Crisi e critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamento del politico

M. Tomba (Bibliopolis, Napoli, 2002)

Un’adeguata comprensione del pensiero di Bruno Bauer non può di certo prescindere da  un’analisi dell’orizzonte filosofico che ne ha costituito lo sfondo teorico; diviene pertanto  indispensabile gettare uno sguardo su quell’articolato e composito dibattito sulla filosofia hegeliana  che ha segnato in maniera determinante il panorama filosofico della prima metà dell’Ottocento.  Muovendo da questa consapevolezza, il testo di Massimiliano Tomba assume come punto di  partenza della propria indagine ricostruttiva i legami che intercorrono tra la filosofia di Bauer e  quella di Hegel. Si tratta di un rapporto complesso e articolato poiché, se da un lato occorre tener  presente la profonda e documentata conoscenza che Bauer aveva del sistema hegeliano, dall’altro è  impossibile ricondurre il pensiero baueriano all’interno di quell’apparato concettuale, pena il rischio  di operarne un sostanziale misconoscimento. Strettamente connessa a quanto appena rilevato è  anche la necessità di interrogarsi in via preliminare sulla validità di quella distinzione fra “destra” e  “sinistra” hegeliana all’interno della quale la storiografia tende solitamente a ricondurre una parte  consistente dei filosofi post-hegeliani. Secondo la lettura che Tomba intende presentare, si  tratterebbe di una distinzione non solo inefficace sotto il profilo della validità interpretativa, ma di  ostacolo ad una reale comprensione delle posizioni interne al dibattito. Accogliere la  contrapposizione fra “destra” e “sinistra” infatti implica l’assunzione di una certa continuità – pur se  più o meno marcata e più o meno problematica – fra la filosofia hegeliana e il pensiero degli autori  successivi, rischiando così di sottovalutare quegli elementi di distacco rispetto alla concezione  speculativa di Hegel nei quali, al contrario, Tomba individua la cifra autentica della riflessione  filosofica dell’età del Vormärz. È allora più «utile alla stessa storia della filosofia, invece di ricercare  continuità e ascendenze hegeliane da catalogare poi nelle due ali della scuola, rimarcare la presenza  di una rottura» (p. 15). Sotto questo profilo, viene così ribadita quella perplessità mostrata dallo  stesso Bauer nei confronti della distinzione fra “destra” e “sinistra” hegeliana, definita una «formula  poliziesca».  

L’idea che la filosofia dell’età del Vormärz risulti caratterizzata da una profonda frattura risulta  giustificata anche a partire dall’osservazione che, nel pensiero dei post-hegeliani, non sembra  trovare spazio nessuna conciliazione, nessuna sintesi superiore, quanto piuttosto la volontà di  pensare fino in fondo, e nella sua completa radicalità, il ruolo del negativo. Si assiste, in altri  termini, allo sviluppo di un pensiero che risulta caratterizzato più da un irrigidimento delle  determinazioni contrapposte che non da una comprensione della loro interna e superiore unità  (come vorrebbe la concezione dialettica e speculativa di Hegel); ciò lo qualificherebbe però come  una filosofia saldamente ancorata, sempre secondo l’apparato categoriale fornitoci dall’autore della  Fenomenologia dello Spirito, al piano dell’intelletto, più che a quello della ragione.  

