Beni relazionali e impresa editoriale

In questo articolo, si vuole mostrare come si possano produrre e consumare (o ‘pro sumare’) dei beni relazionali nell’impresa editoriale. In una simile realtà socioeconomica,  sono coinvolte una molteplicità di figure, in particolare, case editrici, librerie, lettori e scrittori. A partire da una panoramica sull’origine dei beni relazionali nell’economia civile e sul mercato editoriale italiano, si vogliono rappresentare due tra le relazioni fiduciarie e  reciproche che possono sorgere nel mercato editoriale, ossia quella lettore-libreria indipendente e quella scrittore-casa editrice. Questi incontri che possono avvenire nello  spazio editoriale non restituiscono semplicemente dei rapporti di natura economica, ma  delle relazioni che possono essere pienamente inquadrate nell’ambito dei beni relazionali.  Ad esempio, nella relazione che si può stabilire tra il lettore e la libreria, si evidenzierà, da  un lato, come il lettore possa passare dall’essere un consumatore disorientato nel mercato  editoriale a essere un fruitore consapevole di un prodotto intellettuale; dall’altro lato, come la  piccola libreria sia una alternativa alle grandi catene di distribuzione per offrire un prodotto  meno competitivo, ma più attento alle preferenze del lettore. Quanto alla relazione tra scrittore e  casa editrice, si vuole porre l’accento su quegli autori che, pur avendo raggiunto un certo successo, decidono di ancorare il loro nome a un editore minore solo per il legame di fiducia che si è stabilito nel corso degli anni, andando oltre la logica di mercato.  

1. Un panorama sull’origine dei beni relazionali Le prime formulazioni dei cosiddetti ‘beni relazionali’ risalgono alla fine degli anni  Ottanta, attraverso gli studi indipendenti, ma contemporanei, di Donati, Gui e Uhlaner, Nussbaum. Nella versione di Donati, i beni relazionali costituiscono il fatto emergente  dell’azione, i quali non dipendono né dagli effetti delle decisioni intraprese dagli agenti economici, né dall’ambiente circostante. Piuttosto, questi rappresentano il prodotto o  l’effetto delle relazioni stesse, le quali comportano una modifica della volontà degli agenti  coinvolti in questo processo interattivo. Nella fattispecie, secondo Donati, questi beni hanno comportato una ridefinizione della semantica dell’amore in direzione di una riflessività relazionale, la quale ha consentito di differenziare e di restituire le singole

sfumature che questo concetto può assumere. Grazie a tale ridefinizione, l’amore può  diventare altresì ‘cura nella relazione sociale’: entro la dinamica di rinnovamento  dell’esperienza con gli altri, la creazione di beni relazionali conduce così al cambiamento dei moventi dei soggetti coinvolti nell’azione. Da questa peculiare relazionalità emergente, gli individui si trovano a cooperare in maniera fiduciaria e reciproca: qualsiasi scambio,  persino di carattere commerciale, finisce per assumere una valenza fortemente simbolica e fungere da promotore per la coesione e l’integrazione sociale. In questa rinnovata  relazionalità nei rapporti interpersonali, Donati vede il sentiero percorribile privilegiato  per il superamento delle prospettive individualistiche e olistiche dominanti nella società  contemporanea. 

Allo stesso modo, Gui ritiene che i beni relazionali siano legati alle logiche interpersonali,  quindi non saranno mai un prodotto dell’efficienza individualistica, come quella imperante  nel mercato neoliberale attuale. Qui si colloca quello che definirei come il ‘paradosso  neoliberale’, per cui l’espansione delle libertà di mercato comporta una contrazione delle  libertà individuali, accentuando la competitività e le disuguaglianze interpersonali. Alla luce  dei beni relazionali, l’efficienza neoliberale diventa una forma di inefficienza a tutti gli  effetti, dato che l’individualismo che questo criterio porta con sé erode e impoverisce lo  spazio relazionale. Prossima alla proposta di Gui, c’è quella di Uhlaner: i beni relazionali  consistono nella non arbitrarietà della reciprocità tra due o più individui, come relazione voluta  dai soggetti coinvolti. Sia Gui che Uhlaner enfatizzano come nel consumo-produzione di  beni relazionali sia sempre richiesta la presenza di almeno due individui, così da creare  quello spazio che permetta la realizzazione di una relazione reciproca. Affinché ci sia  questa forma di godimento del bene relazionale, è necessario che avvenga una forma di  condivisione: a riguardo, Gui tiene a precisare, data la sua formazione economica, che il  bene relazionale vada tenuto distinto sia da quell’attività definita da Bruni come ‘pro-sumo’ (produzione e consumo) del bene relazionale stesso che dall’incontro come forma di  interazione sociale che porta alla produzione di beni relazionali, in qualità di output di carattere intangibile e fonte di arricchimento del capitale umano individuale. Infine, nella proposta di Nussbaum, si percepisce la eco del pensiero del suo maestro, Amartya Sen: i beni relazionali non sono altro che relazioni non strumentali che vanno a  soddisfare quel bisogno umano di interazione sociale. In questa prospettiva, il bene  relazionale esprime il rapporto in sé tra gli individui, ragion per cui la relazione intersoggettiva  non può esistere indipendentemente dal bene che viene consumato e prodotto nello  spazio relazionale. O, meglio ancora, si può affermare che sia proprio la relazione in sé a  costituire il bene economico: ciò permette di differenziare i beni relazionali da quelli in cui  la qualità della relazione che si stabilisce tra i soggetti coinvolti è pur sempre un elemento 

