Catastrofi generative. Mito, storia, letteratura

M.S. Barberi (Transeuropa, Massa, 2009)

I recenti sconvolgimenti della stabilità politica dell’area magrebina hanno rivelato l’esistenza  di forze senza epicentro capaci di scatenare una violenza pari, se non maggiore, a quella di eventi  catastrofici. Dal crollo delle prime strutture di controllo e contenimento dell’ordine sociale, è emerso  immediatamente che i sistemi della società mediatica non hanno retto all’urto improvviso della  società virtuale. La global governance geme sotto i colpi del global network. Forze, in fuga di libertà  – da un lato, e in ebbrezza di libertà – dall’altro, si inseguono in un circolo vizioso, come le due  “sorelle” degli enigmi tebani, che si sono generate l’una l’altra, e delle quali la seconda, a sua volta,  è generata dalla prima. Se la catastrofe in atto delle forme culturali, rituali e legali rimarrà senza  precedenti, soprattutto in termini di vittime sacrificali, non aiuterà certo emulare Edipo che si è  accecato per non guardare allo scempio di ciò che aveva generato. Bisognerà convertire piuttosto la  virale arroganza culturale con cui si dipinge il nemico se si vuol evitare la paradossale escalation delle  maledizioni che ancora Edipo ha lanciato contro se stesso. Che le Erinni si trasformino in Eumenidi  richiede tuttavia il sacrificio del pentimento. Girard insegna che la violenza è necessitata, più che  necessaria, ma è ancora l’apocalittica girardiana che guarda alla violenza della Croce come la sola  forza che interrompe “la nuda violenza mimetica delle relazioni umane.” L’apocalisse è ora. Scrive  Maria Stella Barberi, “è il tempo cruciale (…) in cui una decisione esistenziale è possibile.”

Mentre le folle si accavalcano, e le vittime si schiacciano nell’angusto spazio sacrificale  dell’arroganza senza progetto, solo una generazione malvagia cerca ancora un segno. A questa  richiesta Lc 11, 29b risponde: “non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona.”

Nonostante buona parte degli autori che hanno contribuito al volume Catastrofi generative,  appartenga cronologicamente alla generazione che con la sua peculiare policy making top-down (procedure amministrative standardizzate) ha mistificato, senza ombra di pentimento, l’ordine con il  suo più famelico desiderio di appropriazione, tale da detenere il pesante primato di aver reso più  povera la generazione dei suoi stessi figli, bisogna riconoscere alla collettanea curata da Barberi, il  merito di rappresentare una pietra lanciata nello stagno dell’indifferenziazione mimetica. Al lettore il  compito di realizzare la speranza verso cui si aprono i cerchi concentrici generati da questa azione.

Il volume Catastrofi generative. Mito, Storia, Letteratura, curato da Maria Stella Barberi per i  tipi della Transeuropa, raccoglie i contributi degli studiosi che hanno preso parte ai lavori del  convegno internazionale dell’aprile 2009, organizzato dal Centro Europeo di Studi su Mito e  Simbolo, dell’Università di Messina: “Katastrophé tra ordine culturale e ordine naturale”. In realtà,  tanto il simposio quanto il volume che qui presento nascono dagli interrogativi che la curatrice ha  sollevato in occasione delle consultazioni cittadine per le celebrazioni del 100° anniversario del  catastrofico terremoto che, il 28 dicembre 1908, devastò l’area dello Stretto di Messina. Usa il  corsivo, nella sua Introduzione al volume, la stessa Barberi, per sottolineare la domanda sull’evento  stesso, ovvero se si debba considerare la catastrofe come il primo evento globale, o non piuttosto,  nella fattispecie, l’ultimo evento regionale. È auspicabile, avverte la curatrice, che non sia la creazione  di “eventi che fanno parlare di sé”, come le effimere celebrazioni mediatiche di questo come di altri  eventi, a dire il bisogno di legittimità che la comunità messinese del secolo scorso ha vanamente  ricercato nelle sue istituzioni politiche . La centenaria storia post-terremoto della città di Messina è  quella di una polis “senza eventi”. Non è quindi incongruo, sostiene Barberi, pioniera degli studi  girardiani in Italia, ripartire da quel terremoto che segna la storia dello spazio politico e della comunità  che lo abita, per rileggerlo, alla luce della grande intuizione di René Girard sul sacrificio, ovvero  evento generativo di cultura, contrapposto come un non nulla carico di significati, al nulla degli  sconvolgimenti naturali, che lasciano “interdetti e privi di parola”. È nella piccola chiave di volta  sacrificale che le tendenze socialmente disgreganti e indifferenziatrici dell’evento naturale invertono  il loro corso, sottolinea la curatrice. E dunque -così si legge nell’Introduzione al volume – anche l’atto  di consacrazione della città dello Stretto al S. Cuore di Gesù, nell’aprile del 1934, e l’inaugurazione,  nello stesso anno, della statua della Madonna della Lettera posta sul basamento del forte San  Salvatore, nel porto della città, con la sua formula Vos et ipsam civitatem benedicimus, assumono un  significato inaugurale che bene esprime quel bisogno di legittimità e protezione che neppure la  catastrofe naturale, meno ancora quella culturale che ne è seguita, ha mai soggiogato. 

