La solitudine di Jean-Jacques. Appunti a margine delle Confessions

La lettura delle Confessions rousseauiane impone un interrogativo di non facile o,  comunque, di non immediata risoluzione: c’è e, nel caso, qual è la portata filosofica di un’opera autobiografica? Prendendo in prestito la definizione che ne dà Paul  Ricoeur, un’autobiografia è, «in senso vero e proprio, un’opera letteraria». Ciò non  toglie, tuttavia, che presenti delle caratteristiche che ne rendono legittima anche  un’analisi sul piano filosofico. La cifra distintiva dell’opera autobiografica è, per il  filosofo francese, l’ambivalenza di cui è suscettibile, sul piano narrativo, l’io che  scrive: ad un tempo «narratore» e «personaggio principale» nel/del racconto di cui ha  intessuto le trame. Per questo, precisa Ricoeur, un’opera autobiografica, se è tale, non può far altro che «riposare» sullo «scarto […] fra il punto di vista retrospettivo  dell’atto di scrivere, d’inscrivere il vissuto, e lo svolgimento quotidiano delle vita».  Ora, un’opera che tende a presentare queste «trappole» o questi «difetti» (come li  chiama Ricoeur) può essere collocata al centro di uno studio e di un lavoro di ordine  filosofico proprio in ragione, si potrebbe dire, di tali «trappole» e «difetti». La  dignità filosofica della scrittura autobiografica sembra fondarsi, cioè,  sull’oscillazione e sull’ambivalenza che interessa l’«identità» dell’io che scrive e  che, nello scrivere di sé, intesse la trama della sua storia. Identità tutt’altro che  assodata, certa, inequivoca. Identità che deve essere ri-edificata o, se si vuole,  riconquistata costantemente. L’io che scrive di sé, che decide di raccontarsi può  essere, d’altro canto, tratteggiato come un io peregrino, un io non in possesso di un  habitus identitario dai contorni ben definiti. Un io, cioè, che cerca se stesso nella  narrazione che fa di sé; un io impegnato nella ricerca di un’identità autentica, armonica, coerente, priva di contraddizioni. Identità, come nel caso di Rousseau, che  l’io edifica, in «un atto secondo di ricostruzione di sé», in contrapposizione a un  mondo che gli si oppone con una violenza da lui ritenuta del tutto ingiustificata.  Violenza che si declina nell’attribuzione o nell’imposizione di “etichette” che l’io  avversa e osteggia, ritenendole il “frutto avvelenato” di pregiudizi nocivi e di  fuorvianti opinioni. Alla parola autobiografica il soggetto affida, così, il compito non  solo di smantellare le false rappresentazioni che il mondo fa circolare sul suo conto,  ma anche di provare ad esprimere ciò che per definizione appare essere ineffabile: le dinamiche, i momenti e l’andamento del suo mondo interiore. Il soggetto, in altre  parole, che “brandisce” la penna con la precisa volontà di raccontare la sua storia è  un soggetto dai tratti rivoluzionari, un soggetto che dichiara apertamente guerra a un  mondo che lo dipinge e lo raffigura in un modo del tutto diverso da come in realtà è. 

