Lo stato di emergenza e lo stato di eccezione: una teoria liberale
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Il modo di vedere che probabilmente animava chi difese la tragica scelta dei tre malcapitati era stato espresso, un po’ più di cent’anni prima, da David Hume, in questo passo della Ricerca sui principi della morale:
supponiamo che una società cada nella mancanza di tutte le cose comunemente necessarie, che la massima frugalità e la massima attività non riescano a togliere il maggior numero di uomini alla morte, e tutti all’eccesso di miseria. Credo che si ammetterà facilmente che in una situazione di tanta emergenza le rigorose leggi della giustizia risulterebbero sospese, per lasciar posto ai motivi più violenti del bisogno e dell’autoconservazione. È forse un delitto, in seguito a un naufragio, prendere qualsiasi mezzo o strumento di salvezza a portata di mano, senza riguardo per le precedenti limitazioni di proprietà? O se una città assediata stesse morendo di fame, possiamo immaginare che gli uomini che vedessero davanti a sé un mezzo qualunque di sostentamento, lo lascerebbero e andrebbero incontro alla morte, per un riguardo scrupoloso di ciò che, in altre situazioni, sarebbero state le regole dell’equità e della giustizia? L’uso e la tendenza di questa virtù sono quelle di procurare felicità e sicurezza conservando l’ordine nella società; ma quando la società è sul punto di morire per la mancanza di cose necessarie, da parte della violenza e dell’ingiustizia non v’è certo da temere un male peggiore; ogni uomo può allora provvedere a sé stesso con tutti i mezzi che gli può suggerire la prudenza o che gli può consentire l’umanità. Il potere pubblico, anche in contingenze meno gravi, apre i granai senza il consenso dei proprietari e suppone giustamente che l’autorità del magistrato possa, in coerenza con l’equità, giungere a tanto; ma quando si unisce una certa quantità di persone senza legami della legge e della giurisdizione civile, un’eguale spartizione di pane durante una carestia, anche se compiuta con la forza e perfino con la violenza, si potrebbe forse considerare come un delitto o un’offesa? (III, 1).
[1][1]
Per Hume, la giustizia vale in situazioni di moderata, ma non di estrema, scarsità – in condizioni, per così dire, normali. In frangenti straordinari – di estrema scarsità o di enorme abbondanza – i dettami della giustizia tacciono, anche se forse rimangono le esigenze di preservare l’ordine, e in nome dell’ordine il potere politico può calpestare diritti e libertà. Il mondo alle prese con la pandemia di Covid-19 è in queste condizioni? Siamo usciti fuori dalla sfera della giustizia?
Il 2 gennaio del 2018 (presidente del Consiglio in carica era Gentiloni), è stato emanato un decreto legislativo, inteso a regolare le attività della Protezione civile. All’art. 7, comma 1, lettera c), il decreto stabiliva che l’intervento della protezione civile si può avere anche in casi di «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo (sic!) che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24» (corsivi aggiunti). Nell’art. 24, comma 1, si dice che «al verificarsi degli eventi che, a seguito di una valutazione speditiva svolta dal Dipartimento della protezione civile sulla base dei dati e delle informazioni disponibili e in raccordo con le Regioni e Province autonome interessate, presentano i requisiti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c), ovvero nella loro imminenza, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l’intesa, delibera lo stato d’emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l’estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l’emanazione delle ordinanze di protezione civile». Al comma 3, si precisa che «la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi».
Il 31 gennaio del 2020, il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza, stabilendone la durata in sei mesi a partire da quella data, allo scopo di fronteggiare «il rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili». Molta della successiva produzione normativa, e soprattutto i decreti del presidente del Consiglio derivano (cioè si giustificano a partire) dal decreto legislativo del 2018 e dalla dichiarazione del 31 gennaio di quest’anno.
