Diritto e diritti: lo stato di diritto nell’era della globalizzazione

Elio Santoro (Giappichelli, Torino, 2008)

L’autore si propone di esaminare la questione della protezione dei diritti fondamentali  all’interno delle società occidentali (soprattutto europee), i cui Stati hanno conosciuto negli  ultimi decenni, e conoscono, profonde trasformazioni. Queste ultime, sorte sul terreno  economico e politico della globalizzazione, hanno investito e condizionato profondamente gli  assetti più propriamente giuridici e istituzionali di tali Stati, la natura e il significato della  funzione legislativa, e soprattutto la posizione e il ruolo dei giudici, nonché le stesse relazioni  tra poteri, costringendo a un ripensamento della tradizionale nozione di “Stato di diritto”,  fondata sulle idee di “governo delle leggi” e di sovranità. 

Sorta in età moderna per porre limiti al potere esecutivo in Stati in cui la produzione  delle norme era concepita come un compito esclusivo dei Parlamenti, e i giudici erano visti  come coloro che dovevano limitarsi ad applicare le leggi alla lettera, tale nozione, che  potremmo definire “legicentrica”, oggi si rivela inadeguata sia perché i centri di produzione  del diritto si sono moltiplicati sia perché tale diritto molto spesso contrasta con i diritti  individuali, sia perché, conseguentemente, i giudici non possono più essere visti come meri  interpreti delle intenzioni del legislatore.  

Com’è noto, l’idea che a governare debba essere la legge, e non gli uomini, è un’idea  molto antica, risalente ad Aristotele. Tale idea fu al centro anche del pensiero politico costituzionale illuministico, e diede vita a una concezione dell’ordine giuridico che, oltre a  essere fondata sull’imperativo montesquieuiano della separazione dei poteri, individuava nella  legge generale e astratta la vera fonte di ogni diritto e dovere, ciò che, in particolare, avrebbe  dovuto contribuire all’individuazione e alla realizzazione del “bene comune” delle società.  

Nella visione giusnaturalistica che ebbe in autori come Rousseau e Montesquieu i suoi  massimi esponenti, essendo le leggi concepite come atti della volontà generale o popolare,  esse non solo avrebbero dovuto dar luogo a un’uguaglianza assoluta, di tutti, di fronte alla  legge, ma parallelamente non avrebbero mai potuto privare i cittadini della propria libertà. Per  questa stessa ragione ai giudici sarebbe spettato il compito di attenersi fedelmente al testo  della legge, di essere, secondo la ben nota formula montesquieuiana, “bocca della legge” (da  cui l’idea del potere giudiziario come potere “nullo”, ovvero politicamente neutrale; cfr. pp.  10-11), giacché qualsiasi interpretazione che non avesse colto lo spirito della legge sarebbe  stata espressione di una volontà arbitraria.  

Gli Stati nazionali ottocenteschi fanno proprio tale paradigma, e soprattutto l’idea che  la garanzia dei diritti fondamentali poggi sul principio della “certezza” del diritto, la quale  dovrebbe derivare appunto dall’uniformità nell’interpretazione e applicazione delle leggi. Una  volta esaurita la componente giusnaturalistica della legge, tuttavia, l’attenzione dei giuristi si  sposta essenzialmente su questioni di metodo, sulle procedure necessarie a trasformare il  diritto in un sistema rigorosamente oggettivo, “scientifico”. L’idea di certezza risulterà  centrale in tutte le correnti formalistiche dominanti a partire dalla seconda metà  dell’Ottocento, dando vita a tutti quei progetti di codificazione che sono alla base del  positivismo giuridico.  