Siamo di fronte a quella che un autorevole e attento studioso definisce la «strada  maestra dell’autobiografia»; una strada che «passa […] per il polo di un’identità  negata (corsivo mio) che si vuole riconquistare in contrapposizione al mondo»;  un’identità che, per essere riconosciuta e legittimata, non si appella più – per così  dire – al tribunale del mondo (inattendibile e iniquo), ma a un ben altro tribunale:  quello rappresentato e incarnato dall’«individuo stesso». L’interiorità è, per il  soggetto moderno, «l’unico spazio in cui si può decidere la condanna o guadagnare  la salvezza». Da questo punto di vista, l’autobiografia rousseauiana (non solo,  quindi, Les confessions, ma anche i Dialogues e le Rêveries) si presenta nella veste di  caso paradigmatico: l’io rousseauiano è un io che si scontra con il mondo e che a  fronte di questo scontro vuole guadagnare un’identità priva di crepe o di  contraddizioni. Un’identità che Jean-Jacques tenta di edificare riflessivamente all’insegna di un’irriducibile estraneità rispetto agli uomini (a suo dire, viziosi e  corrotti) che abitano il tempo storico nel quale, suo malgrado, si è trovato a vivere.  Nelle pagine di questa breve “incursione” nell’opera autobiografica di Rousseau analizzo unicamente alcuni aspetti de Les confessions, intendendole come una delle  più incisive e sintomatiche espressioni della condizione di disorientamento e di  spaesamento in cui versa il soggetto moderno. Ciò non toglie, tuttavia, che valga la  pena – in modo, si spera, non troppo azzardato – d’indicare dei binari interpretativi che, se messi alla prova, rendono conto della sostanziale unitarietà dell’opera  rousseauiana. Binari già tracciati, in passato, da alcuni (non molti) interpreti del  pensiero e della riflessione del Ginevrino ma, per così dire, largamente condizionati  da interpretazioni che non riuscivano a emanciparsi dalla figura del Rousseau «filosofo politico». Oggi, invece, quei binari possono venire finalmente recuperati,  rispolverati e riscoperti, grazie soprattutto a una tendenza che sempre più si fa strada  tra le fila degli studiosi e degli interpreti dell’opera e del pensiero rousseauiani: una  tendenza che spinge, con forza, verso «una comprensione allargata di Rousseau, in  cui il nesso tra antropologia e politica emerge in modo particolarmente accentuato».  Scrive Lionello Sozzi nell’Introduzione agli Scritti autobiografici del Ginevrino (Ed.  Einaudi-Gallimard): «Rousseau è l’autore delle Confessions, forse la più bella e la  più grande autobiografia che la letteratura occidentale conosca, ma anche al di là di  quelle fitte pagine, tutti gli altri suoi scritti sono in realtà autobiografici. Tutta la sua  opera, egli stesso lo dice nei Dialogues, non è in realtà che un autoritratto». O, come  afferma Paolo Casini, tutta l’opera di Rousseau «può esser letta come la trascrizione  simbolica di una rivolta emotiva, come una proiezione dei suoi conflitti o del suo difficile rapporto con se stesso e con il mondo reale». «Autoritratto», «trascrizione  simbolica»… Ecco i binari, le coordinate di cui sopra dicevamo. Come a dire: solo  provando a conoscere i moventi, le istanze, le convinzioni che hanno animato il “Jean-Jacques uomo” possiamo sperare di comprendere i “perché” sottesi alle  massime e ai principi del “Rousseau pensatore”, nella misura in cui il suo è un  pensiero che tende a presentare, più di altri, un’evidente ossatura esistenziale. Una  cosa è certa: l’unico modo che abbiamo per provare a conoscere Jean-Jacques è  quello di inoltrarci nella lettura della sua storia, quella storia che egli ci consegna, per  l’appunto, nelle pagine che compongono la sua opera autobiografica. Impresa non  facile, ma non per questo impresa che può essere elusa o accantonata, mossi e  fortemente persuasi da quanto Jean-Starobinski scrive nelle pagine de La trasparenza  e l’ostacolo: «Se Rousseau ha cambiato la storia (e non solo la letteratura) tale azione  non è avvenuta solo per effetto delle sue teorie politiche e del suo modo di vedere la  storia: per un verso, forse più degno di considerazione, deriva dal mito elaborato  intorno alla sua esistenza eccezionale». «Mito» che i suoi scritti autobiografici  hanno contribuito, d’altronde, massicciamente ad intessere e a diffondere. Uno dei luoghi letterari dove questo «mito» inizia a prendere forma e corpo sono  appunto le sue