Da qui, dunque, l’attenzione di Catastrofi generative si sposta sulle forze in gioco nella  catastrofe. Tuttavia, l’antologia degli interventi critici contenuti nella collettanea non è un’ontologia  della catastrofe, né una fenomenologia dell’evento; è piuttosto una analisi attenta e scrupolosa di  quelle forze che agiscono e riempiono la storia dell’uomo, con le sue cosmogonie e i suoi miti  dell’origine.  

La forza di tutti gli eventi “indifferenziatori”, è la stessa, sia quando sfigura – inizi Novecento – il volto delle due comunità stanziate sulle omeriche sponde dello Stretto, sia quando mette in scacco  tutti gli ordini sociali costituiti, fin nei quattro angoli della terra. Anzi, il caos dell’ordine naturale è sempre accompagnato dallo sconquasso degli ordini sociali. Avviene dunque per la rappresentazione  della fine della vita e del mondo, connessa all’evento catastrofico, come per la paura atavica “del  lupo”, che da Esopo a La Fontaine ha generato i nostri miti. La catastrofe lancia al pensiero e alle  paure dell’uomo la sfida della creazione e della continuazione degli ordini sociali. E in terra sicula,  genitrice di miti tra i più fecondi, quattordici studiosi, tra cui i più autorevoli della teoria mimetica,  rispondono alla sfida; ed è lo stesso Girard, presente nel volume con Mito e Antimito. Il terremoto in  Cile di Kleist, del 1985 (ora edito in italiano), a porre l’ordine delle domande entro cui si muove il  confronto. Alla forza distruttiva del mito si contrappone quella generativa dell’antimito. Proprio al  quarantesimo “immortale” dell’Académie française il volume è interamente dedicato. Qui di seguito  mi limiterò ad una breve disamina di alcuni dei quattordici saggi contenuti nel volume, partendo  proprio da quello di apertura, di René Girard. Il padre della teoria mimetica propone un’altra  pagina della sua magistrale analisi del concetto di mimesi. L’assioma girardiano è che caratteristica  peculiare dell’imitazione è il desiderio, ovvero, “più precisamente, il desiderio di appropriazione.”  Ora però, quella del desiderio d’appropriazione è una dimensione carica di conflitto poiché la rivalità  che ne scaturisce innesca nell’uomo, diversamente da tutti gli altri esseri viventi, un processo che  conduce rapidamente alla “vendetta senza limiti.” L’esclusione di questo sostanziale aspetto del  comportamento umano dal concetto di mimesi platonico-aristotelica, rappresenta per Girard il limite  della mimesi classica e di tutte le sue applicazioni, in particolare nella produzione di opere letterarie.  La filosofia, la psicologia, la sociologia e la critica letteraria hanno falsato il concetto di mimesi e ne  hanno dato una definizione unilaterale, eliminando del tutto la dimensione conflittuale. Dopo Platone,  “tanto la mimesi estetica quanto quella pedagogica vengono valutate solo positivamente” (p. 4). 

Questa constatazione, sul piano letterario, ha consentito a Girard di distinguere tra opere mutili  di desiderio mimetico e opere di “rivelazione mimetica”. I drammi e i romanzi della nostra più grande  letteratura e i capolavori dell’antichità, sono intrisi di questo “elemento oggettivo di superiorità” – afferma Girard – in quanto riescono a cogliere la portata complessiva del comportamento mimetico,  ovvero mostrano le due “facce” della mimesi, quella disgregatrice della comunità e quella che la tiene  unita. Bisogna chiedersi dunque, sottolinea Girard, “come può la mimesi conflittuale e distruttiva  trasformarsi nella mimesi dell’educazione e dell’apprendimento, indispensabile per la creazione e la  continuazione della società umana?” 