Già debole al suo sorgere, è nel secondo dopoguerra che la concezione legicentrica  dello Stato di diritto entra seriamente in crisi. Com’è già aveva intuito Kelsen, una legge che  si appelli solamente a criteri formali e procedurali può risultare anche palesemente ingiusta.  L’affacciarsi sulla scena del costituzionalismo a partire dal secondo dopoguerra, il proliferare  di testi normativi imprecisi dettati da contingenze storiche e politiche nonché, spesso, da  criteri meramente utilitaristici e funzionali alla logica del mercato, la nascita di un ordine giuridico europeo, il quale ha eroso sia all’interno che all’esterno la sovranità degli Stati, tutti  questi fenomeni hanno decisamente accelerato la crisi del paradigma suddetto.  Laddove, ad esempio, il mercato si configura come una sorta di “nuovo Leviatano”,  sempre più grande diviene lo scarto tra i diritti, sia di libertà sia sociali, come il diritto al  lavoro, e le esigenze di guadagno che sono proprie delle grandi corporazioni e che non di rado  trovano supporto nello strumento giuridico (si pensi al fenomeno delle law firms; cfr. pp. 92  sgg), sempre più evidenti divengono le violazioni, e sempre più pressanti le rivendicazioni.  Anche lo sviluppo tecnologico e scientifico e la formazione di società multietniche e  multiculturali e i problemi in un certo senso nuovi che essi pongono al diritto problemi che  molto spesso non possono trovare una risposta legislativa soddisfacente (si pensi, tra l’altro, ai  dibattiti interminabili intorno ai temi bioetici) hanno fatto sì che la figura del giudice  diventasse sempre più importante e centrale, e tutt’altro che politicamente neutrale. Si tratta  spesso di dar voce a soggetti che non possono influire minimamente sulle decisioni che li  riguardano, di elaborare giudizi che abbiano come perno il valore delle persone laddove la  legislazione si riveli lacunosa, o addirittura ingiusta. 

Per l’autore in questo nuovo quadro tanto la razionalità di stampo “metafisico” propria  del giusnaturalismo tanto quella logico-formalistica di matrice giuspositivistica si rivelano  inadeguate ad affrontare i nuovi compiti. 

È da questa constatazione che prende le mosse il tentativo di delineare i contorni di  una nuova nozione di razionalità, muovendo dall’esame di una tradizione diversa da quella  dell’Europa continentale, da un’idea diversa dello Stato di diritto, per arrivare a una nuova  teoria dell’interpretazione, fondata su una nuova idea di normatività.  

La tradizione in questione è quella inglese del rule of law, alla cui ricostruzione sia  storica che teorica è dedicata la parte centrale dell’opera di Santoro. In questo contesto è  soprattutto l’opera di Albert Venn Dicey Introduction to the study of the Law of the  Constitution (1885), che riceve un’attenzione speciale da parte dell’autore, per la particolare  concezione del rule of law che vi è espressa, la quale a suo parere dovrebbe consentirci di  elaborare una nuova concezione dello Stato di diritto che tenga conto della crisi in cui versa il  paradigma che avuto fortuna nell’Europa continentale. 

In generale, una delle caratteristiche fondamentali del sistema inglese è che, mancando  un elenco predefinito di diritti costituzionalmente garantiti, questi risultano essere il prodotto  delle corti ordinarie. 

La nozione di rule of law è figlia della Glorious Revolution ed esprime l’idea,  elaborata e caldeggiata dai riformatori (i whig), che il diritto sia il custode delle “libertà degli  inglesi”. Tale diritto si identifica con il common law, vale a dire con un insieme di  consuetudini giurisprudenziali che non si lasciano ricondurre facilmente a dei principi  generali e la cui validità poggia esclusivamente sul fatto del suo “perdurare nel tempo”. Coke  era stato il primo a trasformare la tradizione del common law in un compiuto paradigma  giuridico-politico (la cd. dottrina della “Costituzione antica”) e a identificare la ragione  propria del diritto con la ragione “artificiale” del giudice (pp. 145 sgg). L’idea non cambierà  nella sostanza neanche con il passaggio al paradigma moderno del common law inaugurato da  Austin attraverso la creazione di una jurisprudence analitica, giacché anche per lui il diritto  costituzionale configura una sorta di “morale positiva” e dunque è un prodotto della prassi e  dell’uso, che il giurista trasforma in diritto (p. 211). 

L’opera di Dicey ha visto la luce al tempo dell’Inghilterra vittoriana, quando il diritto  si andava formando come disciplina accademica e forte era l’influenza delle tesi di Austin,  alla cui impostazione egli in un certo senso si mantiene fedele. D’altra parte, nonostante per  lui lo Stato di diritto poggi sul principio della sovranità “assoluta” del Parlamento (tesi che  ricalca quella austiniana del diritto come “comando del sovrano”), nella sua visione i diritti  non sono una creazione del potere legislativo, bensì un prodotto dell’interpretazione dei giudici: è questa, in altri termini, che crea la Costituzione, sono i giudici per lui i veri master del diritto (p. 267).  

L’apparente contraddizione tra sovranità del Parlamento e tutela dei diritti si risolve  dunque alla luce di un diverso ruolo attribuito ai giudici. In sostanza, Dicey rifiuta l’idea che i  diritti siano il risultato della divisione dei poteri. Radicata nell’idea di common law, la  concezione diceyana del rule of law attribuisce ai giudici non già l’indipendenza organica  (come accade nel paradigma continentale), bensì un autonomo potere normativo (pp. 278- 279). Per lui i diritti sono il prodotto della tutela giudiziale. In questo modo il rule of lawanziché rimandare agli aspetti formali e procedurali del sistema legale, rimanda alle idee  sostantive di libertà e autonomia dei cittadini: esso dunque può essere concepito come  l’insieme dei valori e dei diritti costituenti la common law constitution (p. 269). 