Confessions, teatro di una spasmodica e sofferta ricerca volta al  conseguimento di un’identità autentica, libera dalle false “etichette”. Cioè a dire, da quelle maschere che, nella sua ottica, chi vuol vivere in società è costretto  drammaticamente e perentoriamente ad indossare. Ora, la sua ricerca ha un ben  preciso punto di origine: Jean-Jacques «rientra dentro di sé». Nel farlo, tuttavia,  s’instrada su un sentiero irto di ostacoli e la cui meta (il conseguimento di un’identità  autentica) è tutt’altro che a portata di mano: l’io si scopre, infatti, colpevole e  contraddittorio. E per questo, tanto lontano dal potersi proclamare innocente quanto  incapace di poter sfoggiare una condizione identitaria armonica e priva di zone  grigie. Il fatto, ad esempio, che lui, autore dell’Émile, abbia abbandonato i suoi  cinque figli all’orfanotrofio, se non può «delegittimare» tout court «la validità  intrinseca di questa singola opera», di certo tende a «incrinare» «l’immagine del  grande fustigatore morale». «La contraddizione tra teoria e pratica era – pertanto – un problema serio per la sua autorappresentazione ideale (corsivo mio), e per lo  stesso motivo non può non esserlo anche per noi, che cerchiamo di capire le sue  opere e ci interroghiamo sul loro valore di verità». Jean-Jacques non può che  versare, così, in una condizione di scissione, di disarmonia e di frammentazione  interiore. Condizione che non vuole accettare e dalla quale vuole divincolarsi; condizione che crede di potersi lasciare alle spalle intessendo le trame della sua  storia, ritenendo che sia sufficiente raccontarsi per poter non solo dimostrare la sua  innocenza ma anche per far risaltare, con forza, la coerenza che lega le massime e i  principi contenuti nelle sue opere con la condotta da lui tenuta nel corso della sua  vita. Un’ambizione che – come vedremo –, nella misura in cui implica la presenza di  un’intima relazione tra la ricerca interiore condotta dal filosofo ginevrino e il suo pensiero religioso, si rivelerà essere di difficile, difficilissima attuazione.  Lo stesso Rousseau, del resto, si dimostra essere pienamente consapevole  dell’eccezionalità dell’opera che ha deciso di sottoporre all’attenzione tanto dei  lettori del suo tempo quanto di quello a venire. «Je forme une entreprise – scrive nel  Libro I delle sue Confessions – qui n’eut jamais d’éxemple, et dont l’exécution  n’aura point d’imitateur». Subito dopo, aggiunge: «Je veux montrer à mes semblabes  un homme dans toute la vérité de la nature; e cet homme, ce sera moi». Rousseau  decide di “inscenare”, senza riserve, le dinamiche che hanno interessato, sconvolto, a  tratti “incrinato” il suo mondo interiore. Il suo vuole essere un racconto, una  narrazione di sé che, nel rivolgersi in primo luogo ai suoi «simili», agli uomini di  ogni tempo, ambisce a fissare, una volta per tutte, la sua sostanziale e insindacabile innocenza. E Dio? Quale e quanto spazio, se così possiamo dire, Jean-Jacques decide  di riconoscergli nella sua narrazione? Diciamo subito che non sembra incarnare un  ruolo da comprimario, né tantomeno da protagonista. Al massimo, gli si può  concedere la stessa dignità che Rousseau attribuisce agli altri suoi potenziali lettori.  «Dio è trattato alla stessa stregua, lettore tra gli altri. La confessio «non è più – così – una lode, ma un’apologia di un soggetto che si proclama […] indipendente da  qualunque autorità». Dio non si dimostra essere, cioè, un interlocutore prediletto,  con il quale poter instaurare un dialogo personale e provvidente. Non è, per  intenderci, il Dio della confessio agostiniana, paterno, colloquiale, “compagno di  strada” più che giudice imperturbabile e severo. Agostino si confessa «perché crede.  Ed è Dio che innesca il movimento dell’anima verso di lui». Rousseau si confessa,  invece, per essere visto, perché l’«Essere supremo», nella veste di «lettore tra gli  altri», giudichi l’esito del suo gravoso sforzo introspettivo: l’io rousseauiano ambisce  ad essere, cioè, uno «spazio privo di ostacoli», come ci ricorda Jean Starobinski;  uno spazio cristallino, incondizionatamente trasparente, immediatamente accessibile  a ogni sguardo; uno spazio “scandagliato” ma non per questo redento dallo sguardo  del Dio a cui si rivolge. Alla redenzione, all’espiazione delle colpe di cui si è  macchiato, Jean-Jacques crede di poter giungere mediante le sue sole