decisivo, come nei servizi alla persona, ma in cui bene economico e relazione vengono  considerati come distinti e separati. In Nussbaum, quindi, risulta assente quella terzietà  che si può rintracciare in Gui e Uhlaner, in cui il bene relazionale diventa il ‘terzo’ della  relazione. 

La nozione di bene relazionale della filosofa americana si presenta come complessa, ma  sintetizzabile nelle categorie di reciprocità, persistenza, movente e insostituibilità. Per spiegare  come la relazione possa diventare un bene relazionale, occorre un confronto coreutico tra  queste categorie: innanzitutto, questi beni ‘nascono’ e ‘muoiono’ nello spazio e nel tempo  in cui si stabilisce la relazione stessa, quindi il fondamento dei beni relazionali coincide  con la categoria della reciprocità, mentre la loro esistenza è legata alla categoria di persistenza  di questa relazione in un certo arco di tempo. La conseguenza diretta di ciò è che, senza  relazione, non può esistere il bene relazionale, facendo sì che questo sia distinto dal  sentimento corrispondente a questo genere di relazione: ad esempio, il bene relazionale  ‘amore’ è frutto del rapporto di reciprocità tra due individui che ‘vive’ fintantoché sussiste  questo genere dinamico di relazione, mentre il sentimento ‘amore’ può esistere anche in  assenza della relazione, come quando questo non viene ricambiato dall’altro. Parimenti, la  categoria di movente, sotteso alla produzione e al consumo di un bene relazionale, è  necessaria per distinguere questa relazione dal semplice rapporto di natura economico strumentale. Solo attraverso la conoscenza del movente di una certa interazione che posso  comprenderne la sua natura, ossia se come rapporto economico oppure come relazione reciproca. Infine, c’è la categoria dell’insostituibilità dei soggetti coinvolti: ad esempio, una  volta conclusa un’amicizia, potrei crearne un’altra, ma questa non potrà mai sostituire  quella venuta meno. L’incontro di un nuovo amico dà origine a una relazione inedita e  nuova, poiché un bene relazionale è strettamente legato alle identità dei soggetti coinvolti.  

2. Le formulazioni più recenti sui beni relazionali Dopo questa panoramica sull’origine dei beni relazionali negli anni Ottanta, si ritiene  opportuno gettare uno sguardo sulle riflessioni più recenti sul tema. La diffusione della prospettiva relazionale in ambito economico è stata in gran parte favorita dal riconoscimento dei limiti dell’individualismo di matrice neoclassica per la comprensione  della complessità dell’agire umano. Come sostiene Zamagni, l’egemonia neoclassica ha  fatto sì che l’economia si orientasse soprattutto allo studio di quelle condotte conformi  alle sole motivazioni estrinseche, come nel paradigma dell’homo oeconomicus. Queste motivazioni hanno una natura strumentale e sono frutto della volontà di massimizzazione  del proprio benessere individuale, mettendo così tra parentesi l’insieme delle motivazioni  intrinseche che, al contrario, sono caratterizzate da una natura non strumentale e risultano  spontaneamente rivolte verso l’altro. Negli ultimi anni, si è progressivamente compreso  che la logica dell’avere, come semplice ricerca dei mezzi per uno scopo, sia insufficiente

per esprimere questi bisogni afferenti alla dimensione identitaria dell’esistenza umana, i  quali possono essere soddisfatti solo grazie alla trama relazionale che l’individuo può  stabilire con gli altri: da qui, non solo la nascita, ma la diffusione della prospettiva  relazionale in ambito economico. 

Le caratteristiche che consentono di definire un bene come ‘relazionale’, sono state  efficacemente sintetizzate da Bruni, uno dei massimi esponenti dell’economia civile  italiana, insieme a Becchetti e Zamagni, ovvero di quella economia di mercato basata su  principi come la divisione del lavoro, la solidarietà intergenerazionale di matrice giudaico 

cristiana e la libertà di impresa. Il fine di queste imprese risulta essere la realizzazione del  bene comune che differisce dalla nozione di bene totale perché è frutto non di una  sommatoria di livelli di utilità (benessere) individuali, ma di una ‘produttoria’, per cui  annullando anche uno solo di questi livelli di riferimento, si annulla lo stesso risultato  finale. In questo modo, la condizione di ogni singolo individuo risulta di fondamentale  importanza anche sotto un profilo quantitativo. Si assiste così a una polarizzazione intorno  all’uomo inteso come persona, non più come un semplice agente economico, tendenza  estesa alle stesse realtà aziendali e istituzionali.  

