Il linguaggio politico della transizione. Tra populismo e anticultura

Lorella Cedroni (Armando Editore, Roma, 2010)

Con questo libro l’Autrice introduce un nuovo tipo di analisi del linguaggio politico, la  politolinguistica, un campo di intersezione tra diversi approcci e prospettive: filosofico-politica, linguistica,  storico-politologica, sociologica e psicologica. Il termine “politolinguistica” è stato coniato nel 1996 da A.  Burkhardt e recentemente ripreso dalla “Scuola di Vienna”; in particolare, da Martin Reisigl il quale ha  integrato la prospettiva della linguistica generale e della Critical Discourse Analysis con quella politologica. 

In maniera più specifica il metodo utilizzato da Lorella Cedroni si rifa ai canoni espressi dalla  “politolinguistica critica”, un nuovo approccio di ricerca che utilizza strumenti di analisi politologica e  linguistica insieme, per studiare i fenomeni politici e sociali attraverso il linguaggio scritto e parlato dei  politici e non solo, ma anche di quegli attori pertinenti dal punto di vista della comunicazione politica, in  ambito culturale, economico e mediatico. 

Il background della politolinguistica è, da un lato, la pragmatica linguistica, la sociolinguistica, la  linguistica testuale e la semiotica e, dall’altro, la politologia che rinvia alle tre categorie della scienza politica  (“polity”, “policy” and “politics”). Questi termini – che non hanno un equivalente italiano – indicano tre  diverse dimensioni della politica, rispettivamente: la politics, la sfera del potere, inteso come capacità di  influire sulle decisioni prese dagli individui; la polity, che si riferisce alla definizione dell’identità e dei  confini della comunità politica organizzata; la policy concerne invece i programmi d’azione e i processi  decisionali, ossia l’insieme di leggi, provvedimenti, politiche pubbliche attuate per gestire la res publica

L’Autrice ritiene che la trasformazione del linguaggio politico, negli ultimi venti anni, abbia modificato  queste tre dimensioni della politica. Il contesto di riferimento è l’Italia, nel lungo processo di transizione  ancora in atto. Il primo mutamento è quello che Cedroni definisce la “metamorfosi della politics”, in cui  considera la trasformazione, formale, della dimensione processuale della politica. Tale trasformazione riflette  in maniera inequivocabile un mutamento di prospettiva e di rilevanza rispetto alla funzione della  progettualità politica e dunque della politics. L’Autrice definisce questo nuovo tipo di linguaggio il  linguaggio “della transizione”, che sviluppa moduli linguistici e formule di opinione improntate al  “nuovismo”. Il linguaggio della transizione è il linguaggio della crisi, della inesorabile cesura tra un “prima”  e un “dopo”, tra un “ante” e un “post”; contrassegnato da una permanente “sospensione” tra ciò che è stato e  ciò che invece sarà, o non sarà mai, è il linguaggio “populistico” della democrazia plebiscitaria che fa  appello al popolo sovrano e al rapporto diretto tra leaders ed elettori. 

Questo tipo di linguaggio ha determinato un mutamento della “forma” politica, attraverso il lessico del “nuovismo”, ossia di un lessico che non si serve di parole nuove, piuttosto preferisce rovesciare il senso delle  parole vecchie; un lessico enantiosemico, per cui quando si dice una parola si deve intendere il suo contrario,  come nel caso del “federalismo” che nel linguaggio leghista è servito ad indicare l’idea di separazione, di  “secessione”, non di unione. Quando il mutamento del significato delle parole è indotto, allora ci troviamo in  un quadro concettuale-politico diverso, in cui dobbiamo ridefinire tutta una galassia di significati. E’ un po’  quello che avviene in 1984 di Orwell, nella ridefinizione di un lessico politico che, in quel caso, riflette una  mutazione irreversibile della natura della politica. 

Il secondo fenomeno è quello che Cedroni definisce “catarsi della polity”, un effetto dovuto al  carattere performativo del nuovo codice linguistico adottato. Il linguaggio politico diventa il veicolo, il  vettore di una catarsi della polity, nel senso in cui parlano Mény e Surel riferendosi al populismo: uno sfogo  che preannuncerebbe un nuovo equilibrio politico-istituzionale. Qui, naturalmente, l’attenzione va posta sulle  nuove formule di opinione utilizzate dai leaders politici e accreditate nel discorso “populista”, isolandole  come variabili ricorrenti (ad esempio, l’anticentralismo per quanto riguarda la Lega Nord e l’anticomunismo per quanto concerne Forza Italia). I due tipi di linguaggio possono essere definiti “populisti”, sia per  l’avversione esplicita nei confronti dei canali tradizionali della rappresentanza, la cui destrutturazione e  trasformazione ha aperto la strada a nuove forme di mobilitazione sociale e di difesa degli interessi, sia per  l’appello reiterato al popolo sovrano, che sovrano non è più, evidentemente.  

Il terzo momento è costituito da quello che l’Autrice definisce “neutralizzazione della policy”, ossia  l’impossibilità da parte dei politici di tradurre le issues politiche e sociali in coerenti formule politiche, in  progetti politici, per cui il linguaggio populista finisce per esprimere la non traducibilità di queste issues, la  non formulabilità di una concreta politica (policy) di governo nell’interesse generale del paese. Perché, se queste issues si traducessero, assumerebbero la forma di stridenti e forse insuperabili conflitti sociali o, nella  peggiore delle ipotesi, della lotta civile. 

Accanto al linguaggio politico populista prevale poi il “linguaggio del’anticultura”, che minimizza o  addirittura tende ad esautorare il ruolo della cultura nei processi di legittimazione democratica. L’Autrice si  interroga sul ruolo della cultura oggi, riprendendo la nota formula della “politica della cultura”, coniata oltre  cinquant’anni fa da Bobbio e Campagnolo. Alla cultura spetta il compito di restituire alla politica la sua  dimensione prospettica ed etica, senza la quale essa resta vittima del presente, della precarietà e della  assoluta contingenza. 

25/06/2010
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