forze,  attraverso il suo semplice – ma, dal suo punto di vista, risolutivo – raccontarsi. Si  potrebbe anche affermare che, in quest’ottica, un io «è un io quanto più è pubblico,  quanto meno sottrae alla custodia della sua anima il suo essere più intimo», sul quale non può così che gravare inesorabilmente il «giudizio degli altri»: «un tribunale  chiamato a giudicare – tuttavia – non le azioni ma le intenzioni». Vale la pena ricordare quanto scrive lo stesso Rousseau nelle pagine che fanno da  incipit alle sue Confessions: «Que la trompette du jugement dernier sonne quand elle  voudra; je viendrai ce livre à la main [Les confessions] me presenter devant le  souverain juge. Je dirai hautement: voila ce que j’ai fait, ce que j’ai pensé, ce que je  fus. J’ai dit le bien et le mal avec la même franchise. […] Je me suis montré tel que je fus, méprisable et vil quand je l’ai été, bon, généreux, sublime, quand je l’ai été:  j’ai dévoilé mon intérieur tel que tu l’as vu toi- même. Etre éternel, rassemble autour  de moi l’innombrable foule de mes semblabes: qu’ils écoutent mes confessions,  qu’ils gémissent de mes indignités, qu’ils rougissent de mes miséres. Que chacun  d’eux découvre à son tour son cœur aux pieds de ton trône avec la même sincérité; et  puis qu’un seul te dise, s’il l’ose: je fus meilleur que cet homme-là». Ben diverse  sono, per così dire, le coordinate entro le quali si articola il serrato dialogo tra l’io  agostiniano e il Dio paterno che viene amorevolmente evocato, per l’appunto, nelle  pagine delle Confessiones. «Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio  cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei:  te». Cosa sei per me?», si domanda Agostino. «Abbi – continua subito dopo – misericordia, affinché io parli. […] Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda». La «salvezza», per il Santo d’Ippona, può essere così conquistata, a differenza di  Rousseau, solo a patto che non ci si esima dal tendere «le orecchie del cuore» alla  «bocca del Signore»; la «misericordia» di Dio, e non il soggetto che si racconta da  sé, in sé e per sé, deve essere, pertanto, considerata l’unico, vero fondamento su cui  poggiano le speranze di salvezza dell’uomo. «Ecco, le orecchie del mio cuore – scrive Agostino a conclusione del cap. 5 del Libro I – stanno davanti alla tua bocca,  Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce  io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per  vederlo». Un non trascurabile, per quanto breve, inciso: alla fin dei conti, quando si parla di  Dio, la posizione rousseauiana non sembra discostarsi minimamente da quella  condivisa dalla maggior degli autori e pensatori illuministi. Non appare per nulla  azzardato ritenere, infatti, che il Dio della confessio rousseauiana possa essere  identificato con il «Dio dei philosophes», con il Dio, cioè, caro al deismo  settecentesco, le cui caratteristiche e prerogative sono ben lungi dal poter essere  ritenute conformi a quelle che contraddistinguono il Dio «lodato» da Agostino nelle  pagine delle sue Confessiones. Che cos’è, d’altronde, la Profession du foi du vicaire  savoyard, contenuta nel Libro quarto dell’Émile, se non «una delle più lucide  illustrazioni del deismo settecentesco»18? Tuttavia, il lettore dell’opera e degli scritti rousseauiani sa bene quanto – per ragioni di ordine diverso, di certo non enumerabili  né esplorabili nelle poche pagine di quest’articolo – burrascosi e problematici fossero  i rapporti tra il pensatore ginevrino e alcuni degli esponenti di spicco – mi si passi  l’espressione – dell’intellighenzia illuminista

Significativi attriti e divergenze, dunque, ma anche numerosi punti di contatto e  d’incontro; su una cosa non sembra che si possano avanzare dubbi: il Dio della  confessio rousseauiana ha la stessa, identica fisionomia del Dio caro al versante  deista. Un Dio – lo si sa, è noto – impersonale, garante dell’ordine inalterabile che  vige nell’universo; un Dio distante, non interpellabile e che di certo non può essere  “scomodato” al fine di veder provvidenzialmente riscattate quelle colpe, quelle  contrariétés che tendono a contraddistinguere la condizione tragica in cui versa Jean Jacques; un Dio al quale quest’ultimo – si potrebbe dire, coerentemente – non  chiede, nelle pagine della sua opera autobiografica, d’altra parte, nessuna provvidenziale forma d’intercessione.  

