Giustizia e conflitti di valori. Una proposta procedurale

E. Ceva (Bruno Mondadori, Milano, 2008)

Nell’idea di “giustizia procedurale”, in un periodo ancora recente della filosofia politica normativa  contemporanea, erano state riposte molte speranze. La giustizia procedurale si era presentata  agli occhi di molti come possibile risposta alla difficoltà di trovare un terreno comune su cui  erigere la giustificazione delle decisioni e delle istituzioni politiche in contesti sociali caratterizzati  da un pluralismo profondo e ineliminabile delle visioni del mondo e del bene. L’idea fondamentale  dietro questa speranza era che un ideale di giustizia che avesse come oggetto mere “procedure”,  anziché criteri sostanziali e visioni degli stati del mondo da realizzare, potesse fare a meno di  compiere scelte drammatiche e necessariamente controverse fra valori in conflitto, e che tale  ideale potesse dunque essere accettato e adottato anche all’interno di società in cui il pluralismo  valoriale è un elemento caratterizzante e difficilmente sormontabile. 

La letteratura che si è sviluppata intorno a questa idea fondamentale – o spesso in opposizione  ad essa – è vasta e purtroppo molto confusa. Il significato stesso dell’espressione “giustizia  procedurale” è stato oggetto di equivoci, distorsioni e fraintendimenti che hanno spesso finito  per rendere tale nozione vacua o contraddittoria. 

Un importante merito di Giustizia e conflitti di valori di Emanuela Ceva consiste nell’aver messo  ordine e riportato chiarezza concettuale in questa selva di interpretazioni e di discussioni intorno  alla nozione di giustizia procedurale, ricollocandone al tempo stesso in maniera incisiva e  fruttuosa la portata e la funzione all’interno di una teoria della giustizia che ambisce a fare i conti  con i conflitti di valori. 

Quest’opera di revisione e di chiarificazione è portata avanti da Ceva a partire da una mossa  fondamentale, che consiste in una ridefinizione della nozione stessa di giustizia procedurale  “genuina” o “pura”. Sulla scorta di un’accurata discussione della canonica classificazione  rawlsiana dei vari tipi di giustizia procedurale, Ceva sottolinea come la ricerca di una forma di  giustizia che possa fare a meno di sottoscrivere valori particolari, rimanendo così neutrale  rispetto a orizzonti normativi in conflitto, è del tutto vana, o addirittura perniciosa. Infatti, una  teoria della giustizia che non sottoscriva alcun valore è una teoria per la quale anything goes;  nel caso delle teorie della giustizia procedurali, l’assenza di criteri valoriali dirimenti implica  semplicemente che qualsiasi insieme di procedure è accettato come capace di produrre esiti  giusti o legittimi. Una definizione di giustizia procedurale che assuma questo genere di  prospettiva non è in grado di fornire alcuna indicazione normativa, o porta a legittimare qualsiasi  procedura e qualsiasi esito. Piuttosto, secondo la proposta di Ceva, una definizione più utile della  giustizia procedurale genuina o pura è quella secondo cui una teoria della giustizia è da  considerarsi procedurale nella misura in cui i valori che sottoscrive o presuppone sono valori che  pertengono a qualità intrinseche delle procedure stesse, anziché a qualità dei loro esiti. In altre  parole, ciò che distingue le concezioni procedurali della giustizia da quelle che sono orientate  agli esiti non è il fatto che le prime possono fare a meno di fare appello a valori, ma il ruolo  giocato dai valori stessi: di giustificazione di qualità intrinseche delle procedure stesse nel primo  caso, e di giustificazione dei risultati dell’applicazione delle procedure nel secondo.

Ora, il fatto che anche le teorie procedurali, se vogliono avere un contenuto, debbano  presupporre assunti valoriali significa che non si può sperare che esse portino alla soluzione dei  conflitti semplicemente grazie a una sorta di astinenza normativa che non impone restrizioni o  richieste alle diverse visioni del mondo di volta in volta implicate nelle decisioni. Da ciò consegue  anche che – come è stato ribadito da molti autori all’interno del dibattito sulla giustizia  procedurale – non c’è nessuna ragione per ritenere che l’accordo sulle procedure debba essere  più semplice e naturale di quello sugli esiti o gli stati del mondo da realizzare. E questo non solo  perché spesso le parti in un conflitto, dietro all’impiego di procedure determinate, scorgono già  anche gli esiti possibili, ma anche e soprattutto perché, come fa notare Ceva, le procedure stesse  incarnano e veicolano valori che possono essere profondamente controversi. 