Secondo Bruni, le caratteristiche definiscono un bene come ‘relazionale’ sono quelle  di identità, reciprocità, simultaneità, motivazione intrinseca, fatto emergente e gratuità. Per avere un  bene relazionale, occorre conoscere l’identità dell’altro con il quale ci si va a rapportare,  mentre la reciprocità esprime la modalità con la quale si realizza questa interazione che si  caratterizza sia per l’assenza di un bene di consumo in senso stretto che per la dialogicità  di questa fruizione. Invece, la simultaneità rimanda alla sincronicità del ‘pro-sumo’ di questi beni che differisce dal consumo dei beni posizionali. Difatti, i primi “si producono e si  consumano simultaneamente, il bene viene co-prodotto e co-consumato al tempo stesso  dai soggetti interagenti”, mentre i secondi prevedono che la produzione e il consumo sia  differito nel tempo, spesso, anche nello spazio. Quanto alla motivazione intrinseca, spiega la  spinta per questo ‘commercio’ che restituisce la cifra dell’utilità derivante dalla reciprocità.  Sia la motivazione intrinseca che l’utilità nella reciprocità sono esclusivi dei beni relazionali  e possono subentrare anche nell’ambito di un rapporto inizialmente strumentale,  assumendo così la cifra del fatto emergente, che crea un bene relazionale a tutti gli effetti. Nel caso dell’interazione che si stabilisce tra un insegnante e uno studente, ad esempio,  si può assistere a una duplice dinamica: entro la semplice logica dell’economia della  conoscenza, questa interazione può restare un semplice rapporto socioeconomico, in cui  avviene un trasferimento di conoscenze dal docente allo studente, in cui il processo di  apprendimento non è altro che una riproduzione di conoscenza. All’insegnante spetta  un salario per questa sua prestazione lavorativa, allo studente compete l’adempimento dei  suoi impegni fiscali nei confronti dell’istituzione ‘università’ attraverso la regolarizzazione  delle tasse d’iscrizione. A sua volta, a questo insieme di conoscenze trasferite corrisponde  una spendibilità lavorativa, quantificabile anch’essa in termini monetari. Parallelamente a  questa relazione strumentale, può sorgere il fatto emergente, ossia che la relazione 

insegnante-studente non divenga solo un trasferimento di conoscenze, ma può far  scaturire una reciprocità gratuita, basata su valori come stima e fiducia, che va oltre la  dimensione economica di questo rapporto. Il bene relazionale non annulla l’asimmetria  dei rispettivi ruoli, ma equivale a riscoprire ciò che accomuna entrambi in quanto esseri  umani, arricchendo così il rapporto socioeconomico, grazie a un’utilità non economica.  

Infine, c’è la gratuità di questa reciprocità che consiste nel tendere all’infinito di questo  valore, ragion per cui non si tratta di un prezzo nullo. In particolare, si delinea una  correlazione positiva tra il valore dei beni relazionali e il loro uso, così come il loro mancato  utilizzo, comporta una progressiva perdita del loro valore nel tempo, fino alla loro  estinzione. A queste sei caratteristiche individuate da Bruni, ne aggiungerei una settima,  ossia quella di generatività. Introdotta nella psicologia evolutiva da Erikson per qualificare  lo stadio adulto, ossia quell’intervallo della vita umana ipoteticamente compreso tra i 40  e i 65 anni, questa categoria viene impiegata in economia civile per riferirsi a quelle  relazioni generative di beni relazionali in cui l’individuo desidera, fa nascere, accompagna e sa  lasciare andare. Analogamente alla sua genesi psicologica, questa generatività implica un  duplice atteggiamento di cura: ossia di prestare cura all’altro e di ricevere cura dall’altro, affinché  il bene relazionale, ossia il terzo di questa relazione, possa essere ‘pro-sumato’ nello spazio  relazionale che si crea tra i soggetti coinvolti in questa attività di cura. Lungo il sentiero che conduce alla generatività, questa rappresenta lo stadio della maturità dell’esistenza  umana, in cui domina il desiderio di cooperazione, ovvero l’uscita dal narcisismo giovanile,  in cui domina l’individualismo. Ciò fa comprendere perché questo paradigma possa  prestarsi bene per rappresentare quella dinamica di uscita dai limiti connessi  all’individualismo proprio della società contemporanea verso una società futura più  ‘matura’. L’insieme delle caratteristiche che definiscono lo statuto dei beni relazionali conferma  che il contributo di questi risulta estremamente significativo per una possibile inversione  di rotta rispetto allo scenario economico contemporaneo. Ciò si traduce principalmente  nel ripensamento e nello spostamento dall’interesse all’inter-esse. Tale dinamica comporta,  da un lato, l’abbandono di una prospettiva non solo individualistica, ma ‘mercatocentrica’,  nella quale gli interessi economici di consumatori e delle imprese entrano in conflitto,  danneggiando così lo stesso spazio politico, ossia quello che sta ‘tra’ le persone, perdendo  così la dimensione del terzo; dall’altro lato, il transito verso una prospettiva comunitaria e  ‘non contrattuale’, in cui la cooperazione dei diversi agenti economici assume un carattere  spontaneo e circolare, riconquistando così lo spazio politico, ossia quello in cui si può  recuperare la dimensione del terzo, grazie alla produzione e al consumo di beni relazionali.  Assumere una prospettiva comunitaria e ‘non contrattuale’ non indebolisce la realtà  economica che ci circonda, ma mostra come gli agenti economici, le imprese e il mercato  possano avere un valore maggiore, persino eccedente quello quantitativo, restituito da  stime come reddito, profitto o flussi finanziari.