Quanto appena rilevato emerge con evidenza nella riflessione di Bruno Bauer all’interno della  quale la categoria della Krisis riveste una assoluta centralità. La filosofia infatti risulta  integralmente indirizzata ad una funzione critica che si traduce in uno sforzo di comprensione,  analisi e interpretazione della crisi stessa. È «l’antico tessuto sociale organizzativo» – ovvero  «quell’articolazione cetuale (ständisch) che in Hegel costituiva il rapporto di mediazione tra  l’individuo e lo Stato» (p. 18) – l’ambito nel quale si estrinseca più evidentemente l’effetto della  Krisis. L’affermazione dello Stato assoluto infatti finisce per generare una progressiva corrosione  della compagine cetuale; sotto questo profilo, la «cifra della crisi» diviene la frantumazione della  «societas civilis in una molteplicità di atomi individuali» che discende come diretta conseguenza  dalla «fine degli Stände» (p. 44). Con l’erosione della mediazione svolta dall’elemento ständisch si  fa largo la separazione fra società civile e Stato, una separazione che, se pur compresa da Hegel, trovava ancora le condizioni del proprio superamento nella possibilità di un recupero della  mediazione cetuale. Questa frantumazione del tessuto sociale in una moltitudine atomistica  costituisce, per Bauer, il cuore della crisi della modernità; non si tratta però di rispondere ad essa  cercando di delineare una possibile ricostituzione dell’elemento di mediazione. Pensare  radicalmente la crisi implica infatti per Bauer lavorare alla dissoluzione del vecchio mondo ormai in  frantumi; questo non conduce ad uno sforzo volto a determinare lo sviluppo futuro passando dal  piano dell’essere a quello di un astratto dover essere, quanto piuttosto al tentativo di spingere la crisi  fino alle sue estreme conseguenze anche sul piano concettuale. Il nesso stringente fra critica ed  emancipazione quindi non sottende una volontà di determinazione del futuro mediante  l’anticipazione dei suoi contenuti (il Nuovo non può essere oggetto di una anticipazione, ma si dà  solo nella storia), quanto piuttosto la necessità di lavorare alla decostruzione del Vecchio perché il  Nuovo possa sorgere. Di fronte alla Krisis, letta come cifra dello sviluppo del pensiero occidentale,  compito della filosofia diviene pertanto quello di sostenere tale crisi e spingerla fino alle sue  estreme conseguenze. L’affermazione per la quale «Kritik ist die Krise» – autentico «centro di  gravità», nota Tomba, «attorno al quale ruota tutta la riflessione di Bauer» (p. 104) – delinea  l’urgenza di intervenire sullo scarto creatosi fra una determinata epoca storica e la rappresentazione  che si ha di essa. Fino a quando perdurano le categorie mediante le quali veniva pensato il vecchio  mondo, anche ciò che è rappresentato per mezzo di esse continua infatti a sussistere, se pur nella  forma della rappresentazione. Rivolgere la Kritik contro le categorie di quella rappresentazione ed  operarne una radicale decostruzione significa pertanto lavorare nella direzione di una dissoluzione  delle stesse condizioni di possibilità di quella rappresentazione. 

Emerge in questo modo tutto il radicalismo della filosofia di Bauer, una filosofia che tenta di  portare alla luce, con ferrea consequenzialità, quegli elementi problematici e contraddittori  rinvenibili non soltanto all’interno del discorso teologico – ambito che occupa una posizione di  primo piano all’interno della riflessione di Bauer e che egli cerca di sviluppare fino a spingere la  teologia verso la propria auto-dissoluzione – ma attinenti alla stessa dimensione politica.  

La parte centrale del testo di Tomba approfondisce puntualmente uno degli aspetti più  significativi del pensiero del filosofo di Eisenberg: si tratta di quell’analisi del principio di  esclusione (Ausschließlichkeit) che consente di gettare luce sulla “teologia politica” di Bauer. Come  è noto, dobbiamo a Carl Schmitt l’elaborazione del concetto di “teologia politica” intesa quale  analisi dell’affinità strutturale sussistente fra i concetti teologici e quelli politici e giuridici.  Nell’omonimo testo (Teologia politica) del 1922 infatti, Schmitt assumeva come punto di partenza  della propria riflessione l’idea per la quale «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina  dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico […], ma  anche nella loro struttura sistemica»1. Come nota Tomba, Schmitt aveva ben presente il fatto che  questa affinità fosse già stata individuata, in vario modo, da alcuni filosofi post-hegeliani ed il suo  interesse per Bauer matura, significativamente, proprio in relazione a questo problema.  È interrogandosi sull’origine del Cristianesimo – e sulla dialettica che lo attraverserebbe – che  Bauer individua l’intima connessione rinvenibile fra categorie teologiche e categorie politiche. Un  primo piano dalla riflessione investe una delle nozioni fondamentali della teologia; si tratta della  Grazia e del suo ruolo salvifico. Assumendo come punto di riferimento gli scritti politici apparsi  sulla Rheinische Zeitung infatti, possiamo rilevare come, in quei testi, il tentativo di Bauer fosse  quello di mostrare come il concetto teologico di Grazia risulti fondato sul principio di esclusione;  sotto questo profilo, esso finirebbe per mostrare una sostanziale affinità, quanto ai presupposti, con  un potere esercitato in modo arbitrario. L’intento che guida Bauer in questa parte della sua  riflessione, nota Tomba, appare quello di mostrare che «arbitrio e principio di esclusione sono […]  determinazioni comuni tanto al concetto di grazia quanto a quello di potere dispotico» (p. 117). La  Grazia, nota Bruno Bauer, implica necessariamente una esclusione: il suo potere salvifico infatti non può venir concesso universalmente a tutti poiché la Grazia può continuare ad essere tale solo  muovendo dal fatto che alcuni ne sono esclusi. Principio di esclusione da un lato e arbitrio divino  dall’altro sarebbero pertanto i fondamenti del concetto di Grazia. A tale proposito, Massimiliano  Tomba sottolinea l’influenza giocata nel pensiero di Bauer dalla sua formazione alla scuola  teologica luterana; muovendo da tale presupposto infatti, sarebbe plausibile sostenere che in questa  parte della sua riflessione Bauer avesse ben presente la lettura che Lutero fa di Paolo e l’analogia  ricavata dal Riformatore fra l’arbitrio di Dio, alla base della scelta degli eletti, e l’arbitrio regale.  

