Abolir le hasard? Responsabilité individuelle et justice sociale

Jean-Fabien Spitz (Librairie philosophique J. VRIN, Paris, 2008)

La riflessione filosofica sul tema dell’eguaglianza ha prodotto negli ultimi anni numerosi lavori e  sollevato domande importanti, a cominciare da quelle relative alle questioni “eguaglianza o priorità?”,  proposta da Derek Parfit, e “eguaglianza di cosa?”, avanzata da Amartya Sen. In breve tempo, gli  interrogativi intorno al significato e alle implicazioni dell’eguaglianza sono andati moltiplicandosi:  eguaglianza di accesso o eguaglianza di risultato? Eguaglianza di risorse, eguaglianza di benessere o  eguaglianza di capacità? Eguaglianza tra individui o gruppi? Eguaglianza tra stati o solo nei confini  dello stato? Eguaglianza tra generazioni? Eguaglianza tra animali e umani? Ecc. (cfr., da ultimo, per  una rassegna delle questioni oggi presenti nel dibattito sull’eguaglianza, l’antologia a c. di N. Holtug  e K. Lippert-Rasmussen, Egalitarianism, New Essays on the Nature and Value of Equality, Oxford  University Press, Oxford 2007).  

Uno dei nodi teorici sui quali più si è riflettuto, tuttavia, è stato senz’altro quello relativo al rapporto  tra eguaglianza e responsabilità. Se il tema della responsabilità è stato a lungo monopolio della destra  anti-egualitaria (di destra sono sempre stati sia il tentativo di addebitare al povero la responsabilità  della sua stessa condizione di miseria, sia la denuncia dei pericoli di deresponsabilizzazione insiti  negli interventi redistributivi dello stato sociale), negli ultimi trent’anni, tuttavia, di questo tema si è  appropriata una parte della sinistra liberale, che ha tentato di elaborare una teoria dell’eguaglianza  compatibile con il principio di responsabilità. Il tratto comune a questi sforzi teorici, che in genere  vengono collocati sotto l’etichetta di luck egalitarianism, è l’impegno nel cercare di delimitare lo  spazio entro cui l’individuo può definirsi responsabile, distinguendolo da quello in cui invece domina  il caso, nella convinzione che siano ingiuste, e quindi debbano essere compensate, solo le  diseguaglianze che non possono considerarsi effetto di scelte individuali, mentre siano pienamente  legittime tutte le possibili forme di diseguaglianza derivanti da decisioni individuali consapevoli e  volontarie. L’ineguaglianza, dunque, non è ingiusta in sé; è ingiusta solo se lo svantaggio deriva dalla  cattiva sorte circostanziale o genetica. Su queste basi, i luck egalitarians giustificano un regime  economico-politico ibrido, capace di coniugare il capitalismo e la libertà del consumatore con uno  stato sociale responsabile della ridistribuzione dei beni assegnati arbitrariamente dalla sorte (cfr. p.  209).  

In Abolir le hasard?, con un intento espositivo e insieme polemico (caratteristica quest’ultima che – a dire il vero – sembra comune alla maggior parte dei lavori dedicati al luck egalitarianism negli  ultimi anni), Jean-Fabien Spitz ricostruisce la teoria dell’eguaglianza di Dworkin (spesso collocata  tra le teorie dell’egualitarismo della sorte, nonostante la posizione esplicitamente contraria assunta al  riguardo da Dworkin stesso) e quelle dei c.d. luck egalitarians, in particolare di Richard Arneson,  George A. Cohen e John Roemer. Il limite maggiore di queste teorie, secondo Spitz, è il fatto che  esse presuppongono una concezione metafisica della responsabilità che si rivela inutilizzabile e  incoerente sul piano filosofico-politico. Le difficoltà fatali in cui incorrono le teorie  dell’egualitarismo della sorte non devono tuttavia condurre a rigettare di nuovo il concetto di  responsabilità dichiarando la sua incompatibilità con una teoria politica progressista (come avviene,  per esempio, secondo Spitz, nella teoria del reddito minimo universale di Philippe Van Parijs).  Obiettivo dell’autore è argomentare in favore di un diverso concetto di responsabilità: un concetto  sociale e post-istituzionale che tenga conto dell’interdipendenza umana. Tornerò in seguito sulla riformulazione del concetto di responsabilità qui avanzata, sulla base dei lavori di Ripstein e di una  rilettura di Rawls volta ad allontanarlo dalle interpretazioni che i luck egalitarians hanno offerto della  sua Theory of Justice. Per rendere merito all’ampiezza e alla finezza analitica di questo lavoro  fornisco prima al lettore una sintesi generale del testo, che risulta diviso in due parti dedicate  rispettivamente 1) alla ricostruzione del pensiero di Dworkin e dei principali sostenitori delle tesi del  luck egalitarianism e 2) all’analisi delle difficoltà teoriche in cui incorre l’intuizione fondamentale  per cui nessuno dovrebbe subire gli svantaggi derivati dalla sorte e non riconducibili a una sua precisa  scelta. 