Invece, agli arbori della riflessione sui beni relazionali di Sudgen, uno dei massimi  studiosi mondiali del pensiero di Amartya Sen, si trovano figure affini al filosofo ed  economista indiano, come quelle di Adam Smith e Martha Nussbaum. Nella sua proposta,  le categorie fondamentali per la produzione dei beni relazionali sono quelle di coltivazione e  di manifestazione della corrispondenza dei sentimenti, nonché di immedesimazione con l’altro. In  assenza di questi requisiti, non possono darsi beni relazionali. Circa il debito di Sudgen  verso Smith, questo va individuato nella sua Teoria dei sentimenti morali, in particolare, nel  concetto di fellow-feeling. Con ciò si indica non una forma di altruismo, bensì una simpatia  reciproca che si stabilisce tra gli essere umani, capace di suscitare piacere nell’individuo.  Secondo Sudgen, i beni relazionali richiedono questa percezione di sentimenti, in cui le  relazioni interpersonali sono portatrici di valore intrinseco: quest’ultimo è conferito dalla  sociality, attraverso la quale gli individui sono in grado di assumere coscienza del loro fellow feeling che si manifesta nella trama delle interazioni sociali. Come per Nussbaum, da un  lato, i sentimenti sono il requisito della relazione, ma vengono tenuti distinti dal bene  relazionale, nonostante i sentimenti potrebbero sussistere anche in assenza della relazione  stessa, mentre il secondo è il prodotto di questa specifica forma di interazione sociale;  dall’altro lato, Sudgen sottolinea la fragilità dei beni relazionali, data la loro stretta  dipendenza in maniera paritaria dei soggetti in essi coinvolti. Questa prospettiva non è  esente da limiti: la simpatia risulta pericolosa, in quanto si incorre nel rischio di una  eccessiva immedesimazione nell’altro, con risvolti unipatetici.  

Nella lettura fenomenologica dei beni relazionali, ad esempio, non è la simpatia, ma è l’empatia a dover dominare in questo genere di relazione: innanzitutto, lo scontro  rappresenta il mio primo incontro con l’altro, il quale mi colpisce, mi modifica, con la sua  forza travolgente. Successivamente all’ascolto dell’altro, posso ascoltare me stesso, ma devo  liberarmi del mio punto di vista, senza giudicare l’altro, così da arrivare a cogliere questa  relazione insorgente dal suo punto di vista, non più dal mio. A partire dall’incontro, quindi,  io posso entrare in risonanza con l’altro, così da arrivare a sentire con l’altro, ma sempre nella  consapevolezza che egli mi trascende, quindi non sarà mai del tutto conoscibile per me. 

3. Il mercato editoriale italiano: i grandi gruppi editoriali e le case editrici  indipendenti Il mercato editoriale italiano si presenta come una realtà estremamente eterogenea:  secondo i dati più recenti, il 60% delle quote di mercato sono date dalla sommatoria di  gruppi editoriali come Mondadori (formato da Battello a Vapore, BUR, Einaudi,  Mondadori, Rizzoli e altri) con circa il 35%, Gems (formato da Chiarelettere, Garzanti,

Guanda, Longanesi, Newton Compton, Nord, Salani e altri) con circa il 15%, mentre  Giunti (formato da Bompiani, Disney, Editoriale Scienza e Giunti e altri) e Effe (formato  da Donzelli, Feltrinelli, Marsilio e altri) che dividono circa il 10% di mercato. Invece, il  restante 40% è ripartito tra case editrici indipendenti, tra cui ricordiamo Adelphi, Fazi, Il  Saggiatore, Iperborea, Laterza e Sellerio. Il mercato editoriale italiano è una forma di  concorrenza monopolistica, ossia una realtà intermedia tra la concorrenza perfetta e il  monopolio: in questo spazio esistono una pluralità di produttori, editori, che cercano di  soddisfare lo stesso bisogno, ossia quello di leggere, attraverso la produzione di beni, libri, che sono sostituti stretti, ma imperfetti, delle imprese concorrenti.  