Vi è però un piano ulteriore. Il principio di esclusione sarebbe a fondamento del Cristianesimo  non solo in relazione al concetto teologico della Grazia, ma anche sotto un altro profilo, che  consentirebbe di rilevare quel rovesciamento dialettico dell’universalismo cristiano al quale si è già  fatto cenno. Sebbene il Cristianesimo appaia caratterizzato dalla pretesa di essere portatore di  principi di uguaglianza e libertà, tale universalismo naufragherebbe, ad un più attento esame e ad un  più avvertito confronto con l’Ebraismo, contro il principio di esclusione che continua a costituirne  l’imprescindibile orizzonte. Bauer sottolinea ampiamente – basti pensare agli scritti La questione  ebraica e La capacità di diventare liberi degli ebrei e dei cristiani di oggi, recensiti criticamente da  Marx – come rispetto all’Ebraismo, che ha fede soltanto in un unico popolo, il popolo eletto, e  considera empi tutti gli altri, il Cristianesimo intenda presentarsi come universale poiché l’amore  cristiano offre a tutti i popoli, ovvero a tutti gli uomini, il dono della fede. In realtà però, il  Cristianesimo non si rivolge all’uomo in quanto tale, ma all’uomo in quanto credente. Nella  prospettiva di Bauer infatti il superamento della particolare declinazione con la quale il principio di  esclusione si presenta all’interno della religione ebraica ha luogo nel Cristianesimo solo per lasciare  spazio ad una sua più accentuata radicalizzazione. L’uguaglianza di tutti gli uomini espressa  dall’universalismo cristiano risiederebbe nella pari possibilità di tutti di accedere alla dimensione  della fede cristiana, nella possibilità della conversione; è questo il motivo per il quale, secondo  Bauer, il Cristianesimo non si rivolge all’uomo in quanto tale, ma soltanto all’uomo di fede,  all’uomo che può diventare credente o, più precisamente ancora, all’uomo che deve diventarlo, pena  la dannazione eterna2. Confrontando la lettera ai Galati con la prima lettera ai Corinzi e la lettera ai  Romani, Bauer intende mostrare come la cifra della concezione cristiana sia espressa da Paolo negli  ultimi due scritti, più che nel primo, e che possa essere sintetizzata nella distinzione fra battezzati e  non-battezzati. La centralità del battesimo diviene l’argomento in virtù del quale Bauer intende  mostrare come il Cristianesimo rappresenti un superamento dell’ebraismo solo in quanto  radicalizzazione del principio di esclusione. Si delinea così anche un punto di convergenza, almeno  sotto un certo profilo, fra la posizione di Bauer e quella che era andata maturando in Feuerbach in  relazione all’essenza del Cristianesimo: tale affinità sarebbe rinvenibile nell’idea che il  Cristianesimo, contro il preteso universalismo di cui intende farsi portatore, costituisca in realtà una  radicalizzazione dell’opposizione amico-nemico. L’accentuazione dell’opposizione, e quindi il  carattere intrinsecamente polemico della fede, consentirebbe di affermare, sia per Bauer che per  Feuerbach, l’insuperabile connessione fra intolleranza e dimensione della fede. 