Nella prima parte del volume, – come dicevamo – Spitz prende le mosse da una disamina puntuale  della teoria di Dworkin. Per quest’ultimo una teoria della giustizia che applichi un criterio distributivo  indifferente alle scelte (come il principio di differenza rawlsiano) rende impossibile qualsiasi pensiero  etico (cfr. p. 40). Una teoria della giustizia distributiva che tenga pienamente conto del concetto di  responsabilità esige che si possa riscontrare un nesso tra la condotta di una persona, le sue scelte e la  sua condizione in termini di risorse disponibili. In questo senso, il fatto che il principio di differenza  di Rawls non discrimini tra condizioni di svantaggio derivate dalla sorte o da responsabilità  individuale deve considerarsi, secondo Dworkin, pienamente coerente con la concezione rawlsiana  di un liberalismo “politico”, neutrale rispetto alle diverse concezioni della vita buona (cfr. ibidem).  

Per Dworkin, l’eguaglianza deve essere concepita come eguaglianza di risorse e non come  eguaglianza di benessere. Solo la prima, infatti, è coerente con il principio di responsabilità (se  accettiamo l’eguaglianza di benessere, infatti, siamo privi di argomenti per rifiutare maggiori risorse  a coloro che hanno gusti costosi). L’eguaglianza di risorse deve essere corretta attraverso  l’introduzione di un sistema assicurativo, che miri a compensare ex anteex post, ovvero dopo che si  sono prodotti gli effetti della sorte (cfr. p. 194). In questo modo, ciascuno è messo in grado di  assumersi non solo le conseguenze delle proprie scelte, ma anche quelle di una cattiva sorte rispetto  alla quale può cautelarsi mediante l’opzione del ricorso ad un adeguato sistema assicurativo. gli  svantaggi dovuti alla sorte naturale o “sorte bruta”, quali disabilità fisiche e mentali, ma anche talenti  e doti naturali. Lo stesso ricorso ad un ipotetico schema assicurativo viene immaginato da Dworkin  come utile per annullare gli effetti della c.d. “sorte opzionale”, ovvero gli effetti di scelte rischiose  che consapevolmente si sono volute intraprendere (gettando così un ponte tra sorte bruta e sorte  opzionale). La questione cruciale per Dworkin è, dunque, far sì che gli individui siano eguali nella  loro capacità di assicurarsi contro la sorte sfavorevole prima che questa si verifichi e non applicare  un principio compensativo. 