Il saggio del teologo Hamerton-Kelly analizza il rapporto tra natura e cultura alla luce della  domanda se esista o meno un ordine morale nella storia. Attraverso una stringata sintesi dei punti più  salienti della teoria mimetica di Girard, l’autore di questo saggio spiega perché il mito del moralismo  secondo cui le catastrofi naturali nella storia dell’umanità colpiscono solo i corrotti e preservano coloro che sono puri, è demistificato dal Vangelo. Dai libri di Daniele, Giobbe, dei Proverbi, dei  Salmi, fino a Qoèlet, emerge la perfetta descrizione della fredda “immoralità” della catastrofe (p. 27),  “senza senso, guidata dal tempo e dal caso”, a cui si oppongono, a più riprese, le parole di Gesù. Due  sono i passaggi, in particolare, presi in esame dal teologo metodista: Lc 13,1-5 e Gv 9,1-3. Le parole  di Gesù svelano la totale vulnerabilità degli esseri umani alla catastrofe e l’impossibilità umana di  conoscere la natura della divina causalità. È nell’esercizio dunque della libertà di conversione delle  proprie azioni che Hamerton-Kelly ripone il vero rapporto tra natura e cultura. Ciò è sottolineato da  Gesù in Lc 13,5 con le parole “se non vi convertirete”. 

Se è vero che esiste un ordine morale della storia, è vero altresì che non esiste alcun ordine  morale nella storia: “il Vangelo sostituisce l’ordine etico del mondo con la relazione personale con  Gesù”. Ecco dunque che gli ammonimenti di Gesù, anche quello contenuto in Mc 13, 1-2, più che  svelare l’aut-aut della storia, conducono a un ripensamento del suo ordine morale. Se l’innocenza,  e finanche la bontà, sono come “un osso nella gola della storia”, la violenta immoralità della storia ci  proietta “oltre il nostro controllo” della violenza, al di là della nostra comprensione della catastrofe  naturale, verso l’ “eukatastrophé” della Resurrezione. 

Ci riporta alla letteratura, in particolare a quella siciliana magistrale di Giovanni Verga, il saggio  di Francesco Mercadante. Quasi a voler offrire una esemplificazione delle tesi sostenute da  Hamerton-Kelly, la lettura della catastrofe verghiana di Mercadante ridisegna la fredda immoralità  della natura, del non senso, della morte, a cui si oppone, non la Religione della buona violenza, né la  disperazione della salvezza, ma la ferrea volontà dei vinti, che regge fino in fondo ai colpi del destino.  Attraverso quel patrimonio immenso di nobiltà morale che appartiene ai protagonisti dell’opera  verghiana, si sviluppa una psicologia omerica, “quasi evangelica”, scrive Mercadante, capace di  affrontare la furia degli elementi. Raccolti e seduti l’uno accanto all’altro davanti all’altare  dell’Addolorata, i Malavoglia non stanno in chiesa per scaldare la panca ma per necessità di spirito,  da cristiani fedeli e praticanti, fautori di quella “spontaneità sociale” in cui patron ‘Ntoni si staglia  come l’Ecce homo della cultura siciliana. E Mercadante ricorda, con le parole del critico verghiano  G. A. Borgese (p. 49), che in questa valle di lacrime che è la vita terrestre, infausta e iniqua ai buoni,  propizia forse qualche volta ai malvagi, “quanto più il cuore è nobile, tanto più è probabile la Via  Crucis (p. 52)”. Ecco perché la religione di patron ‘Ntoni e dei suoi familiari è religione – ad  imitazione del loro Dio – delle opere.