La centralità che il principio di esclusione riveste all’interno del Cristianesimo è sintetizzata per  Bauer dall’espressione «chi non è con me è contro di me» (Mt. 12, 30), mentre sarebbe da  ridimensionare la portata universalistica del principio dell’«amate i vostri nemici» (Mt. 5, 44).  Tomba analizza puntualmente l’esito radicale cui Bauer perviene in questa parte della sua analisi del  Cristianesimo. Il principio dell’amore per i nemici non viene interpretato quale espressione di un  amore universale; questo sarebbe impossibile dato che anche il Cristianesimo risulta fondato sul  principio di esclusione. L’enunciazione del principio dell’amore per i nemici parrebbe coincidere, al  contrario, con quell’orizzonte polemico costituito dalla contrapposizione con il precetto dell’Antico  Testamento dell’odio per il nemico; in altri termini, il Cristianesimo intenderebbe presentarsi come  il rovesciamento del precetto dell’odio per il nemico e quindi nella piena discontinuità rispetto all’esclusione ebraica. Per Bauer però l’odio per il nemico che il Cristianesimo intende rovesciare  costituisce un principio che non trova alcun riscontro nell’Antico Testamento: si tratterebbe pertanto  di un’invenzione funzionale a questa opposizione polemica. «L’amore cristiano per i nemici sarebbe  dunque un’affermazione polemica, che costruisce il parallelo con la legge mosaica per  contrapporvisi» (p. 123).  

Se il Cristianesimo costituisce effettivamente una Aufhebung dell’ebraismo, tale Aufhebung poggia per Bauer, come già rilevato, sul compimento del principio di esclusione.  L’Ausschließlichkeit però costituisce il carattere intrinseco, e quindi insuperabile, della religione  stessa che non può prescindere dalla sua forza di esclusione, pena la sua stessa dissoluzione. Si  tratta, come è evidente, di un punto di estrema rilevanza. Il principio di esclusione appare così  l’insuperabile orizzonte della religione ed è qui che il discorso teologico incrocia la critica della  politica. Se il principio di esclusione si configura «come l’atto originario a partire dal quale prende  forma una determinatezza» e dato che «sarebbe questa la logica che attraversa sia la religione che il  politico», la critica della religione deve condurre alla critica della politica (p. 124).  

«Die Religion bildet das Wesen des Staates»: la citazione tratta dallo scritto Das entdeckte  Christentum per la quale «la religione costituisce l’essenza dello Stato» riassume concisamente la  via lungo la quale si articola l’argomentazione critica in relazione alla politica ed appare allo stesso  Bauer uno dei risultati teorici più significativi della propria riflessione. L’analogia fra religione e  politica risiede nella logica esclusiva che sta alla base di entrambe: in questo «incrocio tra teologia e  politica», rileva Tomba, Bauer introduce il concetto di «Stato cristiano nel senso di uno Stato che ha  la religione come propria essenza e fondamento» (p. 128). Per Bauer, la statualità contiene  necessariamente al suo interno un momento religioso; questa essenza religiosa dello Stato risulta  radicata nella stessa logica sopra esaminata che individua nel polo dialettico identità-esclusione il  fondamento di una comunità, religiosa o politica che sia. 

Risulta allora chiaro il motivo per il quale, dopo aver tentato di dare risposta al problema  dell’emancipazione degli ebrei – nello scritto sulla Judenfrage – distinguendo fra uno Stato  “cristiano” – ancora caratterizzato dalla presenza del principio di esclusione – e uno Stato  emancipato dalla stessa religione, Bauer sarà successivamente indotto a definire tale opposizione  uno degli «errori dell’anno 1842». Se lo Stato non può sottrarsi all’accusa di determinare la propria  identità a partire da un’esclusione, la critica rivolta contro il principio di esclusione finisce per  investire anche lo Stato, poiché vi è un nesso costitutivo fra esclusione religiosa ed esclusione  politica. L’ipotesi interpretativa che guida Massimiliano Tomba nella ricostruzione della complessa  articolazione del pensiero di Bauer in relazione a questo punto cruciale si estrinseca allora nell’idea  che «da questa prospettiva la pretesa universalità dello Stato moderno costituisce in realtà un  momento di neutralizzazione» del conflitto. Muovendo da tali premesse però, si aprono  sostanzialmente due vie: «se il principio di esclusione costituisce l’essenza stessa del politico, come  sembrerebbe essere nel discorso di Bauer, allora l’esito di un suo superamento non può essere che la  neutralizzazione, e quindi nuovamente la forma politica moderna, o la fine della politica» (p. 167). 