Lo stato d’emergenza reso possibile nel 2018 e poi dichiarato nel 2020 pone molteplici questioni. Si tratta di una situazione realmente inedita. Come che se ne giudichino le ragioni e le conseguenze, siamo di fronte a una sospensione – uso intenzionalmente un termine neutro (o comunque più neutro di ‘violazione’) – della gran parte dei diritti costituzionalmente sanciti della grandissima maggioranza dei cittadini italiani. (E naturalmente il fatto che situazioni analoghe si verifichino in moltissimi altri paesi non è rilevante per un giudizio valutativo.) Probabilmente, si tratta della sospensione dei diritti e delle libertà costituzionali più ampia e prolungata nella storia della Repubblica.
Lo stato di emergenza pone questioni giuridiche (l’assenza del Parlamento, la mancanza di una esplicita disposizione costituzionale a riguardo, la compatibilità fra dichiarazione dello stato di emergenza e i diritti e le libertà, nonché i valori e i principi, stabiliti nella nostra Costituzione), questioni politiche concrete (l’efficacia di questi provvedimenti e il loro costo politico, la loro gestione e le loro conseguenze immediate sulla vita pubblica, sul tessuto civile, sull’opinione pubblica del nostro paese, nonché sul ruolo internazionale e globale dell’Italia, le conseguenze economiche e sociali più dirette dell’interruzione di una serie ampia delle normali attività del paese, gli effetti psicologici individuali e sociali del distanziamento sociale e del lockdown, l’impatto sulle categorie più vulnerabili – carcerati, anziani soli, donne a rischio di violenza, ammalati cronici, minori). Ci sono infine anche questioni sociologiche, politologiche e storiche più ampie: la relazione fra esperti e politici, o più in generale fra politica e scienza, la percezione dei rischi e delle probabilità e l’uso politico che se ne fa, l’uso dei dati e delle statistiche, l’impatto di questa situazione sullo stato di salute della democrazia, e così via. Di molti di questi problemi si sono occupati in maniere molto interessanti altri, anche su queste pagine.
Tuttavia, lo stato di emergenza pone anche questioni più generali di teoria politica, che sono fra quelle che vorrei considerare qui: la relazione fra libertà e sicurezza, il rapporto fra la legittimità politica in condizioni ordinarie e legittimità degli atti di governo in situazioni di emergenza, i pericoli di degenerazioni autoritarie che uno stato di emergenza può creare. Il 20 marzo scorso il presidente ungherese Orban ha presentato al Parlamento un decreto che gli concedeva pieni poteri sine die – incluso il potere di sciogliere il Parlamento medesimo – e questo provvedimento è stato approvato il 31 marzo. La giustificazione data da Orban è l’emergenza costituita dalla diffusione del Covid-19. Tutte questi problemi si riassumono nella domanda con cui sono partito: in condizioni estreme la giustizia deve tacere? In uno stato di emergenza i diritti e le libertà si possono calpestare, senza porsi problemi e farsi scrupoli?
