Cosmopolitismo contemporaneo. Moralità, politica, economia
L. Tundo Ferente (Morlacchi, Perugia, 2009)
Scetticismo e visione utopica, rischi globali ed esperienze incoraggianti: come ripensare oggi l’ideale cosmopolitico? Come intervenire nella cosmopoli dei fatti senza farsene travolgere?
Progettualità ideali e sollecitazioni fattuali portano il concetto di cosmopolitismo all’attenzione di un dibattito pluridisciplinare, che ne arricchisce le prospettive, ma ne ridefinisce anche costantemente il senso e la portata ideologica. Quella di cosmopolitismo si presenta, così, come una categoria concettuale estremamente complessa, spendibile tanto su un piano descrittivo, per l’analisi dei processi già in atto nella realtà fattuale, quanto al livello prescrittivo dell’elaborazione di modelli teorici ed istituzionali funzionali ad imprimere una correzione a quegli stessi processi, ad indirizzarli verso obiettivi diversi da quelli che sembrano perseguire o, quantomeno, ad integrarne le finalità. La pluralità degli approcci possibili alle questioni del cosmopolitismo fa sì che tale ambivalenza concettuale si trasferisca anche all’interno delle prospettive teoriche: la stessa progettualità dell’ideale cosmopolitico viene posta alternativamente in continuità o in aperto contrasto rispetto a tendenze omologanti ed egemoniche o a processi di liberazione dal dispotismo e di acquisizione dell’autonomia, intesa nella più vasta gamma dei suoi significati.
Ad uno sguardo analitico-descrittivo la cosmopoli dei fatti appare attraversata da fenomeni contraddittori ed estremamente pervasivi: da un cosmopolitismo degli atteggiamenti, dei consumi, delle comunicazioni, ma anche da crescenti difficoltà nelle relazioni intersoggettive, dalla effettiva limitazione degli spazi politici per l’articolazione di valori e bisogni, dall’adozione di misure di controllo e di censura anche per l’informazione in rete; da una crescente apertura dei mercati e dall’adozione di misure protezionistiche ad hoc; da un accrescimento della ricchezza complessiva, ma anche dall’approfondirsi delle sperequazioni sociali; dalla crisi dei sistemi di welfare e dal ricorso all’intervento pubblico per il salvataggio di banche ed aziende; da tendenze omologanti, distruttive della ricchezza delle differenze culturali e da nuove chiusure identitarie, cementate dalla paura. Ma quali di questi fenomeni corrispondono allo sviluppo e all’attuazione di un progetto di cosmopolitismo deliberatamente perseguito? E quali andrebbero piuttosto catalogati tra gli aspetti deformi di una cosmopolitizzazione coatta, governata da logiche e finalità estranee a quel progetto?
Per dare forma all’ideale cosmopolitico la filosofia morale, politica e del diritto elabora e rielabora incessantemente proposte che rinviano a principi etico-politici e a valori basilari per la convivenza: uguaglianza, pari dignità, rispetto, riconoscimento, governo democratico. La loro disamina può suscitare ragionevoli dubbi ed obiezioni non infondate; tuttavia, spesso non è chiaro se i rilievi critici si indirizzino verso la praticabilità delle soluzioni proposte o verso la stessa desiderabilità degli obiettivi indicati. In questo quadro problematico, il volume a cura di L. Tundo Ferente propone un approfondimento dialogico di alcune delle criticità più stringenti del progetto/processo cosmopolitico. L’indagine sui problemi emergenti a più livelli dell’esperienza individuale e collettiva si accompagna alla ricostruzione delle origini e dell’evoluzione storico-filosofica del pensiero cosmopolitico. L’analisi critico-ricostruttiva porta in evidenza i principi e le finalità più autenticamente riconducibili al progetto di un’utopia cosmopolitica. Tale chiarificazione, unita ad un’attenta valutazione retrospettiva delle ragioni e degli interessi che più volte nella storia hanno procurato un’accelerazione deformante alla costruzione della cosmopoli, permette una riflessione non ingenua sulle proposte più convincenti per governare il processo cosmopolitico in atto o per rielaborarne efficacemente il progetto. Il confronto fra ragioni si esercita, così, sia sul tipo di lettura da fornire ai fenomeni allarmanti e alle tendenze più incoraggianti dell’epoca attuale, sia sulla fondatezza delle premesse teoriche, sulla condivisibilità degli obiettivi e sull’adeguatezza degli strumenti politico-istituzionali indicati dai progetti di cosmopolitismo.
La discussione del volume si apre con un’indagine sulle radici storiche e religiose del cosmopolitismo, inteso come processo di liberazione dell’umanità dal «blocco storico della società ingiusta» e come progetto di un’associazione dei popoli finalizzata alla costruzione di una società di giustizia e di una società fraterna. Giustizia e fraternità universale vengono riconosciuti come i principi fondanti dell’ideale cosmopolitico, principi che trovano un’affermazione decisiva nel messianismo ebraico e nell’annunzio evangelico. Le rivoluzioni della modernità, lo Stato ed il pensiero moderni raccoglieranno l’eredità di questi due grandi movimenti religiosi, ne assumeranno il progetto, procurando una fondazione razionale a quei principi ideali e laicizzandone gli strumenti applicativi (A. Colombo).