Ne segue che il fattore economico strategico per la sopravvivenza di una casa editrice è  rappresentato dalla differenziazione dell’offerta. Difatti, sia i gruppi editoriali che le case editrici indipendenti sono accomunati dalla produzione di libri, ma ognuno avrà la sua identità e la  sua politica che si rifletteranno in maniera decisiva nella scelta di quegli autori e/o di quei  generi su cui puntare la propria linea di produzione. Ad esempio, nella storia dell’editoria  italiana, Arnoldo Mondadori (1889-1971) ha puntato sia sulla qualità che sulla popolarità  delle sue penne, annoverando nomi come d’Annunzio, Hemingway, Montale, Pirandello,  Quasimodo e Ungaretti. Angelo Rizzoli (1889-1980) si è orientato non solo a rispettare  queste caratteristiche nella scelta delle sue penne, ma è stato altresì un uomo d’affari,  dedicandosi sia alla produzione cinematografica che alla gestione di strutture ricettive,  come alberghi e terme. Invece, meritevole di nota, è la figura di Valentino Bompiani (1898- 

1992) che ha adottato una politica decisamente più moderna rispetto a quelle di Mondadori  e Rizzoli, investendo su valori come quelli di collaborazione, reciprocità e solidarietà: queste  caratteristiche rendono Bompiani una sorta di anticipatore dei beni relazionali nell’impresa  editoriale, andando oltre le logiche di popolarità e di qualità orientata alla massimizzazione  del profitto che hanno distinto le linee adottate dai suoi contemporanei, valorizzando le  relazioni interpersonali. Ai giorni nostri, questa tendenza risulta confermata: soprattutto i gruppi editoriali perseverano nella scelta di autori e/o generi che hanno un forte impatto in termini di vendite,  mentre le indipendenti continuano a puntare sulla tutela della bibliodiversità, ossia su autori  e/o generi più di nicchia, per una editoria ‘sostenibile’, capace di lasciare spazio vitale a  autori e testi diversi da quelli letti dalla massa. Tuttavia, l’affermazione di questi grandi gruppi negli ultimi anni sta minacciando questo regime di concorrenza monopolistica che  ha da sempre caratterizzato il mercato editoriale nazionale: a fronte della fusione tra  Mondadori e Rizzoli nel 2015, è stato necessario l’intervento delle autorità anti-trust per  evitare che il gruppo assumesse una posizione dominante che avrebbe comportato una  molteplicità di problemi: sotto un profilo giuridico-economico, la riduzione del regime di  libera concorrenza vigente nel mercato del libro, che si può spingere fino all’eliminazione vera e propria di questa con l’assunzione di una posizione monopolistica a tutti gli effetti;  sotto un profilo etico-culturale, la questione della libera scelta e della democrazia del  lettore, in quanto le concentrazioni risultano pericolose per la libertà di stampa e/o di  parola, distruggendo la pluralità delle idee.

Le strategie economiche possono avere implicazioni etiche cruciali, ragion per cui  l’approccio multidisciplinare proprio dell’economia civile è quello più idoneo per l’analisi  di questi fenomeni. Circa il mercato editoriale italiano, l’autorità competente si è espressa  a favore di un ‘via libera condizionato’, per cui Rizzoli ha dovuto rinunciare ai marchi  Adelphi, Bompiani e Marsilio, diventate così indipendenti. Il gruppo continua a mantenere 

un vantaggio concorrenziale notevole rispetto alle altre realtà editoriali, conferito dalla sua  presenza in settori come quello radiofonico e televisivo, nonostante questa attività di  vigilanza. La presenza capillare di questo gruppo nel mercato lo rende particolarmente  appetibile agli occhi degli scrittori che cercano una maggiore visibilità per i propri libri. Per  un autore presentare un proprio manoscritto a un qualsiasi grande gruppo implica adottare  un movente legato alla vendita, più che uno di carattere ‘valoriale’, seguendo un canale che  crei accesso al sotto-mercato della lettura di massa. Non a caso, una simile realtà di mercato 

vede la presenza di prodotti editoriali che seguono criteri economici, prima che narrativi,  essendo soggetti alla medesima compressione convulsiva tipica del ciclo di vita di un  qualsiasi altro prodotto di successo. Conformemente a tali strategie di marketing, si possono  distinguere tre specifiche fasi nella vendita dei prodotti editoriali dei grandi gruppi, quali: 

wild cat, ossia la novità capricciosa, imprevedibile; star, l’oggetto che si impone come  necessario; cash cow, la mucca da soldi: spremiamone tutto il possibile prima che decada a  dog e addio, così da diffondere e consolidare la monocultura del best-seller. Oltre agli  ingenti profitti derivanti da queste strategie di vendita, i grandi gruppi hanno spesso  accesso ad aiuti e contributi pubblici, fondi alla cultura e prestiti agevolati, mantenendo  così una posizione economico-finanziaria decisamente solida nel tempo. 

