Elogio di Montesquieu
D. Felice e P. Venturelli, con un saggio di C. Rosso (Liguori, Napoli, 2012)
Il 10 febbraio 1755, nella sua abitazione parigina, muore a sessantasei anni Montesquieu. Nei mesi successivi vengono redatti alcuni importanti testi commemorativi a lui dedicati, tra i quali spiccano quello steso dal figlio Jean-Baptiste, quello di cui è autore d’Alembert e che viene collocato in testa al quinto tomo dell’Encyclopédie, quello composto da Maupertuis e quello approntato da Pimpie Solignac.
La casa editrice Liguori, dopo aver proposto una nuova traduzione dell’Éloge di d’Alembert (con versione francese in appendice, a cura di Giovanni Cristani, 2010), pubblica ora, a cura di Domenico Felice e Piero Venturelli, la prima traduzione italiana (anch’essa accompagnata dal testo originale) dello scritto celebrativo maupertuisiano. È il 5 giugno 1755 quando il famoso scienziato, geografo e filosofo bretone legge questo suo Éloge a un’adunata degli Accademici prussiani1. Poche settimane dopo, il testo viene stampato come opera a sé sia a Berlino sia ad Amsterdam, ed è inserito l’anno successivo nell’«Histoire de l’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres», all’interno del volume che raccoglie gli Atti del 1754 dell’istituzione prussiana. Questa breve ma significativa opera, a lungo colpevolmente sottovalutata dagli studiosi, testimonia del duraturo rapporto di stima reciproca e del costante confronto intellettuale che lega due dei più insigni hommes de lettres europei del XVIII secolo.
Nonostante le idee dei due illustri personaggi talora divergano nettamente, Maupertuis dimostra sempre di nutrire un’amicizia profonda – contraccambiata – per il filosofo bordolese, il quale favorisce l’elezione dell’autore bretone all’Académie Française di Parigi (1743), mentre quest’ultimo ne propone la nomina all’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres di Berlino (1746), da lui diretta. Nell’Éloge, Maupertuis non manca di ripercorrere alcune delle più importanti tappe del legame che lo unisce a Montesquieu per oltre un ventennio.
Lo scritto commemorativo si apre con la domanda se sia legittimo tessere un elogio degli Accademici stranieri, quando essi muoiono. Benché questo non sia un uso consueto, Maupertuis si dice certo che un autore come Montesquieu abbia fatto «tanto onore alla scienza e all’umanità» (pp. 25-26) che nessuna nazione ha più diritto delle altre di appropriarsene, sembrando egli esser stato donato al mondo intero. Risolta così la questione, Maupertuis ripercorre la vita e i testi montesquieuiani più significativi. Anticipando le interpretazioni moderne2, egli vede nelle Lettres persanes (1721) non un semplice divertissement, ma un’opera seria, primo tassello di quella «scienza dei costumi» (p. 33) che trova poi compimento nell’Esprit des lois (1748). Secondo la sua acuta analisi, gli scritti del pensatore bordolese vanno considerati in maniera unitaria e organica: sono «come i gradini di un tempio che egli [innalza] alla felicità del genere umano» (p. 32). Dal punto di vista maupertuisiano, infatti, mentre nelle Lettres persanes Montesquieu studia «gli effetti delle passioni nell’uomo, per così dire, isolato», nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) egli mette in scena gli uomini riuniti in società, offrendo uno spaccato della storia romana che «è in grado di colmare quanto ci manca di Tacito» (p. 35). Questi due importanti libri – in realtà – non costituiscono altro che la preparazione al capolavoro, il già citato Esprit des lois, opera che, se certo non dispiega «quel sistema di legislazione che potrebbe rendere gli uomini i più felici, […] contiene però tutti i materiali di cui tale sistema dovrebbe essere costituito» (p. 43). Montesquieu è infatti «troppo illuminato» (p. 39) per poter ritenere possibile il rinvenimento di leggi politiche in grado di dar vita al migliore fra tutti i governi, o di prescrivere leggi civili che rendano i sudditi più felici: «là dove la natura lo [permette], [fornisce] dei princìpi; altrove, si [limita] alle riflessioni e ad avvicinarsi il più possibile a uno scopo che non è consentito raggiungere» (pp. 39-40). Secondo Maupertuis, nell’Esprit des lois, indiscusso capolavoro universale che consente di poter annoverare a pieno titolo il suo autore fra «quei saggi che hanno dato le leggi ai popoli» (p. 40), Montesquieu non tralascia di studiare nulla di ciò che gli sembra esser utile al genere umano, e nel far questo contribuisce in maniera decisiva a portare a maturazione quella scienza, «così nuova fra noi che non ne abbiamo ancora il nome» e che, ignorata dagli antichi e da poco introdotta in Francia attraverso l’encomiabile Essai politique sur le commerce (1734) di Jean-François Melon, «riguarda il commercio, le finanze, la popolazione», e ha per oggetto «la ricchezza della nazioni, la loro potenza e felicità» (p. 43).
Nonostante la grande stima per «un filosofo profondo che si è ritrovato uno spirito bellissimo» (p. 34), Maupertuis non si limita, nel suo elogio, ad un’accettazione acritica delle posizioni dell’amico: anzi, l’analisi del pensiero montesquieuiano, e la presa di distanza da alcuni aspetti dell’Esprit des lois, diventa l’occasione per esporre le proprie personali concezioni etiche, già sviluppate nell’Essai de philosophie morale (1749). Quello che Montesquieu identifica come fondamento di tutte le leggi, il «rapporto di equità», è per Maupertuis un «principio troppo oscuro, troppo suscettibile di differenti interpretazioni, e lascerebbe eccessiva autonomia decisionale al legislatore» (p. 37). Al contrario, l’autore bretone si mostra convinto che tutti i sistemi di legislazione debbano essere fondati sul «più potente e reale movente di ogni azione umana», «la più grande felicità», ossia quel principio di etica sociale secondo cui occorre cercare di assicurare al maggior numero di individui la maggiore felicità possibile: «il genere umano non è che una grande società, il cui stato di perfezione si raggiungerebbe qualora ciascuna società particolare sacrificasse una porzione della sua felicità per la più grande felicità della società intera» (p. 38). L’importanza di questa teoria nella storia del pensiero etico-politico moderno è nota: un analogo principio, avanzato poco tempo prima di Maupertuis dallo scozzese Francis Hutcheson, sarà discusso – negli anni Sessanta del Settecento – all’interno del circolo illuminista milanese (in particolare, da Pietro Verri) e – sul finire del XVIII secolo – in terra inglese da Jeremy Bentham. Dal volumetto si desume dunque la notevole rilevanza della teorizzazione di Maupertuis, presa in esame – all’inizio del volume – da Corrado Rosso, in un saggio che mette bene in luce come il confronto con la riflessione montesquieuiana, incentrata sullo studio delle dimensioni socio-politica e giuridica della realtà, risulti determinante per la maturazione del pensiero morale dell’autore bretone. L’Éloge, dunque, non solo ci consegna un dettagliato ritratto del celebre Bordolese, ma offre altresì un quadro puntuale tanto della natura dei rapporti personali intercorrenti fra due delle più rappresentative figure intellettuali del Settecento europeo quanto di importanti aspetti delle loro rispettive concezioni del mondo e dell’uomo, concezioni destinate poi a giocare un ruolo tutt’altro che trascurabile nello sviluppo delle idee etico-politiche delle generazioni a venire.