Hafatto molto discutere un breve pezzo di Giorgio Agamben (uscito il 26 febbraio, dopo il primo provvedimento di lockdown, a quell’epoca ancora limitato a Lombardia e Veneto), intitolato “L’invenzione di un’epidemia” (si veda qui: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia)[2][2]. Agamben parte da una premessa scettica: l’epidemia (allora era solo epidemia, l’annuncio della pandemia sarebbe arrivato pochi giorni dopo, l’11 marzo) non ha le conseguenze gravi che alcuni – inclusi esponenti del governo – sostengono avrebbe. Allora, si chiede Agamben, come si giustificano i provvedimenti, come si giustifica lo stato di emergenza? Agamben propone due spiegazioni per «un comportamento così sproporzionato». Da un lato, la politica della paura, e cioè il «vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo» che caratterizza la cittadinanza delle nostre democrazie e viene sfruttato da politici opportunisti. Dall’altro, assistiamo, secondo Agamben, all’ennesima manifestazione di una tendenza di fondo, e non nuova, della nostra politica: «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (corsivo aggiunto), una tendenza che caratterizza un disegno politico autoritario nascosto ma sistematico – tanto è vero che il decreto che Agamben commentava il 26 febbraio è stato ben presto esteso alle altre regioni, come egli stesso paventava. E i provvedimenti del governo configurano, sempre secondo Agamben, una vera e propria militarizzazione del territorio[3][3]. Lo stato di eccezione, sostiene ancora Agamben, è la sospensione delle normali garanzie liberal-democratiche – cioè dell’insieme di diritti e libertà generalmente garantite in una liberal-democrazia. Questa sospensione si ottiene interrompendo le procedure che le liberal-democrazie prevedono a difesa di diritti e libertà – per esempio, non facendo funzionare i vari organismi di controllo, soprattutto il Parlamento, oppure annullando la divisione dei poteri (come avviene nel momento in cui il governo legifera). Sosterrò che nella tesi di Agamben ci sia una parte di verità, ma che si possa rispondere ad essa elaborando una teoria liberale dell’emergenza (che, come vedremo, dissolve la dicotomia fra norma ed eccezione e rifiuta la nozione di ‘stato di eccezione’, pur salvando l’idea di condizioni di emergenza).
L’obiezione di Agamben, che potremmo chiamare obiezione eccezionalista, si può articolare nei seguenti passaggi:
1. lo stato di emergenza non è stato di eccezione, almeno concettualmente: l’emergenza, quale che sia, non giustifica la sospensione dei normali diritti e libertà costituzionali, né delle normali procedure democratiche;
2. dallo stato di emergenza, però, inevitabilmente si passa allo stato di eccezione: «è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani» (“Chiarimenti”);
3. lo stato di eccezione è amorale o immorale: l’epidemia ha gettato il paese in uno stato di «confusione etica» (“Chiarimenti”);
4. lo stato di emergenza è politicamente pericoloso, perché rischia di fare dello stato di eccezione la modalità di governo normale («il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea», diceva Agamben nel libro da lui dedicato al tema nel 2003[4][4]) e di condurre a una tirannia surrettizia: «sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata» (“Riflessioni sulla peste”).
L’obiezione eccezionalista presuppone una teoria più completa dello stato di eccezione. Nel libro del 2003, Agamben sostiene che «una teoria dello stato di eccezione manca nel diritto pubblico»[5][5]. Nella discussione di filosofia politica, tuttavia, lo stato di eccezione non è stato un tema del tutto trascurato – anche prima della riflessione di Agamben.
Considerando il dibattito moderno e contemporaneo, possiamo isolare le seguenti tesi:
A. Lo stato di eccezione come degenerazione dell’ordine politico legittimo:lo stato di eccezione costituisce una rottura ingiustificata dell’ordine politico legittimo, che è sempre pericoloso e difficile da irreggimentare e limitare. Essenza della liberal-democrazia è proprio evitare eccezioni allo Stato di diritto, alle procedure democratiche e alle garanzie a difesa di diritti e libertà. Non c’è emergenza che giustifichi uno stato di eccezione.
B. Lo stato di eccezione come condizione dell’ordine politico legittimo: lo stato di eccezione è il fondamento necessario dell’ordine politico legittimo, per due ragioni (alternative fra loro e corrispondenti a due versioni di questa tesi): a. perché l’ordine politico legittimo necessita di un sovrano – un supremo decisore, che costituisce lo spazio del diritto e dell’ordine politico esercitando il potere; oppure b. perché l’esercizio dei poteri di emergenza tipici dello stato d’eccezione serve, in certi casi, a salvaguardare i valori, i diritti e la libertà garantiti e realizzati dall’ordine politico legittimo.