Ma è proprio contro alcuni degli assunti teorici fondamentali del progetto cosmopolitico che si indirizza la critica realistica del secondo saggio. I rilievi critici si rivolgono in particolare contro la «premessa metafisica» del pacifismo cosmopolitico kantiano, cioè contro la duplice credenza nella natura morale dell’uomo e nell’unità etica e razionale del genere umano. A tali convincimenti si accompagna la tesi della razionalità ed irreversibilità del processo storico di unificazione culturale e politica del genere umano. Da un simile «monismo» etico-politico non si distaccano gli sviluppi teorici e le proposte istituzionali elaborati da Kelsen, Bobbio e Habermas, ai quali l’autore contrappone un’interpretazione realistica e pluralista dei rapporti internazionali (D. Zolo).
Universalismo dei diritti e riconoscimento reciproco di identità sembrano configurarsi come obiettivi inconciliabili nell’attuale contesto diasporico di una globalizzazione che omologa senza universalizzare, che comprime, ma non unifica, e che spinge, insieme, verso una differenziazione estrema degli schemi interpretativi, fino a lasciarne postulare l’incommensurabilità. La crisi dello spazio pubblico e l’“accettazione dossica del mondo”, in cui sembra essersi assopita la società civile, motivano ad avviare un’attenta riflessione sulle misure da adottare per sviluppare una coscienza critica verso le relazioni di dominio latenti, ma anche per creare un contesto comunicativo adeguato a produrre diritto legittimo, una sfera pubblica aperta a «ospiti inattesi» e capace di garantire a una pluralità di «voci narranti» la pari partecipazione alla determinazione del bene comune (A. De Simone).
Una politica di inclusione delle identità minoritarie che non le costringa all’adeguamento mimetico non può che passare attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze culturali nella sfera pubblica: una società pluralista e «sanamente» multiculturale include l’altro insieme alla sua diversità culturale e non a prescindere da essa. Le politiche del riconoscimento trovano, però, un importante limite in certe «tentazioni essenzialistiche ed organicistiche, che contrappongono le identità le une alle altre, come se fossero monadi». Tali pericolose derive della concezione multiculturalista vanno efficacemente contrastate, promuovendo un modello di identità non monolitica, ma dinamica e relazionale, e dando voce e potere non soltanto ai gruppi, ma anche alla «polifonia interna alle comunità»: la coesistenza pacifica tra “stranieri morali” può essere resa possibile soltanto attuando misure valide a salvaguardare l’identità delle minoranze rispetto alla maggioranza e, insieme, a tutelare le libertà dei singoli rispetto alle minoranze (B. Henry).
Ma come conciliare il pluralismo dei valori con una regolamentazione sovranazionale della messa in esercizio dei diritti, necessaria a preservare quella stessa ricchezza? Il modello democratico si conferma come il più adeguato a far sì che posizioni diverse possano convergere su una base assiologica comune ed articolarsi secondo meta-valori formali condivisi. È proprio a partire da un sostrato valoriale dinamico, ma condiviso, che è possibile dare forma, in un percorso costruttivo di lungo periodo, agli istituti giuridico-politici più idonei a sostenere le domande di riconoscimento delle identità e, insieme, a dare concretezza agli ideali di libertà, eguaglianza, giustizia sociale e autonomia. L’estensione globale del modello etico-politico democratico può suscitare ragionevoli obiezioni, diffidenze e scetticismo. E, tuttavia, alcune scelte politiche non sembrano procrastinabili a lungo, di fronte al preoccupante scivolamento dell’occidente verso forme di democrazia minimale, che trascurano le esigenze prospettiche, per assecondare e catturare l’emotività delle folle. Di qui l’importanza di concepire la democrazia cosmopolitica come un «laboratorio», aperto a proposte diverse e alla più ampia partecipazione della società civile alla determinazione delle scelte collettive, nel rispetto della dignità delle persone e, non da ultimo, nella salvaguardia degli equilibri dell’ecosistema (L. Tundo Ferente). In questo orizzonte prospettico, quella dell’Unione Europea si profila certamente come un’esperienza incoraggiante, che sembra però sfuggire al rigido bipolarismo interpretativo delle tradizioni del realismo e del cosmopolitismo. Nella sua «instabile stabilità», l’UE si presenta come il risultato di una «civilizzazione della sovranità», che supera il paradigma statocentrico, senza però decretare la morte dello Stato. La sua natura sui generis si lascia cogliere nella maniera più adeguata nel quadro dell’ipotesi teorica del neo-regionalismo: il Sonderweg europeo rappresenta un importate esperimento di integrazione fra Stati che scelgono di cedere verso l’alto parte del loro potere, rispazializzando le proprie funzioni nel quadro di processi decisionali di carattere intergovernativo e, insieme, sovranazionale. Un esperimento che, pur sottraendosi alla prospettiva di un’inclusione destinata a procedere su scala globale, può svolgere un ruolo trainante decisivo anche rispetto ad altri contesti politici (A. Loretoni).
