, la risposta è già presente nel discorso che abbiamo fatto sin qui, ma cerchiamo di  chiarire meglio i termini della questione. Sempre Ansuategui sottolinea, a questo punto, come  al vertice della scala dei valori che devono ispirare ogni ordinamento giuridico democratico vi sia  la dignità, quale elemento distintivo dell’essere umano, del quale l’autonomia è un’esigenza  imprescindibile, il nucleo irriducibile del suo significato. Riconoscere in alcuni casi e in  determinate circostanze un diritto a morire significa dunque non soltanto rispettare l’autonomia,  ma anche la dignità di un individuo che soffre. Ora, secondo l’autore, al sistema dei diritti è  demandato il compito di realizzare compiutamente tali valori, i diritti sono dunque strumentali  rispetto ad essi, nel senso che prendere sul serio i valori comporta la messa a punto di un sistema  di diritti. E d’altra parte, tanto il contenuto dei diritti quanto quello dei valori non può essere  fissato una volta per tutte. I valori, in particolare, devono essere oggetto di una riflessione  morale e razionale continua, capace di fornire giustificazioni ricavate dall’esperienza e dunque  suscettibili di prova. Perché l’etica è qui concepita essenzialmente come una “creazione  umana” alla quale il diritto è chiamato a conformarsi. Così come il fine della riflessione  morale deve essere quello di armonizzare tra loro le differenti concezioni particolari, allo stesso  modo il fine del diritto deve essere quello di impedire i conflitti e di risolverli. 

Quelle a cui abbiamo fatto riferimento sono questioni di enorme importanza sociale, alle quali il diritto deve, per quanto gli è concesso, dare una risposta. È evidente che una norma soltanto  repressiva o punitiva, oltre a mal adattarsi alle questioni di inizio e fine vita, viola l’autonomia  dei soggetti coinvolti. Nel caso dell’eutanasia volontaria ancor più che in quello dell’aborto è  evidente che non si può parlare di assassinio o di omicidio, dal momento che c’è un desiderio di  morire. È evidente inoltre che qualsiasi soluzione il diritto troverà per dirimere tali questioni sarà  sempre parziale, se è vero che qui ci muoviamo nella sfera del sacro. Ma è altrettanto evidente  che nessuna decisione collettiva che non tenga conto degli interessi e dei bisogni reali dei  soggetti coinvolti sarà mai giusta, e anzi apparirà come una forma di tirannia odiosa e distruttiva  della personalità. Ora, l’esperienza, negli Stati Uniti e in Europa, ha mostrato che i cosiddetti  “casi difficili” in materia di eutanasia hanno avuto quasi sempre una risposta di tipo giudiziario,  che le leggi vigenti nei paesi democratici sono state per lo più disattese o messe in discussione  nell’ambito dei procedimenti, e che il lavoro delle corti si è basato essenzialmente sulla  dottrina dei diritti soggettivi, quasi a significare che in questo ambito i problemi non possono  essere risolti a colpi di maggioranza: la maggioranza, per quanto mossa da buone intenzioni, è  pur sempre orientata alla difesa di specifici valori sociali. 

Prima di trarre delle conclusioni da quanto abbiamo appena affermato, vorrei però considerare  una situazione per così dire “ideale”, una situazione nella quale il diritto dà una risposta, e non  una risposta parziale del tipo che abbiamo messo in luce, ma una risposta soddisfacente, che va  incontro alle aspettative individuali. 

Dobbiamo immaginare una situazione in cui morale, diritto e politica “comunicano”. Il diritto  come ragionamento morale percorre proprio questa via e, rifacendosi alla prospettiva tracciata  da Habermas in Faktizität und Geltung (1992), offre un concetto di diritto non subordinato alla morale, e nemmeno subordinato all’interpretazione che ne danno i giudici nelle corti, bensì  collegato con la sovranità popolare e basato sull’autonomia del giudizio morale. Si tratta di dare  avvio a discussioni pubbliche sulle buone e sulle cattive leggi, che coinvolgano non solo giuristi  e filosofi, ma in certa misura tutti gli interessati. Com’è noto, Habermas sposa un concetto  normativo di democrazia deliberativa. Nel suo caso la democrazia non è soltanto applicazione  dei diritti umani, ma è altresì riconoscimento e giustificazione di essi: sono i cittadini stessi a  decidere delle regole della loro convivenza. Ciò è reso possibile dalla sostituzione da lui operata  della ragion pratica, potremmo dire pre-politica, con la ‘ragione comunicativa’, in virtù della  quale nella procedura dell’autolegislazione si manifesta non soltanto l’autonomia pubblica, la  legalità, ma anche l’autonomia individuale di ognuno. La ragione comunicativa, questa sorta di  morale intersoggettiva, fa sì che le opinioni individuali possano essere mutate fino alla  formazione dell’«opinione orientata alla verità», della quale si parla nelle Tanner Lectures. Per  questa via il principio di maggioranza diventa «legittimo», permettendo al tempo stesso la  costituzione dell’ordinamento dal basso. In altri termini, il fattore decisivo qui è costituito dalla  possibilità che la comunicazione sia di per se stessa momento razionale, che vi sia appunto una  ‘ragione’ comunicativa, la quale favorisca la creazione di norme connotate moralmente. Dunque  la procedura democratica non sfocia in semplici accordi, ma in accordi che potremmo qualificare  come “buoni”. È evidente, come rileva Marina Lalatta, che l’obiettivo dell’autore è quello di  «ridurre la centralità dell’istituzione statuale». Egli pensa sostanzialmente che la società possa  autoregolarsi, che i diritti non debbano essere una concessione o una promessa dello Stato. Anzi  in questo procedimento governanti e governati si identificano. 