Tutta l’argomentazione di Dworkin poggia sulla distinzione tra personalità e contesto: i gusti, le  ambizioni e i progetti rientrano nella personalità, mentre le capacità fisiche e mentali fanno parte del  contesto. Ognuno è tenuto a sostenere i costi che derivano dalle proprie scelte, quindi dai propri gusti  e dalle proprie ambizioni. La distribuzione dei beni sarà in questo senso sensibile alle ambizioni, ma  al tempo nessuno dovrà sopportare i costi di circostanze non scelte. La distinzione tra contesto e  persona e il principio di responsabilità, secondo Dworkin, sono essenziali per pensare il concetto  stesso di vita riuscita o vita buona, e quindi per dare fondamento etico all’obbligo di rispettare le  regole di una società giusta (cfr. p. 65) e rigettare la strategia discontinuista adottata dal liberalismo  rawlsiano. La tesi complessiva di Dworkin è che se intendiamo la vita buona secondo un modello  sufficientemente ampio da accogliere concezioni della vita diverse, quale quello della sfida (che  Dworkin contrappone al modello dell’impatto) allora una società giusta è una società che consente  alle persone di affrontare le sfide che si presentano loro in condizioni adeguate, ovvero avendo a  disposizione le necessarie risorse. Se l’individuo fallisce per mancanza di risorse non potrà essergli  imputata la responsabilità del proprio fallimento: egli risulterà vittima di un’ingiustizia che gli ha reso  impossibile vivere una vita riuscita. 

La distinzione tra personalità e circostanza, così come il concetto di eguaglianza di risorse, sono i  punti su cui maggiormente si concentrano le critiche che i c.d. luck egalitariansluck egalitarians,  l’eguaglianza nelle condizioni di accesso al benessere, piuttosto che – come vuole Dworkin – l’eguaglianza di risorse. Infatti, la sorte può riguardare sia le risorse sia le capacità di conversione  delle risorse in benessere, per cui ciò che deve risultare rilevante è la considerazione della quantità di  soddisfazione che riusciamo a ricavare dalle risorse a nostra disposizione. L’eguaglianza deve essere  concepita in termini di opportunità di accesso al benessere. In particolare, secondo la visione  “prioritarista” sostenuta da Arneson, nell’aumentare le opportunità di accesso alle condizioni di  benessere si dovrà riconoscere priorità a coloro che si trovano nelle condizioni peggiori, in assenza  di una loro precisa responsabilità. Arneson, infatti, segue Derek Parfit nel ritenere che l’egualitarismo  debba mirare non ad un’eguaglianza stretta (soggetta all’obiezione di un livellamento verso il basso),  ma alla realizzazione di un principio di priorità che dà maggiore importanza al miglioramento della  sorte di chi si trova nella situazione più sfavorita (cfr. pp. 174-176). rivolgono alla teoria di Dworkin. 

La scelta di far parlare alla giustizia il lessico benesserista piuttosto che quello risorsista pone i luck  egalitarians di fronte alla necessità di dare risposta alle molte obiezioni che sono state sollevate, sia  da Rawls sia da Dworkin, intorno alla questione dei gusti costosi. Secondo Arneson le critiche di  Dworkin e Rawls presuppongono che gli individui possano sempre essere considerati responsabili  dei loro gusti e quindi in grado di plasmarli secondo la propria volontà. In contrasto con  quest’impostazione, Arneson afferma che i fini dell’individuo derivano dalle sue credenze e dai suoi  giudizi e non possono cambiare a seconda delle risorse disponibili; almeno nella maggior parte dei  casi, i fini non sono scelti, ma subiti. Poiché le stesse capacità di scelta e di giudizio degli individui  possono dipendere dalla sorte, una società giusta, secondo Arneson, dovrebbe compensare anche le  persone che compiono scelte sbagliare vittime del contesto sfavorevole nel quale si trovano (cfr. p.  127).  

L’impostazione di Arneson è per lo più condivisa anche dal recentemente scomparso G. A. Cohen.  Se intuitivamente sembra corretto che la società non debba pagare per i gusti costosi di pochi e quindi  per la loro minore capacità di convertire risorse in benessere, non si può tuttavia dare per scontato  che tali gusti siano sempre il frutto di una scelta e siano quindi suscettibili di mutamento. La società  non può rimanere indifferente rispetto alle diverse attitudini individuali: quando un individuo ha  minori capacità di convertire risorse in benessere, anche soltanto a causa dei suoi stessi gusti, ciò deve  essere considerato come una disabilità che necessita di una forma di compensazione. La giustizia  quindi non può fermarsi ad una distribuzione equa delle risorse; deve necessariamente preoccuparsi  anche delle diverse possibilità di accesso al benessere, se esse non sono imputabili chiaramente a  scelte individuali. Secondo Cohen una società giusta deve garantire un’eguale opportunità di accesso  ai vantaggi e non deve tollerare accessi diseguali ad essi (cfr. p. 134). La sostituzione della dimensione  del vantaggio a quella del benessere, sottolinea Spitz, serve a rispondere alla questione posta dal caso  di coloro che hanno gusti modesti e si accontentano di poco. Una società che consideri l’eguale  opportunità di benessere darà di meno a chi ha gusti poco costosi e di più a chi a gusti più costosi.  Cohen sottolinea il carattere controintuitivo di questa conseguenza. La società dovrà garantire a chi  ha gusti meno costosi la possibilità di accedere a gusti più costosi. Valutare le diverse situazioni in  termini di vantaggi consente di tenere conto di una dimensione oggettiva in contrasto con quella  soggettiva di benessere (cfr. p. 136).  