La «grazia» non si sprigiona allora dal dialogo personale e serrato con Dio, si  presenta invece, in un certo qual modo, inscritta «nella vita stessa del soggetto che si  racconta». Siamo, così, di fronte al passaggio «dalla confessio come atto d’amore» (com’era nel caso della confessio agostiniana), ad una confessio che, mediante la  «scrittura autentica», s’identifica con un «percorso» che porta il soggetto de facto ad  espiare, da se stesso e in se stesso, le proprie colpe. La confessio diventa, detto  diversamente, un «modo dell’autoassoluzione». Ma, se questo è lo scenario che  prende piede, che cos’è Dio, in ultima analisi, se non «l’autoconsapevolezza  dell’uomo retto che si riflette in se stessa»? D’altra parte, se c’è una cosa verso la  quale Jean-Jacques non si azzarderà mai a muovere il benché minimo dubbio è  proprio quella di conoscersi come Dio stesso lo conosce. L’atto della confessione è così, per il soggetto che intesse le trame della sua storia, «già di per sé un’espiazione  che tramuta la passione carnale in trasparenza morale». Quella dell’io rousseauiano  non può che apparirci, stando a quanto detto, come la voce di un io solitario, un io  «prigioniero di se stesso», che da se stesso non riesce, in nessun modo, a decentrarsi;  gli altri (uomini) e Dio non possono essere considerate presenza autentiche,  dialoganti, interlocutorie. Sono, invece, presenze mute, passivi e impersonali  spettatori, cui l’io si rivolge solo per presentare «i conti che ha messo in ordine con  le sue sole forze». «Moi seul. Je sens mon cœur et je connois les hommes. […] Si je ne vaux pas  mieux, au moins je suis autre» , scrive Rousseau sempre nel Libro I delle  Confessions. Provando, per un momento, ad allargare lo spettro d’indagine e di riflessione, si potrebbe dire che la confessio rousseauiana è sì monologo – come si è  visto – di un io convinto di potersi, mediante la scrittura di sé, autoassolvere; è sì lo  sforzo edificante di un soggetto che mira, nel modellare il suo racconto, ad espiare le  colpe (o, meglio, gli “errori”) di cui ritiene di essersi macchiato. Ma non è solo  questo. O per meglio dire, la confessio rousseauiana, nel presentarsi come  «l’apologia di un soggetto che si proclama […] indipendente da qualunque autorità»,  sembra anche rivelarsi, per così dire, un esplicito, irruento e tonante atto di accusa  nei confronti della modernità: di quella modernità alla quale Rousseau si oppone con  tutta la forza e il peso della sua penna, e nei confronti della quale vuole dimostrare la  sua consistente diversità, la sua irriducibile estraneità. Autoassoluzione e accusa tendono, così, a intrecciarsi nelle Confessions rousseauiane, dando vita ad una  dialettica del tutto sui generis: l’io si può legittimamente proclamare innocente  perché si avverte e si ritiene come del tutto estraneo rispetto a quel mondo delle  maschere popolato da uomini ormai incapaci anche solo di udire l’eco della loro  natura originaria. L’io e il mondo appaiono separati da una distanza incolmabile, che  non è altro se non il sintomo di uno scontro senza frontiere, di un’opposizione senza  soluzione di continuità. “La mia innocenza – sembra dirci Rousseau – si può (e si  deve) misurare anche sulla base di una non appartenenza interiore ad una società che  reputo corrotta dal vizio e dalla mollezza dei costumi”. Una non appartenenza i cui  contorni vengono tratteggiati sulla scia – si potrebbe dire – di una ben precisa,  quanto conflittuale, giustapposizione, che tanto spazio occupa nelle migliaia di  pagine che compongono l’intera opera rousseauiana.. Giustapposizione che vede, da  un lato, l’homme naturel, la cui vita interiore è contraddistinta, nell’ottica  rousseauiana, da un’assoluta e indiscriminata trasparenza. Dall’altro, l’homme civil,  un uomo, tutt’al contrario, opaco, impermeabile ad ogni sguardo, oscuro persino a se  stesso, corrotto e “deturpato” dalla società delle maschere e costretto a sobbarcarsi il  peso di un’esistenza de facto inautentica. È un uomo, afferma il Ginevrino nelle  pagine del Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, che vive «toûjours  hors de lui», non sapendo vivere «que dans l’opinion des autres, et c’est, pour ainsi  dire, de leur seul jugement qu’il tire le sentiment de sa propre éxistence». O, per  dirla nei termini di Jean Starobinski: «L’io dell’uomo sociale non si riconosce più  dentro di sé, ma si cerca fuori, fra le cose; i mezzi diventano – in questo modo – il  suo fine». La