La prima tesi è implicitamente contenuta in tutti quei pensatori della tradizione liberale – un esempio ovvio è Kant – che non danno spazio per lo stato di eccezione nelle loro teorie, considerandolo la negazione di un ordine politico legittimo. In queste teorie, mettere tra parentesi i principi della liberal-democrazia è impossibile – è una contraddizione in termini. Se si verificano condizioni tali per cui non si possono seguire le procedure democratiche e assicurare diritti e libertà, l’unica possibilità è il crollo della politica, il collasso dello Stato – una situazione di disordine profondo, un ritorno allo stato di natura, all’anarchia. In questo tipo di teorie, lo stato di eccezione è una condizione intrinsecamente immorale e illegittima.
La seconda tesi, invece, corrisponde o alla visione proposta da Carl Schmitt, in cui l’ordine giuridico-politico dello Stato si fonda sulla decisione arbitraria e originaria del sovrano, che decide chi applica le leggi e ne determina le interpretazioni legittime, e subentra quando l’emergenza e il caos richiedano decisioni rapide, univoche e determinate: il sovrano è chi decide dello stato di eccezione, cioè decide quando le condizioni della legittimità politica si possono interrompere, per il fine supremo di garantire la continuazione di uno Stato legittimo una volta cessata l’emergenza.
Oppure protagonista dello stato di eccezione è il legislatore costituente di Rousseau, che istituisce – obbedendo a certi ideali – la repubblica, in tempi straordinari, ed è pronto a intervenire in soccorso dello Stato quando condizioni di emergenza dovessero metterne in pericolo l’esistenza: il salvatore della Repubblica, nelle condizioni di emergenza, garantisce la sopravvivenza dello Stato anche a costo di trasgredire le norme di legittimità politica che valgono nel periodo ordinario. In questo tipo di teorie, lo stato di eccezione è la condizione della rivoluzione e della resistenza costituzionale, nonché la garanzia della sopravvivenza dello Stato in condizioni di emergenza: una condizione amorale, forse, ma certo non politicamente illegittima. La visione di Hume, in un certo senso, è simile: in certe condizioni, per preservare l’ordine – per garantire gli elementi minimi della sopravvivenza – il potere politico può sospendere, e quindi violare, certi diritti e libertà. La giustizia tace, per cedere il passo alle ragioni della sopravvivenza.
L’obiezione di Agamben presuppone, anche se non adotta, la visione schmittiana dello stato di eccezione. Ma Agamben teme che lo stato di eccezione come possibilità di sospendere le condizioni di legittimità costituzionale, senza nessun vincolo morale, sia una deriva pericolosa verso una deriva totalitaria – una deriva che, d’altra parte, Schmitt riteneva una declinazione lecita della sovranità. Il Leviatano – cioè il potere politico – è un mostro capriccioso, che può sfuggirci di mano, se non lo addomestichiamo e lo tratteniamo. Curarsi troppo della sopravvivenza, o cedere troppo facilmente all’idea di trovarsi in condizioni eccezionali, rischia di condurre alla tirannia.
Ma perché mai lo stato di eccezione e i poteri d’emergenza dovrebbero essere al di fuori della legittimità, della giustizia, della moralità? Proprio la pandemia, a parer mio, suggerisce una terza visione dello stato di eccezione, una teoria liberale dove l’eccezione ricade comunque all’interno della sfera della legittimità, dove la giustizia non tace in condizioni di emergenza.