Le conseguenze che possono derivare dalla traduzione della dottrina del luck egalitarianismluck  egalitarianism non si può rispondere se non tenendo conto delle situazioni in cui un comportamento  si può considerare scelto e di quelle in cui il comportamento è in qualche modo subito. Si dovrebbe  poter valutare quando un fumatore è tale per scelta e quando, invece, il suo comportamento è  influenzato da un’insieme di fattori di cui egli non è consapevole. Apparentemente il compito è immane, ma abbiamo a disposizione tutta una serie di statistiche che offrono dati importanti per capire  l’incidenza dell’età, della professione, dell’appartenenza razziale, del sesso, ecc. Sulla base di queste  informazioni, secondo Roemer, è possibile dividere la popolazione in gruppi: da un parte, per  esempio, potremmo individuare il gruppo delle donne bianche che svolgono la professione di  insegnante, dall’altra, quello dei maschi neri che svolgono il mestiere di operaio metallurgico.  L’incidenza del cancro al polmone dipende in modo rilevante dalla lunghezza del periodo in cui  l’individuo ha fumato. Le statistiche rilevano che gli operai metallurgici neri fumano in media  trent’anni, mentre le insegnanti in media otto anni. Chiunque all’interno di questi due gruppi fumi  più della media deve farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni: il fatto che uno abbia fumato  più di trent’anni come metalmeccanico o più di sei anni come insegnante deve imputarsi ad una sua  scelta – in entrambi i casi infatti era accessibile un’opzione diversa. D’altra parte, non si potrà non  tener conto che avere la possibilità di non fumare è meno facile per i metalmeccanici che per le  insegnanti (la prima categoria ha una maggiore predisposizione al rischio). E’ la sorte che decide a  quale gruppo si appartiene e non se ne deve dover sopportare le conseguenze. in concrete politiche  sociali sono illustrate soprattutto dai lavori di John Roemer. Quest’ultimo – ricorda Spitz – ci chiede  di riflettere su domande come: in che misura la società dovrebbe finanziare l’assistenza medica per i  fumatori che si ammalano di cancro?

Nella valutazione delle implicazioni pratiche del luck egalitarianism, sulla base degli esempi  presentati da John Roemer, si può, forse, essere persino più severi di quanto non sia Spitz. Come  osserva Normal Daniels, infatti, nelle esemplificazioni che Roemer propone “la responsabilità sembra  ridursi ad atipicità” ed è impossibile evitare risultati paradossali come il seguente: se sciare è tipico  dei ricchi e non degli operai allora l’operaio che va sciare e si rompe una gamba è più responsabile  del ricco sciatore che incorre nello stesso incidente! (cfr. N. Daniels, Democratic Equality. Rawls’s  Complex Egalitarianism, in S. Freeman (a c. di), The Cambridge Companion to Rawls, Cambridge  University Press 2003, p. 254). 