Democrazia «procedurale» dunque (e, si potrebbe aggiungere, «radicale»), ma nello stesso  tempo fiducia nell’argomentazione razionale, nella capacità che essa ha non soltanto di mediare  tra interessi contrastanti, ma anche di creare «una opinione e una volontà» che portino  all’istituzionalizzazione dei diritti. È un modo politico di fondarli, di dotarli cioè di una  giustificazione, un modo che fa leva sul potere della parola e che non ha alcuna pretesa di  assolutezza. In Habermas la ragione comunicativa è ciò che rende possibile il superamento della  dicotomia tra fatti e norme, vale a dire tra realtà e ragione. Come egli spiega, si è soliti pensare  alla ragione come ad una facoltà autonoma rispetto al mondo dei fatti sociali e per lo più  associata a dei concetti “limite”, potremmo dire assolutizzanti, indipendenti cioè dal tempo, dal  luogo e dalla prassi sociale. La ragione comunicativa invece è una ragione “incarnata” in tali  fatti, e ciò, se pure non incide sui suoi presupposti, ha tuttavia delle conseguenze rilevanti dal  punto di vista del contenuto e delle modalità attraverso cui essa si esprime. Nella prospettiva  della teoria del discorso, i valori possono essere discussi e problematizzati, non occorre assumerli  come validi in modo incondizionato. 

Questa è, dunque, la situazione ideale. Se non ci si può aspettare molto dalla procedura della  legislazione democratica, non resta che fidarsi del ruolo creativo dei giudici: al pessimismo  legislativo contrapponiamo l’ottimismo giudiziario, lo stesso che caratterizza, ad esempio, l’opera  di Dworkin. Il suo è stato opportunamente definito un «giusnaturalismo sui generis», poiché,  data l’importanza che egli attribuisce al momento interpretativo del diritto, il «principio  dell’uguale considerazione e rispetto», che è alla base già di Taking Rights Seriously, lungi dal  comportare l’adesione a un fondamento stabile, fa sì che il diritto si configuri come qualcosa di  aperto, di dialogico, sensibile alle richieste che provengono dal corpo sociale. Ciò è  particolarmente evidente nei «casi difficili» e dà conto del carattere “relativistico” del suo  giusnaturalismo. Il diritto all’uguale considerazione e rispetto tuttavia può realizzarsi per  Dworkin soltanto in uno Stato democratico-costituzionale, fondato sui principi della  «partecipazione», della «reciprocità tra governanti e cittadini» e dell’«indipendenza rispetto alla  sfera privata e alle convinzioni personali e politiche». 

In questa prospettiva la morale, lungi dall’essere un fatto privato, qualcosa che si manifesta in  modo assolutamente individuale nell’attività del legislatore o in quella del giudice che deve  applicare la legge, è connessa in maniera inestricabile al diritto e alla politica. In altri termini,  ciò che si propone qui è una connessione tra diritti umani e democrazia, l’idea che la democrazia  costituzionale, essendo espressione della ‘ragione pubblica’, possa costituire un terreno fertile  per una loro definizione, specificazione ed evoluzione continue. L’articolo 2 della  Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 stabilisce che il benessere della persona umana deve prevalere sul solo interesse della società o della scienza. Pertanto, l’unica  risposta convincente che il diritto può offrire di fronte ai problemi di natura bioetica sembra  essere quella che si fonda sulla reinterpretazione dei valori costituzionali alla luce delle condizioni  di vita attuali, primo tra tutti la libertà di coscienza, o se preferiamo la libertà di religione.

30/10/2009
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