Per Santoro Dicey ha avuto quindi il merito di spostare l’attenzione sul momento  dell’interpretazione del diritto e sulle condizioni che la rendono possibile, evidenziando  l’importanza della formazione dei giudici e del contesto in cui essi si trovano a operare.  Potremmo dire che contigua alla nozione di rule of law, elaborata dal giurista inglese, è l’idea  della centralità della figura del giudice, e parallelamente essa comporta un approccio  “realista” (e dunque allo stesso tempo “ermeneutico”) al fenomeno giuridico.  

Ciò dovrebbe costituire anche una risposta alla crisi dell’idea di certezza del diritto, la  quale ha avuto inizio nei primi decenni del XX secolo e che oggi trova risposte antitetiche  (ma comunque insoddisfacenti secondo Santoro) tanto in Europa quanto negli Stati Uniti.  Mentre oltre oceano per dotare le decisioni giudiziali di un fondamento solido ci si è rivolti ad  altre discipline come la filosofia morale o l’economia (si tratta, rispettivamente, dei casi di  Dworkin e di Posner: pp. 292-294), in Europa la tendenza è stata quella di ritornare al  formalismo e all’illusione ad esso collegata di un normativismo impersonale e obiettivo,  perché legato strettamente a testi normativi che si suppongono dotati di un significato univoco  (questa era stata, ad esempio, la posizione di Herbert Hart. A tale tendenza si lega quella a  considerare la soggettività del giudice in senso “emotivistico”, ovvero nel senso di una  sostanziale irrazionalità dei sentimenti e delle preferenze personali (pp. 286-289). 

Insistere sul contesto, sulla realtà storico-sociale empirica nei quali tali preferenze  maturano e sono rese possibili, significa superare la distinzione schmittiana tra regola e  decisione, significa, seguendo Stanley Fish (Cfr. Doing what comes naturally, 1989; cfr. p.  296), concepire il fenomeno giuridico come “pratica sociale”, la quale ha come sfondo  imprescindibile la “comunità” nella quale il diritto viene elaborato e vissuto, e dunque vede  nella comunità stessa, nella sua cultura e nel suo linguaggio, il vero master del diritto. Ciò  non significa negare la soggettività del giudizio (ovvero che il giudizio sia in un certo senso  espressione della “forza” degli attori in gioco, secondo la formula hartiana) ma non significa  neppure considerare tale soggettività come fonte di incertezza o di arbitrio (p. 297).  

L’idea di fondo è che qualunque principio, anche quelli apparentemente più generali e  astratti, trovano giustificazione in una prassi precedente, la quale diviene un elemento  costitutivo della volontà del soggetto.  

La concezione del diritto come pratica si lega strettamente a quella di un linguaggio  come medium dell’interazione sociale e come strumento di costruzione di nuove norme e di  modificazione di quelle esistenti, un linguaggio la cui validità non poggia sulla dimostrazione  (su significati auto-evidenti), bensì sull’argomentazione e sulla giustificazione (secondo la  lettura che Kripke ha offerto di Wittgenstein: pp. 309 sgg.). In altri termini, le presunte  caratteristiche “oggettive” del diritto non sono il prodotto della coscienza individuale ma  dell’interazione sociale, la quale si esprime a sua volta attraverso il linguaggio.  

L’invito che Santoro ci rivolge è dunque quello di “prendere sul serio il realismo”.  Prendere sul serio il realismo significa, alla luce di quanto rilevato, riconoscere che non sono  le leggi a governare, ma gli uomini; che il giudice deve farsi interprete delle norme; che non  esiste un’unica ragione regolatrice ma una pluralità di ragioni le quali spesso sono agite dalla necessità e dalle circostanze, nonché dalla tradizione, dai contesti, dalla cultura e dal  linguaggio giuridici; che il giudizio intorno alle leggi deve tener conto primariamente di  valori umani; che il diritto non è una scienza; che le società non sono ordinate né ordinabili,  ma anzi complesse e conflittuali e nondimeno bisognose di giustizia. Pertanto, più che sullo  Stato di diritto bisognerebbe riflettere oggi sullo “Stato dei diritti”, e vedere nel  soddisfacimento di questo bisogno il suo autentico significato.

09/09/2012
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