Alla base della presa di distanza del luck egalitarianism dal linguaggio risorsista scelto  dall’egualitarismo di Dworkin si colloca la messa in discussione della distinzione tra personalità e  circostanza. Per Dworkin, una società giusta deve mirare a rendere eguali le circostanze nelle quali  gli individui scelgono. Una volta che si è proceduto a rendere eguali le circostanze si deve presumere  che le persone abbiano eguale capacità di scelta e siano quindi tutte in grado di assumere la  responsabili delle loro scelte. Per i luck egalitarians questa distinzione è discutibile: i confini tra  personalità e circostanza non coincidono – come vorrebbe Dworkin – con quelli tra scelta e non scelta.  D’altra parte, l’abbandono del lessico risorsista solleva, soprattutto nella formulazione di Arneson,  tutta una serie di difficoltà connesse con il carattere soggettivo del benessere – difficoltà teoriche, cui  viene dedicato l’ultimo capitolo della prima parte del volume, e che, secondo Spitz, potrebbero essere  risolte se inserite in un quadro simile a quello proposto da Amartya Sen, ovvero ricorrendo ad una  concezione perfezionista, in cui la questione non è più se le persone siano in grado di condurre la vita  che hanno scelto, ma se siano in grado di condurre una vita che valga la pena di essere vissuta (cfr.  p. 159).  

La seconda parte del volume riassume e analizza le principali critiche usualmente mosse nei confronti  di questa corrente di pensiero, obiezioni che sono principalmente di due tipi: 1) di carattere normativo  ed etico-politico e 2) di ordine metafisico.  

Dal punto di vista normativo il luck egalitarianism fraintenderebbe le ragioni e le aspirazioni  fondamentali che motivano le dottrine egalitarie della giustizia. L’egualitarismo della sorte individua  come obiettivo della giustizia la neutralizzazione degli effetti del caso. L’argomento in favore della  neutralizzazione della sorte può essere interpretato in due modi. 

Il primo, si fonda sull’idea che tutto ciò che è arbitrario è illegittimo e lega l’abolizione degli effetti  del caso all’egalitarismo. Esso contiene due errori: deriva dall’arbitrarietà di un evento la sua  illegittimità e postula una sorta di incompatibilità tra eguaglianza e sorte, come se il caso non potesse  produrre eguaglianze almeno tanto quanto diseguaglianze (questo aspetto è ripreso e sviluppato come  punto autonomo nel capitolo VII sulla scorta dei lavori di Susan Hurley). L’impresa dell’azzeramento  degli effetti della sorte, però, di per sé non può fornire alcuna giustificazione normativa  dell’egualitarismo (cfr. pp. 211-212).  

Una seconda interpretazione in cui si può intendere l’annullamento degli effetti della sorte è quella  che, secondo Spitz, si trova in A Theory of Justice di Rawls: se un individuo rivendica un vantaggio  in nome di una caratteristica che possiede per effetto della lotteria naturale, ciò significa che egli  chiede alla società di riconoscere come legittima una differenza naturale. Quando nella teoria della  giustizia come equità si dice che tale rivendicazione è illegittima, si vuol dire che l’eguaglianza è un  valore normativo stabilito sulla base di ragioni indipendenti, legato per esempio alle esigenze della  cooperazione sociale, che non può essere violato in nome di caratteristiche arbitrarie. E’ proprio il  fondamento indipendente attribuito al valore dell’eguaglianza, secondo Spitz, a segnare la distanza  tra il progetto rawlsiano e il progetto del luck egalitarianism (nonostante le dichiarazioni in contrario  di molti suoi esponenti): per Rawls una società giusta non può abbandonare gli individui alle  conseguenze delle loro scelte e impegnarsi a neutralizzare il caso; essa deve piuttosto costruire le  condizioni sociali perché le relazioni tra gli individui possano essere fondate su principi di equità e  possano favorire la cooperazione sociale. Da questo punto di vista una società giusta può avere  interesse a non disincentivare scelte rischiose o supererogatorie: come compiere imprese ad alto  rischio dalle quali però potrebbero derivare scoperte utili alla società o dedicarsi totalmente alla cura  degli altri.  

D’altra parte, qualora le aspirazioni del luck egalitarianism dovessero tradursi in politiche pubbliche,  esse – come rileva Spitz sulla base dei lavori di Anderson e Wolff – risulterebbero fortemente  stigmatizzanti, paternalistiche e invasive, chiedendo ai singoli di giustificare la loro condotta e di  verificare se le loro condizioni sono frutto di scelte o risultato di circostanze arbitrarie.  