confessio di Jean-Jacques tende ad assumere la fisionomia, pertanto, di gesto rivoluzionario, di profondo e radicale momento di rottura. Se gli uomini del  suo tempo, gli «uomini sociali», si cercano, infatti, agli occhi del Ginevrino, «fra le  cose», al di fuori e non al di dentro dei loro mondi interiori, egli rivolge il suo  sguardo unicamente verso se stesso; si cerca, senza sosta, «dentro di sé». Il «male»  che ammorba il vivere in società è, per Rousseau, primariamente «velo»,  «offuscamento», «maschera» che l’uomo sociale indossa quando, per mezzo  dell’«artifizio», «nega» «il dato naturale». Ecco perché Jean-Jacques desidera che il  suo mondo interiore venga visto, scandagliato, penetrato da ogni sguardo. Ecco perché, senza riserve o remore, non si esime dal «confessare» anche i dettagli o gli  aneddoti più intimi e scabrosi che hanno segnato la sua esistenza. Nulla deve  rimanere «velato», nemmeno ciò che può essere ritenuto ridicolo o di scarsa  importanza. L’uomo buono è, in prima istanza, colui che nulla nasconde, nella  misura in cui se il «male» è dato sociale, reso possibile dall’abuso che l’uomo fa  della sua «libertà», il bene deve essere ritenuto «dato naturale». «Dato» che, se  negato, tradito, non rispettato, non può far altro che generare, tanto sul piano interiore quanto su quello storico e sociale, caos e contraddizioni. Una su tutte? Un  esempio? Si ricordi l’incipit del Contratto, la primissima riga del primo capitolo:  «L’HOMME est né libre, et par-tout il est dans les fers».  Una domanda, visto e considerato ciò che si è detto intorno alla confessio  rousseauiana come gesto rivoluzionario, non può che sorgere spontanea: che  Rousseau voglia presentarsi come l’ultimo esponente, per così dire, di una specie (les  hommes naturels) ormai estinta? Che Rousseau si consideri, tutto sommato, uno dei  pochi, rari uomini – se non addirittura l’unico – ancora in grado di seguire  fedelmente e rispettosamente quei dettami che la natura ha radicato nel cuore degli  uomini, non è certo un mistero. È il Ginevrino stesso, infatti, a dirlo esplicitamente all’inizio delle Confessions (si ricordi il già citato passo del Libro I: «Je forme une  entreprise – scrive – qui n’eut jamais d’éxemple, et dont l’exécution n’aura point  d’imitateur. Je veux montrer à mes semblables un homme dans toute la vérité de la  nature; et cet homme, ce sera moi»). Rousseau si considera e si definisce come «il  migliore degli uomini». È «migliore» perché totalmente altro rispetto agli uomini  che abitano il suo tempo storico; è «migliore» perché del tutto estraneo alle  dinamiche di un mondo corrotto e degradato. Per questo motivo, la sua storia, se letta e compresa, non può che nobilitare e accrescere il grado di consapevolezza che il  lettore ha su se stesso e sul mondo. «Per lui la verità – scrive Starobinski – è un  privilegio unilaterale: gli altri dovranno conoscerlo per conoscersi meglio; giudicarlo  e assolverlo per poter “apprezzare” se stessi». Jean-Jacques si presenta come  modello e esempio: solo chi ascolta e pratica la sua «verità» può sperare di tornare ad  udire la sacra e santa voce della natura. Voce che può essere sì messa a tacere, ma  che non può essere, mai e poi mai, sradicata dal cuore dell’uomo: è sempre lì, infatti,  a sua disposizione. Basta solo che ci si allontani interiormente e, se necessario,  fisicamente dai luoghi e dai tempi della società civile, regno dell’amor proprio, del  pregiudizio e delle maschere, per poterla riscoprire come guida e regola di condotta.  L’uomo, così, che decidesse di vivere secondo gli insegnamenti e i dettami della  natura, si porrebbe tout court dinanzi a un bivio dai contorni ben definiti: o scegliere  di abitare il mondo, la società da apolide, condannandosi a versare nella condizione di straniero in mezzo a uomini dal cuore alterato e impenetrabile. Oppure, scegliere  l’esilio, l’allontanamento, la rinuncia ad ogni forma di mondanità. Jean-Jacques  sembra scegliere e preferire l’esilio: non vuole avere più nulla a che fare con quella  società che il suo cuore fermamente osteggia. Si condanna alla solitudine (si pensi a  come, nelle Rêveries, descrive e racconta il suo soggiorno sull’isola di Saint-Pierre)  perché incapace di sobbarcarsi il peso e la gravità di un’esistenza, ai suoi occhi, inautentica. Decide di «sottrarsi», in definitiva, a quel mondo che la sua penna aveva,  senza tentennamenti, messo sotto accusa fin dalla pubblicazione del primo Discours (1750).  