L’aspetto più rilevante della pandemia e delle misure che, più o meno dappertutto (anche se con tempi e modalità diverse), sono state intraprese ha a che fare con la dinamica del contagio e con la coordinazione che è necessaria per rallentarlo. Come è stato spiegato da molti, e rimanendo su un piano semplificato e generale, ci sono due aspetti rilevanti del contagio: il tasso di accrescimento del contagio, cioè il numero di persone che un positivo può contagiare (l’ormai famoso fattore R0), e le fonti e i mezzi del contagio – contatto fisico diretto, goccioline di saliva, e così via[6][6]. Le misure di lockdown – indipendentemente dagli aspetti specifici di varie versioni di esse – hanno un unico obiettivo: ridurre il tasso di contagio lavorando sulle fonti e i mezzi del contagio. Fonti e mezzi del contagio, purtroppo, siamo noi: lavorare sulle fonti e i mezzi del contagio significa ridurre il contatto fra le persone – indipendentemente dal fatto che esse siano realmente contagiose o no, in assenza di informazioni attendibili su questo. Ridurre il contatto fra le persone significa intervenire su una serie di comportamenti abitudinari e consolidati, legati a una miriade di attività tipiche, in un certo senso, della nostra società: il lavoro e la scuola, innanzitutto, ma anche gli stili di vita più in generale – l’accesso a luoghi di socializzazione e di divertimento, le abitudini consolidate nella gestione della vita casalinga e pubblica. Quest’intervento deve mirare ad attuare comportamenti coordinati: tutti debbono rimanere a casa. Anzi, l’obiettivo è sostituire a certi comportamenti coordinati ormai consolidati – tutti andiamo al lavoro a certe ore, rincasiamo a certe altre, usciamo per divertimento in certe ore e certi giorni – diversi comportamenti coordinati: inventare una nuova norma sociale[7][7].
La coordinazione sociale è una specie di miracolo: com’è possibile che tutti facciano la stessa cosa, o meglio che tutti facciano una serie di azioni individuali che, messe insieme, producono un risultato sensato, e forse anche migliore di quello prodotto senza coordinazione? Questa magia si realizza, anche se in maniere molto imperfette, nel mercato. Ma in realtà c’è un mago che aiuta molto a farla: lo Stato – cioè il sistema di regole che gli Stati e i governi mettono in atto e che garantiscono il buon funzionamento del mercato e di altre istituzioni sociali. Beninteso: il mago-Stato aiuta, non determina. Senza il convincimento delle persone – che esso derivi da motivazioni egoistiche o da motivazioni altruistiche, da interessi biechi di mercato o da valori morali – nessuna legge funziona. Secondo me, anche in uno Stato autoritario, certe leggi funzionano perché la maggior parte delle persone diventa acquiescente, per una ragione o per l’altra. Gli studi di psicologia sociale sul senso di autorità degli individui normali hanno mostrato che molti regimi totalitari, ben prima che sul terrore, o in aggiunta al terrore, si sono fondati sulla passività dei loro cittadini[8][8]. E il mago-Stato può diventare spesso un apprendista stregone, complice la psicologia sociale e l’acquiescenza all’autorità. Qui sta la verità contenuta nell’obiezione eccezionalista e nei timori di Agamben e altri.
Nella maggior parte dei casi, le regole di cui parlo stabiliscono, ma anche limitano, diritti e libertà. Non esistono diritti e libertà assoluti, per la semplice ragione che il diritto assoluto di qualcuno limiterebbe i diritti di altri. Il diritto alla libertà di pensiero non arriva a difendere chi, in un teatro gremito, urlasse: “Al fuoco!”, per vedere l’effetto che fa. O, per riprendere l’esempio famoso di J.S. Mill ne La libertà (1859),
Anche le opinioni perdono la loro immunità, se uno le esterna in circostanze tali da far diventare le sue parole una vera e propria istigazione a qualche misfatto. L’opinione che i commercianti di grano sono degli affamatori dei poveri, o che la proprietà privata è un furto, dovrebbe poter circolare indisturbata finché viene solo diffusa sulla stampa, ma può diventare legittimo punirla se la si esprime a voce in mezzo a una folla eccitata, assembrata davanti alla porta di un commerciante di grano, o se la si sbandiera con devi volantini fatti circolare fra quella stessa folla (cap. III)[9][9].