Accanto a questa presenza forte dei grandi gruppi editoriali resistono o sopravvivono  le case editrici indipendenti. Queste si concentrano esclusivamente sull’editoria libraria, a  differenza dei grandi gruppi, proponendo testi di ricerca alternativi. La loro offerta  riguarda libri belli e curati che vanno a ricoprire quelle nicchie non ancora fatte proprie  dall’editoria italiana mainstream. A volte, hanno la fortuna di avere un autore di punta,  capace di portarle all’attenzione dei media e dei librai: un valido esempio in questo senso,  è il legame che si è stabilito tra la ‘Edizioni e/o’ e Elena Ferrante, autrice che è esordita ed  è cresciuta proprio con questa casa editrice, diventandone la sua punta di diamante, come  si vedrà di seguito. 

Allo scopo di far conoscere meglio la propria identità al lettore, queste case editrici sono  molto attente a creare iniziative culturali. I gruppi indipendenti sono costantemente alla  ricerca di lettori e sfruttano occasioni di incontro per esporre i loro cataloghi, cercando di  comprendere, in primis, cosa essi leggono e perché, ma non allo scopo di formulare una  semplice domanda di marketing per individuare le preferenze del consumatore. Al  contrario, i gruppi indipendenti vogliono “capire cosa sia la cultura, la lingua, la forma di  vita di chi ancora conserva la buffa abitudine di passare del tempo a sforzare la retina su  righe di testo”, così come desiderano “guardare chi si allontana inorridito da una pila di  libri al banchetto di una fiera, (…) cos’avrà mai in testa quel non lettore, cos’altro avrebbe  voluto leggere, se ha mai letto e quale trauma lo faccia fuggire a gambe levate, se sia il  

prezzo o l’immagine di copertina”. Attraverso questa puntuale analisi, i gruppi  indipendenti desiderano rappresentare la sensibilità di quei lettori che costituiscono i  segmenti più ridotti della domanda editoriale, appassionati di testi di nicchia, o volgersi ai  lettori potenziali, che non hanno ancora individuato un genere proprio: entrambi risultano  accomunati dalla mancata identificazione con la letteratura di massa. Questa attività viene  svolta spesso con grandi difficoltà economico-finanziarie, riconducibili alle condizioni di  autosfruttamento, debito e precarietà così diffuse tra le indipendenti. 

4. I beni relazionali e l’impresa editoriale 

Dopo aver approfondito cosa sono i beni relazionali e aver osservato la composizione  del mercato editoriale italiano contemporaneo, si vuole mostrare come gli incontri che  possono avvenire nello spazio editoriale non restituiscono semplicemente dei rapporti di  natura economica, ma delle relazioni che possono essere pienamente inquadrate  nell’ambito dei beni relazionali. Tra le diverse relazioni fiduciarie e reciproche che si  possono delineare nel mercato editoriale, si è scelto di illustrare quelle che si possono 

stabilire, da un lato, tra lettore-piccola libreria indipendente e, dall’altro lato, tra scrittore casa editrice indipendente. 

Sotto un profilo socio-economico, l’attività delle librerie indipendenti è orientata alla  promozione e alla valorizzazione del lavoro svolto dalle case editrici, anch’esse indipendenti: entrambe puntano sulla qualità della loro offerta, più che sulla quantità dei  volumi venduti. Come le case editrici indipendenti, queste librerie lavorano principalmente  sulla propria identità, praticando un’attività di differenziazione della propria offerta,  scegliendo testi meno competitivi, ma più adatti a soddisfare le preferenze specifiche del  lettore, così da salvaguardare la già citata bibliodiversità. Questa selezione di testi proposti  non si basa sui dati di mercato relativi ai titoli più gettonati, ma sulla semplice esperienza  e gusto del libraio. Grazie a un’offerta così differenziata, si può stimolare la curiosità del  lettore che viene così ‘formato’ a un’attività di scelta consapevole, scoprendo come la  lettura sia espressione di libertà e di libero arbitrio, all’insegna della tutela di una cultura  plurale e democratica. Invece, sotto un profilo socio-urbanistico, le librerie indipendenti  si presentano come realtà cittadine, perlopiù di quartiere, fortemente radicate con il loro  territorio. La profonda conoscenza del contesto socio-culturale di appartenenza fa sì che  questi spazi diventino dei centri culturali o dei luoghi di aggregazione.  Dato questo contatto diretto che si stabilisce con il lettore si ha che, da un lato, c’è sempre un rapporto economico – per cui il lettore ha un bisogno di ‘lettura’, quindi si reca  presso la libreria per l’acquisto di uno o più libri, mentre al libraio spetta un pagamento pari  all’importo complessivo dei titoli acquistati – e, dall’altro lato, può sorgere il fatto emergente per cui il lettore sceglie continuativamente nel tempo di affidarsi a una libreria indipendente per  soddisfare un bisogno di lettura non generico, ma specifico, rispetto a quali autori e/o  quali generi desidera leggere per sentirsi adeguatamente ‘rappresentato’. Questa 

consapevolezza è frutto dell’uscita dalla condizione di consumatore disorientato verso quella  di fruitore consapevole di testi accuratamente scelti insieme al libraio. 