L’io rousseauiano non può che apparirci, così, come un io costretto entro una  prigione dalle sbarre troppo spesse per poter essere divelte; un io che vive il  fallimento di ogni forma di relazionalità; un io gravato da una solitudine irriducibile, sintomo ed espressione del desiderio e della volontà di scomparire agli occhi di una  società che lo rigetta perché incapace di decifrare le specificità del suo essere nel  mondo: scenario che prende piede nelle Confessions, ma che nei Dialogues e nelle  Rêveries raggiunge la sua fase culminante. La solitudine sembra essere, dunque, la  cifra che contraddistingue, più di altre, l’itinerario autobiografico di Rousseau. E non  solo sul piano esteriore, contingente, sociale. Ma anche su quello intimo, interiore,  profondo. Tanto il foro esterno, cioè, quanto quello interno possono essere descritti – si potrebbe dire – all’insegna della stesso, drammatico fallimento: l’impossibilità di  intessere anche la più misera forma di relazione. Su questo punto il pensiero e il  sentimento religiosi del pensatore ginevrino, se opportunatamente problematizzati,  possono essere considerati decisivo e indispensabile banco di prova. Come l’io di  Agostino, infatti, anche quello rousseauiano si presenta essere come un io peregrino,  un io in cammino, alla ricerca di un’identità armonica e coerente. A differenza del  Santo d’Ippona, tuttavia, Jean-Jacques s’illude, pur consapevole dei limiti e delle  imperfezioni insuperabili che caratterizzano la condizione umana, di poter riscattare  da sé, per sé, in sé quelle contraddizioni e quelle colpe che hanno interessato e  segnato la sua esistenza. Non si avvale di alcuna forma di mediazione trascendente,  si rende indipendente da ogni premessa di natura metafisico-religiosa. L’io rousseauiano è solo con se stesso; e in se stesso crede di poter trovare la cura ai mali  che lo tormentano: un’impresa dai risvolti titanici e rivoluzionari, ma – come  testimonia il suo iter autobiografico – illusoria e destinata alla deriva. Coma dar  torto, allora, a Jacques Maritain quando, nella parte dei Tre Riformatori dedicata al  filosofo svizzero, definisce il Dio della confessio rousseauiana null’altro che un «Dio  immanente». Un Dio, ovvero, che non trascende la dimensione interiore dell’io,  magari indirizzando lo sguardo introspettivo del soggetto, ma che trova – viceversa – spazio in essa come mero «nome della Coscienza». Come sempre, il filosofo  francese ha nei confronti di Rousseau toni non di certo lusinghieri o accomodanti. Non sorprende, così, che anche in questo caso non voglia per nulla smentirsi. Per lui,  infatti, il filosofo ginevrino se la prende fin «troppo comoda con l’Essere eterno».  «Ammiriamo come si confessa – tuona –, e comprendiamo ciò che per lui è divenuta  l’idea cristiana della confessione. Si accusa, ma per darsi da sé l’assoluzione, la  corona e la palma. Egli ha, oserei dire, rivoltato come un guanto l’umiltà cristiana».  Eppure, lo stesso filosofo francese, pur criticando, fino in fondo, gli esiti dello sforzo  introspettivo e riflessivo di Jean-Jacques, («egli – scrive – acconsente a decadere  dallo stato di ragione, e a lasciar vegetare tali e quali i brandelli della sua anima»),  non si esime dal riconoscere che la «singolarità» di Jean-Jacques risiede proprio  nell’accettazione di se stesso e delle sue «peggiori contraddizioni». «Acconsente di  essere insieme il sì e il no», afferma il filosofo francese. «Questa è la sincerità di  Jean-Jacques». È la «sincerità», tuttavia, di un io prigioniero di se stesso; un io che,  nell’illudersi di poter essere bastevole a se stesso, nel privarsi della presenza interiore  e autentica tanto dell’Altro (Dio) quanto degli altri (gli uomini), si condanna ad una  solitudine dalle mura insormontabili. 

24/10/2015
Data
Autore

Non utilizziamo cookies di tracciamento degli utenti o di profilazione. Per saperne di più puoi visitare la pagina relativa ai cookies.