Il discrimine importante, dal punto di vista dell’impegno valoriale richiesto, e quindi anche della  capacità di essere accettate in contesti in cui si dà un profondo pluralismo valoriale, non è fra  teorie procedurali e sostanziali (o “orientate agli esiti”), ma fra teorie minimali e non. Con il  termine “minimale” Ceva indica una teoria che chiede un impegno valoriale minimo, e perciò il  più possibile compatibile con prospettive normative divergenti. La distinzione fra teorie minimali  e non è trasversale rispetto a quella fra teorie procedurali e orientate agli esiti; ciò significa che  una teoria procedurale non minimale può essere molto più esigente dal punto di vista valoriale  – e quindi molto più controversa – rispetto a una teoria sostanziale minimale. 

Nonostante dal punto di vista dell’impegno valoriale le teorie procedurali non presentino dunque  di per sé alcun vantaggio specifico rispetto a quelle sostanziali o orientate agli esiti, secondo  Ceva le prime possono comunque essere più adatte a svolgere un lavoro di mediazione e di  ricomposizione dei conflitti di valore rispetto alle seconde. Questo dipende da due fattori, uno  relativo al modus operandi dei criteri procedurali di giustizia, e uno relativo ai contesti e ai modi  in cui possono essere utilmente impiegati tali criteri. 

Il primo fattore che fa sì che le teorie procedurali della giustizia possano essere più utili di quelle  “orientate agli esiti” in situazioni in cui si danno conflitti valoriali radicali è che, secondo Ceva, le  teorie o i criteri procedurali hanno per così dire una “trama” più aperta e quindi sono  maggiormente in grado di adattarsi alle esigenze dei contesti specifici di applicazione. Questo  significa che la loro adozione può essere più agevole in situazioni in cui non possono essere già  pregiudicati i particolari e le modalità della mediazione del conflitto. 

Il secondo fattore che fa sì che le teorie procedurali della giustizia si rivelino particolarmente  fruttuose in situazioni di conflitto valoriale consiste nel fatto che, secondo Ceva, esse possono  essere applicate alla fase della gestione dei conflitti, anziché a quella della loro soluzione, come  invece accade necessariamente per i criteri di giustizia orientati agli esiti, che hanno di mira  appunto la soluzione finale delle controversie. La fase della gestione dei conflitti, come  giustamente osserva l’autrice, è spesso affidata alla riflessione e alle direttive dei politologi o dei  mediatori esperti. Questi ultimi sono animati dall’esigenza pragmatica di evitare gli esiti peggiori,  ma la loro prospettiva non pone sufficiente attenzione alle importanti dimensioni normative che  pertengono alle procedure implicate in quest’opera di mediazione. D’altra parte, i teorici  normativi, anche quando riflettono su criteri procedurali di giustizia, tendono ad avere  essenzialmente di mira la soluzione o composizione finale dei conflitti in gioco, anziché i momenti importanti in cui le parti sono portate ad accettare procedure e metodi di consultazione  preliminari a qualsiasi tentativo di mediazione. 

L’idea fondamentale del libro di Ceva è che invece per la giustizia procedurale ci sia un lavoro  normativo importante da fare proprio al livello della gestione dei conflitti, un lavoro che non è  immediatamente finalizzato a trovare una loro soluzione giusta o corretta, ma a creare le  condizioni preliminari perché ciò avvenga, o in ogni caso a uscire dalla situazione di stallo o di  scontro violento in cui si trovano le parti coinvolte. 

E’ importante sottolineare che questa opera di mediazione della giustizia procedurale è tanto più  rilevante in quanto, nella proposta di Ceva, ha ad oggetto conflitti radicali, ossia conflitti fra parti  che non sono ragionevoli e non sono già predisposte all’ascolto e al confronto delle ragioni. Molto  pensiero liberale ha prodotto teorie della giustizia che si occupano del pluralismo dei valori  esistente nelle nostre società solo nella misura in cui si tratta di un pluralismo ragionevole.  Ovviamente queste discussioni sono importanti, ma rimane il fatto che gran parte dei conflitti  esistenti non vedono coinvolti attori e concezioni che sono ragionevoli e una teoria della giustizia  dovrebbe assumersi anche il compito di pensare ai modi in cui questi conflitti vanno trattati.  Un’opzione alla quale si può essere tentati, di fronte a questa esigenza, è quella di ricadere in  forme neo-hobbesiane di legittimazione delle decisioni e delle istituzioni politiche, nelle quali il  superamento del conflitto radicale avviene attraverso l’appello alla ragione strategica delle parti.  Seguendo un filone importante di critiche a questo modello, Ceva rifiuta questa soluzione perché  rischia di lasciare i conflitti esattamente come sono e pronti a riesplodere alla prima occasione.  Piuttosto, ciò che deve essere ricercato è una concezione della giustizia procedurale che, pur  essendo in grado di essere giustificabile e accettabile anche agli occhi di chi non è ragionevole,  riposi su presupposti normativi solidi e sia in grado di traghettare le parti verso forme di dialogo  e di mediazione genuine. 

