I diritti dei popoli. Universalismo e differenze culturali
L. Baccelli (Laterza, Roma-Bari, 2009)
L’opera, il cui titolo, come lo stesso autore segnala, «è una evidente parafrasi di The Law of Peoples» (p. XIII) di John Rawls, si concentra sulla nozione di diritti umani e sul carattere di universalità spesso loro attribuito. Punto di partenza della riflessione è la «radicale ambivalenza» di una categoria da una parte sicuramente appealing, in quanto cardine concettuale di una storia di emancipazione e liberazione, ma dall’altra da sempre componente di un’ideologia intrisa di una pretesa superiorità culturale occidentale, paternalista e volta alla legittimazione dell’imperialismo. Tre sono gli snodi principali dell’opera: la ricostruzione della genesi del concetto di diritti umani, la sua collocazione nel panorama filosofico politico attuale e una proposta di ri-fondazione del concetto stesso, anche sulla base di alcune esperienze pratiche.
Baccelli fa luce sul carattere originario dell’ambivalenza sopra accennata, individuando, come primo momento di sintesi tra nozione soggettivistica dei diritti, «universalismo dei titolari» e «universalismo dei fondamenti» (cfr. pp. 8-12), il dibattito sulla conquista spagnola dell’America, «probabile atto di nascita dei diritti umani universali […] [ed] esperienza storica nella quale la riflessione sul drammatico confronto tra differenti culture produce nuovi modelli teorici» (p. 37). Tale dibattito fu inaugurato da cinque bolle di papa Alessandro VI, nelle quali si esprimeva la necessità di sottomettere i «barbari» (questa era la categoria concettuale più «a portata di mano» per gli Europei) e ricondurli alla fede. Baccelli ne isola tre voci.
La prima è quella del teologo spagnolo Francisco de Vitoria (1483-1546), che introduce a giustificazione della conquista titoli radicalmente nuovi, fondati su una concezione universalistica dei diritti soggettivi. Vitoria delinea un rapporto circolare tra ius, iniuria e bellum iustum: esistono una serie di iura, di diritti soggettivi naturali (universali) – viaggiare, abitare, commerciare, predicare il Vangelo –, il cui mancato riconoscimento da parte di qualche popolazione – in questo caso i nativi americani –, costituendo iniuria, è di conseguenza giusta causa di guerra. A questi diritti, che de Vitoria riferisce invero agli Spagnoli, se ne aggiunge uno, attribuito invece espressamente agli indigeni: il diritto a non essere uccisi per sacrifici rituali o antropofagia. È una iniuria, una negazione del diritto naturale e universale alla vita, la cui difesa rappresenta ancora una volta una iusta causa belli per i colonizzatori.
Un altro teologo spagnolo, Juan Gines de Sepùlveda (1490-1573), argomenta invece a favore dell’assoggettamento degli indigeni utilizzando una nozione di humanitas insieme universalista e discriminatoria. La guerra ai barbari del nuovo mondo è condotta secondo la legge di natura: Sepùlveda vede nella conquista una guerra umanitaria, che reca grande utilità agli homunculi vinti, poiché saranno redenti e apprenderanno dai cristiani la civiltà, mentre le risorse di cui abbonda il loro territorio saranno sottratte all’abuso e all’improduttività.
Antagonista concettuale di Sepùlveda è Bartolomé de Las Casas (1484 – 1566), che elabora secondo Baccelli una prospettiva originale e diametralmente opposta alle considerazioni di Vitoria e Sepulveda. Il punto di partenza di Las Casas è l’originaria uguale libertà di tutti gli esseri umani, fondata sulla loro comune razionalità. Il nesso ius/iniuria/bellum iustum delineato da Vitoria è mantenuto, ma la prospettiva è ribaltata: sono i nativi a detenere la iusta causa belli. Emerge così un «universalismo virtuoso» (p. 45): i nativi possono essere convinti ad abbracciare la fede cristiana come tutti gli altri popoli. Anche il nativo è zoòn politikon, commercia, ha sviluppato istituzioni politiche e contratti privati. Las Casas decostruisce la teoria di Sepulveda sulla schiavitù naturale dei nativi (e sulla superiore umanità dei conquistatori), riducendo il concetto di barbaro proprie e non ex accidenti a una categoria residuale di «mostri»: solo l’esiguo numero di componenti di questa categoria deve essere governato dai «più sapienti».