Quest’ultimo incarna il suo mestiere in maniera autentica perché, prima di essere un  libraio, è un attento lettore, quindi concretamente capace di guidare il lettore alla ricerca di  quel testo maggiormente adatto a soddisfare le sue esigenze, in quanto quest’ultimo “non  è un cervello soltanto, è una persona che ha il gusto di lasciarsi incantare attraverso gli  occhi di vetrina, a tenere il libro in mano, a usare fisicamente il libro”. Così può sorgere  il bene relazionale, per cui il lettore nutre fiducia e stima nei confronti di quella determinata  libreria o di quel determinato libraio, così da essere ben disposto a tornare lì, sapendo di  incontrare figure realmente interessate a soddisfare le sue preferenze per una lettura  consapevole.  

Ciò comporta che il lettore diventi disponibile ad affidarsi a una libreria, a volte, più  costosa delle catene (in cui sono frequenti le promozioni o sono disponibili le edizioni  economiche dei testi più diffusi), ma più attenta alle sue preferenze, uscendo dalla logica  della semplice convenienza di prezzo. Invece, il libraio presenta una duplice volontà: la  prima è quella di non essere un semplice ‘operatore di cassa’ o ‘assistente alle vendite’, pronto a  vendere il best-seller del momento che ha pagato maggiormente per ottenere le migliore  vetrine del punto vendita, nonostante ciò sia a scapito del suo profitto che sarà minore di  quello medio delle librerie delle grandi catene, con ogni probabilità; la seconda è quella di  concepire la libreria non solo come uno spazio commerciale, bensì un luogo di  aggregazione, diventando così un cluster di idee e di cooperazione territoriale che fa insorgere nuove relazioni dall’incontro tra lettori, in uno spazio che assume così una forte valenza  socio-culturale. 

Anche dall’incontro tra lo scrittore e la casa editrice possono nascere dei beni relazionali: è l’esempio di quegli autori che, pur avendo raggiunto un certo successo, decidono di  ancorare il loro nome a un editore minore solo per il legame di fiducia che si è stabilito nel  corso degli anni. Un esempio di questo tipo è quella relazione reciproca a cui si è già  accennato nella sezione precedente, ossia quella che si è stabilita tra la casa ‘Edizioni e/o’  e Elena Ferrante.  

‘Edizioni e/o’ nasce nel 1979, fondata da Sandro Ferri e Sandra Ozzola, i quali condividevano la passione per la politica e i romanzi di qualità. Inizialmente, si presenta  come una piccola impresa, a gestione familiare, ma presto destinata a crescere, grazie alla  collaborazione con intellettuali del calibro di Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Anita Raja e  Domenico Starnone. Sin dagli esordi, l’obiettivo della casa editrice è quello di creare ponti  tra culture diverse, così da metterle a dialogo: difatti, il nome della casa può essere letto sia  come “e/o”, in senso congiuntivo e/o disgiuntivo, che come “est/ovest” come immagine  di confronto tra due grandi compartimenti territoriali internazionali. Inizialmente, si  concentrano sulla letteratura dei paesi dell’Est, in particolare del compartimento sovietico,  per poi allargare gli orizzonti verso l’Ovest, alla narrativa americana, senza trascurare le  numerose incursioni nel mondo della narrativa francese e mediterranea. Una delle loro  scrittrici di punta è diventata Elena Ferrante, autrice ancora oggi sconosciuta nella sua reale 

identità, che ha scelto di restare nell’anonimato a causa degli argomenti autobiografici  delicati affrontati in molti dei suoi testi. 

Ferrante ha scelto di mantenere viva la relazione con questo editore per ragioni che  vanno oltre il semplice aspetto contrattuale. Certamente, occorrono anche qui delle  precisazioni: la prima è che siamo di fronte a un nome talmente noto che non necessita di  una casa editrice ancora più celebre che la promuova per farle guadagnare in popolarità; la  seconda è che tra la scrittrice e la casa editrice c’è oramai un rapporto di fiducia e di stima,  nonostante il vantaggio che la ‘Edizioni e/o’ ha acquisito nel tempo sia merito anche del nome della Ferrante tra le sue penne storiche. L’intesa che si è stabilita tra l’autrice e la  casa editrice indipendente rappresenta alla perfezione lo slittamento dall’interesse all’interesse, corrispondente alla condivisione di elementi comuni tra i soggetti coinvolti.   