Nel caso della pandemia, gli Stati hanno fatto quel che era necessario – seppur spesso in maniere imperfette – a realizzare nuove strutture di coordinazione, andando contro abitudini consolidate, contro vere e proprie norme sociali. Quest’operazione non è stata fatta in maniere molto differenti, nonostante le apparenze, rispetto alle modalità consueta: diritti sono stati stabiliti – o meglio sono stati difesi – e diritti sono stati limitati. Il diritto alla salute è stato difeso, limitando il diritto al movimento, e talvolta il diritto al lavoro e all’istruzione. Per quanto possa sembrare strano, non si è realizzato nessuno stato di eccezione: lo Stato, o il governo, ha continuato a fare quello che fa comunque – rafforzare certi diritti, limitarne altri, con il fine di garantire condizioni egualitarie e diffuse di godimento di certi beni e diritti.
Quindi, lo stato di emergenza non è uno stato di eccezione, in due sensi. Non lo è in senso descrittivo, perché non c’è nessuna discontinuità nell’azione del governo, che adesso come prima rende la coordinazione sociale possibile e rende diritti e libertà compossibili – cosa che, spesso, significa limitare certi diritti e libertà, o i diritti e le libertà di certuni, perché certi altri diritti e libertà, o i diritti e le libertà di certi altri, possano essere assicurati, e lo siano in egual misura per tutti. Non lo è in senso normativo, perché i valori che giustificano la coercizione del governo – se e quando quella coercizione è giustificata – valgono sempre, anche in condizioni di emergenza. La giustizia non tace mai: perché è giustizia assicurare a tutti (o al maggior numero possibile) la possibilità di avere, se si trovano nelle condizioni terribili in cui mette il virus chi ha malattie pregresse o immunodeficienza, un accesso a letti di terapia intensiva che sono disponibili in quantità limitata.
Ma tutto questo ragionamento non significa che nelle condizioni di emergenza tutto vada bene, che il superiore bene dell’ordine sociale giustifichi ogni cosa. L’idea è che alle condizioni di emergenza si applichino gli stessi requisiti, le stesse basi di giustificazione dell’azione governativa in casi normali e consueti. Ogni limitazione di diritti va giustificata, e va giustificata a chi subisce la limitazione e a chi ne gode gli effetti. Ci si può, e forse ci si dovrebbe, chiedere come mai certe risorse siano così limitate – per esempio: perché abbiamo questo numero di letti in terapia intensiva, e non di più? Ci si può, e ci si dovrebbe, chiedere se il lockdown sia proporzionato o tardivo, o eccessivo. Si è detto che la pandemia è paragonabile a una situazione di guerra, e l’analogia è sghemba e infelice, anche e soprattutto per l’inutile aggressività che sollecita. Ma c’è un aspetto comune forse: si tende a pensare alla guerra come la sospensione di qualsiasi regola morale, come la situazione in cui tutto è lecito. Eppure, una tradizione secolare, che inizia da Tommaso e arriva a Michael Walzer, ha riflettuto sui limiti da osservare anche in guerra. Ed è una riflessione sui limiti della violenza che era nella mente di molti partigiani di formazione cattolica durante la Resistenza – il che mostra che anche in quelle condizioni, di reale emergenza, non si dava eccezione, cioè sospensione dell’orizzonte della moralità e della giustizia[10][10].
La necessità di fare in fretta può ammettere giustificazioni posteriori – come è stato quando Conte ha riferito al Parlamento. Ma la giustificazione ci vuole: ci possono essere poteri di emergenza, per proteggere certi diritti e farlo subito. Ma non ci possono essere poteri discrezionali: una teoria liberale dello stato d’emergenza implica che l’emergenza vada gestita alla luce dei valori che lo Stato liberale tutela in condizioni ordinarie, e che questa gestione sia resa chiara ed evidente a tutti i cittadini. E i trade-off, gli scambi fra i diritti di certuni e quelli di certi altri, o fra certi diritti e altri, vanno condotti con attenzione, alla luce di valori condivisi, e giustificandoli a tutti. Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta la fuga di Astrea (la divinità della giustizia) dal mondo degli esseri umani, dove regna l’ingiustizia. Ma la giustizia non fugge mai, in realtà: sta a noi cercare di realizzarla, anche quando il mondo intorno a noi sembra più inospitale che mai.