Con la definitiva affermazione della sovranità degli Stati e la conseguente possibilità per ogni Stato di ricorrere alla guerra, la teoria della guerra giusta si rivela anacronistica, e nel contesto europeo, a differenza di quanto continuerà ad accadere per le imprese coloniali, non ha senso invocare la tutela dei diritti umani. Con la Carta delle Nazioni Unite del 1948, poi, si delinea un nuovo modello giuridico che sancisce l’illegittimità della guerra, la criminalizzazione dell’aggressione e l’illiceità della stessa minaccia: come scrive Bobbio, «la guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l’antitesi del diritto» (p. 54). Nonostante ciò, nell’ultimo ventennio si è assistito ad un ritorno nel dibattito pubblico della categoria della guerra giusta: occasioni di dibattito sono stati in particolare la Guerra del Golfo del 1991 (ambiguamente autorizzata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu), l’intervento della Nato contro la Repubblica federale jugoslava nel 1999 e le guerre all’Afghanistan e all’Iraq.
Contrariamente a quanto si potrebbe essere portati a pensare, la nuova attualità di questa teoria non deriva soltanto da scelte politicamente interessate da parte dei diversi governi, come nel caso dell’amministrazione Bush, che pure nei suoi documenti ufficiali sulla lotta al terrorismo e ai rogue states (che «ripudiano i diritti umani e odiano gli Stati Uniti») proclama l’universalità di «diritti fondamentali» come «libertà, democrazia e libera impresa», ma anche dalle sorprendenti posizioni sostenute da alcuni dei massimi pensatori progressisti contemporanei, come Michael Walzer e John Rawls (cfr. pp. 55-63). Il primo, col suo «ragionamento morale sulla guerra» elaborato a partire dagli anni Settanta, anche nella variante della «legittima difesa preventiva», supporta il ricorso allo strumento bellico fondandosi sull’universalismo dei diritti, assunto come dottrina etica assoluta, ignorando completamente la dimensione giuridica. Il secondo, invece, nella sua opera Il diritto dei popoli, proietta la concezione della «giustizia come equità» e del «liberalismo politico» nella prospettiva internazionale. Rawls distingue i popoli liberal-democratici (caratterizzati dall’esistenza di determinate forme istituzionali e da precise caratteristiche culturali) dalle «società gerarchiche decenti» (che si fondano su una dottrina comprensiva ma non cercano di imporla; non intraprendono guerre di aggressione; difendono i diritti umani; «hanno a cuore i benefici dei commerci e accettano inoltre l’idea dell’assistenza fra i popoli in caso di bisogno» – e dunque, sotto il «velo di ignoranza», opterebbero per la «teoria ideale» degli stati liberal democratici) dagli Stati fuorilegge (che «rifiutano di riconoscere un ragionevole diritto dei popoli» e si attribuiscono il potere di muovere guerra per affermare i propri interessi). La posizione di Rawls nei confronti di tali regimi s’identifica con le posizioni di Walzer, fino all’adesione alla dottrina della supreme emergency, che ammette la deroga agli stessi limiti alla condotta di guerra.
Per Baccelli, il «punto di riferimento» normativo nella definizione dei diritti umani deve essere «la condizione degli individui che nei differenti contesti soffrono maggiormente delle diseguaglianze, delle sperequazioni di reddito, risorse, potere, dei rapporti di subordinazione, delle discriminazioni, delle offese alla dignità e all’identità». La valutazione delle differenze culturali tra gli individui nella loro specificità e la definizione dei loro diritti richiedono «un approccio flessibile, incentrato sui suoi bisogni, che esclude sia il rigido universalismo della tradizione universale, sia la cristallizzazione del retaggio culturale» (p. 115). Riconoscere l’infondatezza dell’universalismo non ostacola, ma anzi favorisce l’allargamento della base d’accettazione dei diritti umani. La forma del claiming, la connotazione attivistica, conflittuale ed emancipativa del linguaggio dei diritti, può allora diventarne, per le culture «altre», che comunque vi sono entrate in contatto, l’elemento più utile ed attrattivo (cfr. p. 122).