La seconda obiezione che viene formulata da Spitz nei confronti del luck egalitarianism, sulla base  dei lavori di Scheffler e Hurley, concerne la difficoltà di distinguere ciò che avviene per caso e ciò  che è frutto di scelta. L’egualitarismo della sorte rimane invischiato in questioni di carattere  metafisico concernenti il libero arbitrio, l’alternativa determinismo/indeterminismo.  

Di fronte a questa difficoltà il luck egalitarianism può accettare le posizioni incompatibiliste in base  alle quali il concetto di responsabilità è salvabile, in un senso non strumentale, solo si è disposti a  sottoscrivere la tesi metafisica dell’indeterminismo (cfr. p. 271); in tal caso, però, viene a fare poggiare la propria teoria della giustizia su una dubbia base metafisica.  

La nozione di responsabilità può essere riformulata all’interno di una teoria compatibilista, in cui non  esistono azioni prive di cause, ovvero azioni indeterminate, ma alcune hanno cause in forma di  motivazioni per cui si può ancora dire che chi le compie ne è responsabile, se tali ragioni sono buone  ragioni, autenticamente sue. Se, tuttavia, si accetta la tesi compatibilista e non si riconosce un carattere  metafisico specifico all’azione scelta o volontaria, la distinzione tra azione scelta e non scelta viene  a dipendere totalmente dalla norma sociale che definisce “scelta” l’azione sostenuta da ragioni frutto  di un processo di deliberazione da parte dell’individuo. Tra azioni che sono scelte e azioni che non lo  sono viene a sussistere allora solo una differenza di grado e non una differenza di natura (cfr. p. 297).  Se accetta questa seconda giustificazione della responsabilità, l’egualitarismo della sorte si trova  fortemente indebolito nelle proprie premesse, perché non può più far riferimento a una nozione pre sociale di responsabilità. Se non si vuole rinunciare a un uso filosofico-politico della nozione di responsabilità è necessario,  secondo Spitz, ridefinirla a partire dal presupposto che quello di responsabilità è un concetto sociale  ed istituzionale e non naturale. In questo senso, la justice as fairness rawlsiana è lontana dagli errori  in cui incorre l’egualitarismo della sorte: in essa, infatti, la responsabilità figura non come fatto  isolato, ma solo sotto la forma di una responsabilità post-istituzionale, come parte di un insieme di  principi che definiscono relazioni eque tra individui. In Rawls, la validità della pratica in base alla  quale si riconoscono responsabilità e si distribuiscono oneri e vantaggi dipende interamente dalla  giustizia del sistema istituzionale sul quale si fonda la pratica stessa. Sono soltanto istituzioni giuste  che consentono di dire di cosa gli individui sono responsabili e la giustezza delle istituzioni non  dipende dalla loro capacità di assegnare beni in base alle scelte autonome degli individui, bensì da  ragioni che hanno a che fare con la loro capacità di promuovere, per esempio, la cooperazione sociale.  La responsabilità deve allora essere intesa – sostiene Spitz, sulla base dei lavori di Arthur Ripstein – in termini di diritto: essa è la ricerca di un equilibrio e di un bilanciamento tra due interessi che  possono essere in conflitto: quello della sicurezza e quello della libertà. Ognuno, infatti, ha interesse  a fissare da solo le finalità della propria azione, al tempo stesso però ha anche interesse alla sicurezza,  ovvero a non dover sostenere i costi dell’azione dell’altro. Fissando i criteri in base ai quali un  individuo può ritenersi responsabile sul piano giuridico (piano che deve essere tenuto distinto, per  Ripstein e Spitz, dal piano morale), la società decide in che misura sia necessario e giusto che alcuni  rischi individuali siano condivisi socialmente affinché la libertà individuale non sia nulla. Da questo  punto di vista, l’egualitarismo della sorte, mettendo a carico dell’individuo tutte le conseguenze delle  proprie azioni volontarie, disconosce la misura in cui l’esercizio stesso della libertà è sostenuto dalla  volontà della società di condividere una parte importante del rischio derivante dalle scelte individuali. 

01/04/2009
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