È ancora una pagina di alta letteratura italiana, quella dantesca, che permette a Maria Stella  Barberi di spingersi al di là delle logiche, apparentemente insensate, della catastrofe naturale.  Rivisitando e annotando inediti legami nella teologia politica delle Cantiche e della Monarchia,  l’autrice legge, nel terremoto del XII Canto dell’Inferno, i segni precursori con cui colui che la gran  preda levò a Dite ha riscattato l’uomo dal caos di quella violenza che l’ha precipitato nell’abisso della  sua condanna. L’evento catastrofico del terremoto nell’Inferno si carica quindi di potenza rituale simbolica tale da conquistare uno spazio, sovvertendolo in un nuovo inizio: questa è, per l’autrice del  saggio, la “vendetta di Dio”. Nella descrizione della discesa agli inferi del XII canto dell’Inferno,  Dante ci parla della “passione del Minotauro” come di una “allegoria in factis” del tradimento nelle  relazioni tra gli uomini che Gesù vendicò con la propria morte. Protagonista delle passioni politiche  del suo tempo, Dante riconosce nella profezia del grande sacerdote Caifa “che un uomo muoia perché  la comunità sia salvata”, la logica di una verità religiosa, attraverso cui la natura giunge al termine  ultimo della propria intenzione. Nonostante il Medioevo non avesse ancora colto gli stretti legami tra  il culto antico del sacrificio umano e la violenza collettiva e fondatrice del linciaggio liberatore, la  fede nel sacrificio di Cristo – sottolinea Barberi – implicava già a quell’epoca una sensibilità  antropologica ai trasferimenti di ostilità, non descritti scientificamente, come oggi fa Girard, ma ben  radicati sul piano delle pratiche simboliche e religiose. Dante sa cosa significhi il “volgere al peggio”  della violenza, ma, al profondo spirito cristiano del Poeta, il sacrificio di Cristo appare già più di un  semplice riscatto della violenza per via rituale: un sovvertimento rituale del rito del capro espiatorio.  Nella storia, il Cristo “addita, oltre l’unità figurale di tutti i riti sacrificali, il passaggio dal luogo  giuridico-spaziale del rito ebraico” a quello “teologico-politico in cui il mistero del sacrificio religioso  si dispiega nella temporalità delle operazioni umane” (p. 80). E qui non si tratta neppure – sottolinea  ancora Barberi parafrasando Blumenberg – di fare storia per scagionare Dio. Si tratta piuttosto di una  poetica della conversione di Dio all’umano sentire, come delle infinite operazioni del cuore dell’uomo  alla relazione col suo “fattore”. Il terremoto prodotto alla morte di Cristo – si legge in chiusura del  saggio – è nomen et omen di presa di possesso di uno spazio non sempre confortevole da vivere ma  che può essere attraversato. È nelle maglie della ritualità simbolico-religiosa che l’uomo “stringe”,  trattiene il suo caos. Nello spazio sacrificale dell’uomo, Dio si sacrifica come atto d’eccellenza del  modello che apprende, dal suo imitatore, come imitare e farsi imitare. Evento salvifico, dunque, per  l’uomo, che non soccombe alla violenza del suo caos, e dei suoi tentativi di ordinarlo; evento salvifico  di Dio, la cui violenza, nel linguaggio umano, diventa “vendetta” che genera catastrofe e dona  resurrezione. Qui dunque Barberi legge la “vendetta di Dio” della Monarchia alla luce della  sensibilità latina medievale in cui vindicare significa “rivendicare a sé e non punire.”

Il saggio di Wolfgang Palaver sulle sfide apocalittiche del nostro tempo, si sofferma sulla  visione cristiana della storia che percorre le pagine dell’ultimo Girard da Vedo Satana cadere come  la folgore a Portare Clausewitz agli estremi. È sotto il segno della virtù cristiana della speranza che  Palaver rilegge l’apocalittica girardiana; intanto perché è lo stesso Girard a strappare di mano  l’apocalittica ai fondamentalismi, quando chiarisce che essa non va interpretata come “guerra di Dio  contro gli uomini”, quanto piuttosto come una minaccia puramente umana, “una anticipazione  razionale di quello che gli uomini rischiano di fare gli uni agli altri.” Girard è apocalittico – sottolinea  ancora Palaver – perché prende sul serio le profezie apocalittiche dei Vangeli. 

Sulla scorta dello scambio epistolare intercorso tra Umberto Eco e il Cardinale Martini, Palaver  ripercorre la domanda se esista – a fronte della fine di ogni ideologia, di ogni solidarietà e del  consumismo narcotizzante e irresponsabile della nostra storia – “una nozione di speranza che credenti  e non credenti possano condividere”. Solo l’apocalittica cristiana ci permette di “predire” il senso  della storia. Tutte le catastrofi sono possibili. Palaver cita Dupuy quando ripete che quand’anche  l’uomo fosse in grado di sapere quanto la catastrofe è imminente, quanto “tempo attualmente  occorrente” si possa calcolare per far fronte alle contromisure, non crederà fino alla fine alla massima  probabilità che essa accada: “noi non ci crediamo, non crediamo che sappiamo.” E dando ragione  della dimensione teologica della speranza, lo studioso austriaco spiega perché “dobbiamo transitare  da una metafisica del tempo attualmente occorrente a una metafisica del tempo proiettato. Per  permettere all’umanità di procrastinare l’attuazione di catastrofi future, è necessario proiettarsi nel  futuro per “fare i conti con le catastrofi verosimili, così acquisendo la capacità di agire oggi in modo  che tali catastrofi vengano allontanate.” Perché – conclude Palaver con le parole di Jorge Louis  Borges – “il futuro è inevitabile, ma può non accadere”. 

19/03/2011
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