Queste riflessioni sulla natura e il ruolo della giustizia procedurale vengono suffragate, nella  terza parte del libro, dallo sforzo di definizione di un criterio procedurale che effettivamente  possa diventare operativo nella gestione dei conflitti di valori. Tale criterio è ripreso da una nota  proposta di Stuart Hampshire, il quale ha suggerito che questa funzione possa essere svolta dal  principio dell’audi alteram partem. Ceva apporta a questa proposta un’importante modifica,  relativa alla sua giustificazione. Mentre Hampshire sembra far riposare le ragioni dell’adozione  di tale criterio procedurale sulla semplice constatazione del fatto che esso è adottato in molte  culture e contesti diversi, Ceva propone di fondare tale criterio su un principio minimale di  eguaglianza più profondo e passibile di essere giustificato alle parti del conflitto, compresi gli  irragionevoli, ossia coloro che non sono già ben disposti nei confronti delle ragioni delle altre  parti. L’idea fondamentale, qui, è che dare a ciascuno la possibilità di essere ascoltato sia l’unico  modo per far sì che venga soddisfatto il desiderio – che ciascuna parte ha – di essere ascoltata;  dunque, anche coloro che non riconoscono le altre parti come moralmente eguali o egualmente  autorevoli (questo riconoscimento sarebbe molto più carico, dal punto di vista normativo e  valoriale, di quello che una teoria procedurale che abbia a che fare con conflitti radicali può  concedere), possono accettare tale principio semplicemente sulla base della necessità di  partecipare a un processo di consultazione in cui la propria voce è ascoltata. 

Al criterio minimale dell’audi alteram partem Ceva affianca, nell’ultimo capitolo del libro, un altro  requisito che le procedure devono soddisfare per svolgere il loro ruolo appropriato di mediazione  dei conflitti: esse devono essere in grado di orientare le parti coinvolte alla comprensione reciproca. Ceva riprende la fenomenologia e la descrizione stessa di questa idea dalla teoria del  discorso di Jürgen Habermas, ma anche qui con un’importante differenza rispetto all’originale,  determinata dagli scopi e dal contesto di applicazione. Infatti, mentre Habermas fa parte di quei  teorici che hanno in vista il consenso delle parti e una soluzione o ricomposizione finale dei  conflitti, e una fondazione non minimale dei criteri procedurali di interazione fra le parti, l’idea  di “comprensione reciproca”, nella proposta di Ceva, non svolge un ruolo così ambizioso, e non  presuppone una fondazione altrettanto pesante dal punto di vista normativo. Allo stesso tempo,  però, Ceva riconosce che questo requisito, relativo agli effetti di trasformazione che le procedure  devono produrre nell’atteggiamento delle parti, è necessario se si vuole che la gestione dei  conflitti abbia un’incidenza effettiva su di essi, e ponga le basi, eventualmente, per una loro  mediazione o soluzione. 

La teoria del ruolo e del contenuto appropriato della giustizia procedurale proposta da Ceva si  colloca su un terreno inusuale e poco battuto della teoria politica normativa, che potrebbe essere  descritto, in un certo senso, come un terreno “di transizione”. Essenzialmente, infatti, questa  proposta svolge il ruolo di anello di congiunzione fra due estremi molto più frequentati dai filosofi  politici: da una parte quelle teorie di stampo realista che assumono il conflitto come un dato non  mediabile, ma solo arginabile con misure ad hoc dettate dalla prudenza e da ragioni strategiche;  dall’altra, quelle teorie ambiziose e normativamente esigenti della ragione pubblica che  assumono un pluralismo già addomesticato dalla ragionevolezza e giustificazioni delle procedure  di mediazione e di discussione che fanno appello a valori spessi e tutt’altro che minimali. La  difficoltà più grossa che questa impresa prova ad affrontare consiste esattamente nel  determinare quale sia il giusto equilibrio fra le concessioni che si devono fare ai conflitti come  effettivamente si danno nella realtà e le aspirazioni ad una loro ricomposizione attraverso forme  di ragionevolezza e di reciproca comprensione che appartengono ai nostri migliori ideali. 

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