Conclusioni 

In questo intervento, si è voluto tentare di mostrare l’insieme dei beni relazionali che  possono sorgere nell’impresa editoriale. L’analisi di queste due possibili relazioni ha fatto  emergere come trait d’union che il risultato economico non è più un fine, ma un mezzo in  vista della promozione del bene comune. Questa necessità si è resa tanto più forte negli  anni della globalizzazione, a causa di fattori economici dalle implicazioni etiche  significative: in particolare, c’è la disumanizzazione del cliente, i consumatori sono diventati semplici numeri corrispondenti a una certa transizione commerciale, che acquistano i loro  beni e servizi dagli angoli più remoti del mondo presso sconosciuti rivenditori trovati  online oppure grandi catene di vendita che li dimenticheranno non appena usciti  dall’esercizio commerciale; l’abuso di potere contrattuale delle grandi holding internazionali,  capaci di essere più competitive nel mercato rispetto alle PMI, grazie alla differenziazione 

delle loro linee produttive (con conseguente presenza in ogni settore di vendita) e alla  possibilità di fissare un prezzo più basso dei loro competitors, dati gli enormi volumi di  vendita; l’indebolimento delle istituzioni, l’avvento dell’economia globalizzata ha portato con  sé la deregulation per cui è diventato sempre più difficile effettuare un adeguato  monitoraggio del mercato da possibili abusi da parte delle autorità di controllo.  

A ciascuna di queste figure, quali i consumatori, le imprese e le istituzioni può essere  associata una ‘deprivazione’: c’è la transitorietà o persino l’assenza dell’incontro tra il  consumatore e il rivenditore; poi corrisponde alla crisi delle piccole e medie imprese locali  schiacciate da questi colossi del mercato mondiale; infine, l’indebolimento della politica, in  cui le imprese più grandi sfiorano l’abuso della propria posizione nel mercato, innanzi a  istituzioni impotenti. Si tratta di una fenomenologia ‘deprivativa’ che mette a repentaglio  la sussistenza di beni relazionali nello spazio del mercato. Quest’ultimo, pur avendo assunto una estensione globale si va sempre più frammentando e smaterializzando: in  ambito editoriale, ciò si traduce in un lettore senza volto e disorientato, omologato alle preferenze  espresse dalla massa, acquistando il libro del momento che viene proposto dal primo banner pubblicitario di turno durante la sua navigazione in Internet, arricchendo le grandi società  di commercio elettronico; molte piccole e medie imprese editoriali indipendenti, così come le librerie

indipendenti, si trovano a sopravvivere a stento o a perire a causa della affermazione dei grandi  gruppi editoriali (che attirano molti degli scrittori più illustri) e delle catene di punti vendita  che erodono sempre più quote di mercato, rischiando di violare lo stesso regime  concorrenziale, davanti a una politica locale e/o nazionale impotente (più o meno  volutamente) in una concreta tutela della concorrenza.  

I beni relazionali emergenti tra lettore e libreria indipendente, così come tra scrittore e  casa editrice indipendente, possono rappresentare uno degli ultimi baluardi della libertà di  espressione e di pensiero per una società democratica. Nel caso del ritorno alla libreria  indipendente, questa restituisce un volto sia al lettore che al libraio, così da riscoprire quell’inter-esse comune. Come si è visto, la libreria può diventare luogo di aggregazione, in cui creare non  un singolo, ma una ‘rete’ di incontri, tra persone e libraio, così da supportare le imprese 

editoriali locali per un’economia sostenibile e rispettosa delle realtà del proprio territorio.  Accendere una simile scintilla equivale a innescare il fuoco per una ripresa delle realtà  economiche locali che rischiano di sparire nel colossale mercato globale. Pertanto, il  rapporto economico evolve in un genuino senso comunitario in cui ognuno può vedere  rappresentata e valorizzata la propria identità, non solo di lettore, ma di membro di una certa  comunità, costruendo quotidianamente il bene comune attraverso questa partecipazione alla  propria comunità di appartenenza.  

Allo stesso modo, lo scrittore autorevole che continua a rinnovare fiducia a una piccola  o media impresa editoriale contribuisce a questa costruzione del bene comune, seppur in  maniera più defilata, essendo una partecipazione non diretta a una certa comunità di  appartenenza; tuttavia, dando continuità a una relazione di fiducia e stima reciproca con  la casa editrice indipendente apporta il suo contributo alla sopravvivenza di una realtà che  supporta e vive a stretto contatto con queste piccole librerie locali. Quindi, seppur il suo  contributo è limitato alla sua collaborazione con la casa editrice, questo fa sì che il suo  libro non finisca semplicemente sotto i riflettori di una grande catena di librerie, ma diventi quel materiale prezioso che spingerà il lettore a rivolgersi alla piccola libreria locale, in  un’ottica assolutamente circolare e organica.

19/09/2019
Data
Autore

Non utilizziamo cookies di tracciamento degli utenti o di profilazione. Per saperne di più puoi visitare la pagina relativa ai cookies.