La critica del principio di esclusione investe la Staatform (e non la Gesellschaft) e presenta  rilevanti implicazioni anche in relazione alla critica alle Dichiarazioni dei diritti. Un primo piano  della critica è costituito dall’affermazione dell’impossibilità di operare una distinzione fra vita  (Leben) e legge (Gesetz): sotto questo profilo, la libertà e l’uguaglianza sancite nelle Dichiarazioni  verrebbero a naufragare contro la loro negazione di fatto nella vita reale. La scelta della domenica  come giorno di riposo settimanale sancito per legge, ad esempio, diviene contraddittoria rispetto  alla dichiarazione formale dell’uguaglianza di tutte le fedi poiché, coincidendo di fatto con il giorno  di riposo della religione della maggioranza, discrimina il shabbat ebraico. 

Ciò che appare meritevole di attenzione all’interno di questa posizione è il tentativo di Bauer di  pensare l’emancipazione oltre la cornice di un orizzonte strettamente giuridico. Si tratta di una  implicazione che discende dal porre a fondamento dello Stato il principio di esclusione e sottolinea  come la pretesa universalità delle dichiarazioni dei diritti debba necessariamente fare i conti con tale esclusione. Anche in questo caso è possibile rilevare almeno un duplice piano: in primo luogo  infatti, dato che i diritti umani scaturiscono, secondo Bauer, dalla lotta fra coloro che risultano  esclusi e coloro che detengono privilegi, tali diritti non sono né naturali né imprescrittibili, ma  emergono storicamente come esito di una rivendicazione da parte degli esclusi contro gli escludenti.  Affermare l’esistenza di una presunta “naturalità” dei diritti umani, così come si legge nelle  Dichiarazioni, costituisce per Bauer una problematica sovrapposizione della natura alla storia.  Inoltre, sebbene la Dichiarazione francese intenda codificare i diritti dell’uomo e del cittadino, se  guardiamo ai suoi contenuti, continua Bauer, pare possibile osservare una piena sussunzione del  concetto di uomo sotto quello di cittadino. La titolarità dei diritti umani appare subordinata alla  cittadinanza nella misura in cui lo Stato resta il termine ultimo in base al quale definire la libertà  dell’uomo stesso. Ciò risulta evidente per Bauer non solo nel fatto che la libertà dell’uomo incontra  dei limiti nella legge, ma anche perché tale libertà finisce per trovare nella legge la sua stessa  condizione di possibilità dato che non sussiste se non per mezzo di un potere pubblico in grado di  consentirne il rispetto. Questa stessa logica viene estesa al campo di tutti i diritti dell’uomo e  conduce Bauer a porre in evidenza la contraddizione di fondo che li attraversa; tale contraddizione  risiede nel fatto che, nonostante il loro presunto carattere universale, essi sembrano poter valere  soltanto per coloro che fanno parte di uno Stato. Ora, nota Tomba, «se la validità dei diritti umani  viene garantita ancorandoli alla cittadinanza, la natura esclusiva di quest’ultima irretisce i diritti  umani in una contraddizione, in quanto avrebbero una vocazione universalistica e una realtà  privilegiata» (p. 205). Più che una critica della loro astrattezza quindi, Bauer intende mostrare  l’aporia ad essi sottesa rinvenibile nella tensione fra la loro universalità e il loro essere, al tempo  stesso, ancorati alla particolarità – ed esclusività – dello Stato. 

La costruzione di un universalismo politico allora, al pari delle nozioni di libertà ed uguaglianza,  si configura in Bauer come un concetto polemico. La battaglia ingaggiata dagli esclusi contro le  ragioni della propria esclusione costituisce la messa in discussione dello stesso principio di  esclusione. Gli esclusi intendono rivendicare un diritto universale, poiché comprendente anche  coloro che escludono, contro un privilegio; ma in questo concetto polemico di libertà emerge anche  uno dei punti che Tomba giudica più problematici all’interno del discorso di Bauer: se il diritto che  coloro che sono esclusi hanno a rivendicare l’opportunità della propria partecipazione alla libertà  politica si scontra con il diritto all’esclusione esercitato da coloro che detengono tali privilegi, «tra  diritti uguali non può che decidere la forza» (p. 188).

14/11/2009
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