Secondo un approccio diverso, ma non per forza antitetico, il caso dell’Unione Europea si presta ad essere interpretato come «la base di partenza per sviluppare una rete transnazionale di governi che potrebbero attivare una politica interna mondiale senza un governo mondiale». Verrebbe così portata a realizzazione l’idea cosmopolitica difesa da Habermas, che rappresenta una delle proposte senza dubbio più convincenti nel panorama filosofico attuale. Allo sviluppo del progetto cosmopolitico habermasiano viene dedicata un’analisi critico-ricostruttiva, che fa emergere l’originalità e la coerenza interna di un pensiero capace, al contempo, di mantenersi aperto ad uno sguardo realisticamente accorto sulle evoluzioni – e involuzioni – della realtà fattuale. Sulla scorta dell’analisi, si sviluppa una riflessione di ampio respiro sui presupposti etici della giustizia e della solidarietà, sulle condizioni del prodursi di un universalismo egualitario – non presupposto come dato, ma progettato e costruito costantemente – e sulle possibilità di una loro anticipazione, che guarda all’attuale condizione di indebolimento delle identità nazionali come ad un’opportunità storica per rilanciare prospettive di dialogo e cooperazione solidale di dimensione globale (E. M. Fabrizio).
Coerentemente al taglio interdisciplinare privilegiato dalla discussione, il volume affronta poi più da vicino una sequenza di fattori problematici, che vanno dalle criticità interne alle dinamiche della globalizzazione economica, all’insostenibilità ambientale degli attuali sistemi di produzione e di consumo, fino alle aporie del cosmopolitismo digitale.
Tra i fenomeni specifici dell’attuale fase di intensa integrazione dei mercati desta particolare preoccupazione l’emergente dissidio fra integrazione economica e diritti sociali: la delocalizzazione permette alle imprese di conseguire indubbi vantaggi competitivi, ma anche di sottrarsi all’obbligo di partecipare al necessario finanziamento del welfare. Il conseguente diradarsi del nesso di responsabilità dell’imprenditore nei confronti della società civile comporta dei rischi notevoli, anche dal punto di vista della stessa gestione aziendale. Benché la mainstream economics stenti ad ammetterlo, le esigenze che si manifestano nella società si traducono in valori meta-economici, trascurabili solo a costo della perdita della legittimazione sociale necessaria a perseguire gli obiettivi di profitto. Negli ultimi anni l’economia si è affidata a modelli formalmente rigorosi, ma scarsamente aderenti alla realtà; una realtà che oggi ne fa impallidire le pretese euristiche (F. Giaccari).
Le cause del dissesto ambientale possono essere riportate all’azione combinata di tre «illimiti»: del sapere tecnico scientifico, del profitto e del desiderio. Dall’argomentazione di questa tesi emerge la necessità di un ripensamento radicale del concetto stesso di sviluppo: la crescita del PIL non può costituire la misura del progresso umano; la globalizzazione economica non ha portato all’eliminazione della miseria, ma all’aumento delle disuguaglianze; i fattori di crisi non sono meri accidenti e il sistema capitalistico non è insostituibile né privo di alternative; la produzione e il consumo compulsivi causano disastri ecologici e non contribuiscono alla felicità delle persone, perché sospingono costantemente verso l’alto la soglia del soddisfacimento del desiderio. Di qui la discussione di molteplici proposte finalizzate ad attivare una prassi ecologica e cosmopolitica, promuovendo il passaggio dall’ideologia consumistica a un’etica della sobrietà e favorendo la formazione di una coscienza ecologica, dalla quale potrà prodursi anche una nuova prassi economica (C. Quarta).
Il volume si conclude con un’analisi del fenomeno della cosmopolitizzazione digitale, che ne mette in luce gli aspetti di continuità rispetto ad altri processi di diffusione delle tecnologie di comunicazione e di trasporto. Già in epoche precedenti a quella attuale, lo sviluppo delle reti ha dato impulso ad una duplice utopia: la realizzazione di una repubblica mercantile universale e l’esportazione su scala globale di modelli politico culturali fondati sul riconoscimento dei diritti universali dell’uomo. Nel corso degli anni il “continente invisibile” è diventato terra di elezione tanto per le utopie libertarie dei comunitari, quanto per quelle liberiste dell’imprenditoria della New Economy. Utopie che oggi sembrano segnare il passo, ostacolate anche dal processo di balcanizzazione che sta investendo la rete: leggi locali ed interessi particolari cominciano a imporre confini geografici, politici e culturali anche a una forma di comunicazione finora ritenuta libera, orizzontale, tecnicamente impossibile da controllare (C. Formenti).