“Invocando di vivere, scopro che cerco di morire”. Giorgio Agamben e la pandemia

L’autore del frontespizio del Leviatano, Abraham Bosse, disegnò il sovrano nell’atto di unire la moltitudine disunita e sotto rappresentò una città dalle strade deserte. Solo delle guardie e due strane figure dal naso a becco. Sono due medici della peste, ed evocano il virus che più di altri poteva minacciare la città: la guerra civile. Quell’immagine cita Tucidide, lo ricorda Carlo Ginzburg ma lo ricorda anche Giorgio Agamben, che in un testo di stasiologiariprende lo storico greco: la peste di Atene come origine dell’anomia e della rivoluzione[1]. Nel De cive (e anche nel Leviatano) i doveri del sovrano sono tutti riassunti nella massima il bene del popolo è la legge suprema. Due paragrafi dopo, Hobbes chiarisce: “Per bene dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice”[2]. È, nella lettura di Agamben, il riconoscimento della superiorità di una vita sociale nel senso più ampio, l’unica davvero ‘piena’ (bios), rispetto alla nuda vita, ovvero alla mera sopravvivenza, la vita animale che accomuna gli esseri viventi (zoé).

Ora alla peste della guerra civile e della dissoluzione si è in realtà sovrapposta la peste vera e propria, il cui contrasto minaccia, secondo Agamben, la pienezza della condizione umana. La gestione dell’emergenza, lo stato di eccezione, subiscono – è il pensiero che il filosofo ha espresso in una serie di articoli ora raccolti sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet[3] – un’accelerazione ulteriore, rischiando di trasformarsi da sporgenza ‘normale’ dell’ordinamento politico-giuridico in una nuova normalità in nome della salute pubblica, laddove però essa non è più il conseguimento della felicità per il maggior numero, ma – e forse a dire il vero più hobbesianamente, nonostante quanto dica Agamben, ché nel Leviatano la salus, stante la rappresentanza, si trasforma nella safety del sovrano[4] – la mera sopravvivenza.

È difficile non concordare con la tesi di fondo: che la gestione dell’emergenza sia il grimaldello per la sospensione dei diritti attraverso il diritto stesso, è un dato con il quale facciamo i conti da molto tempo. Che sia avvenuta perfino un’accelerazione è anch’esso un fatto, basti pensare all’estensione della logica emergenziale italiana dalle catastrofi ai ‘grandi eventi’.

Dunque, se si esclude qualche infortunio, questo aspetto del polittico agambeniano non pare molto discutibile, né particolarmente nuovo. Ma gli articoli hanno comunque sollevato moltissimo dibattito, e numerosissime critiche. Premesso che sarebbe ingiusto giudicare il lavoro di un filosofo così importante da tre articoli giornalistici d’occasione (sarebbe come giudicare Foucault dagli interventi sull’Iran), la riflessione generale di Agamben si riverbera su di essi in modo significativo. Mi pare che le critiche si possano enucleare in due punti: Agamben ha invitato all’irresponsabilità, negando i rischi e proponendo una reazione sconsiderata di rifiuto della logica emergenziale, poiché essa rappresenterebbe una minaccia troppo grave alla libertà; Agamben è innamorato di uno schema astratto, il proprio, ed egli lo pantografa su tutto ciò che gli capita a tiro.

Entrambe allo stesso tempo colgono e non colgono il punto. Intanto, che qualcuno esca di casa e si dia alla crapula vitalistica andandosene in giro a contagiare gli altri perché lo ha detto Giorgio Agamben è una divertente sopravvalutazione del ruolo dei filosofi nel mondo contemporaneo. Magari esistessero ancora condanne a morte per i filosofi che corrompono o che minacciano la salute della società! In realtà, si tratta di un dibattito entro una ristretta cerchia di appartenenti a una corporazione litigiosa, i filosofi. Anche la seconda critica è pertinente e non pertinente. Ognuno è innamorato dei propri schemi: il punto non è l’applicazione di quella lente al presente, ma la costruzione stessa della lente. Non è, in altri termini, che la portata euristica della concezione agambeniana sia inefficace perché non spiega l’emergenza coronavirus: essa è euristicamente infeconda perché è stata costruita da sempre in modo infecondo. Poiché essa spiega il potere in un modo che ricorda la notte schellinghiana di Hegel, come se il potere fosse un male (non necessario?) caratterizzato da una condizione tendenzialmente oppressiva e totalitaria dal diritto romano fino ad Auschwitz e oltre. Se è così, tutte le misure, anche quelle ovvie di contrasto al coronavirus, rappresentano una minaccia totalitaria, tutto scivola pericolosamente verso il paradigma metafisico del politico: il campo, laddove lo stato di eccezione è permanente, così come Agamben denuncia stia diventando la società fuori dal campo. E tutti siamo homines sacri[5].Ogni azione assume il volto fosco del biopotere, che è ovunque, o meglio che è sempre stato ovunque perché è una categoria trascendentale che pur volendo parlare della storia annulla la storia. Su questa anti-storicità di certa genealogia foucaultiana aveva ragione Habermas. Ma anche Derrida parlando di Agamben: non c’è niente di genealogico nella costruzione di una categoria ontologica e nella ricerca di un punto originario, primo, che il filosofo è a sua volta il primo a denunciare[6].

Dicevamo che quella di Agamben è una necro-tanatopolitica che vorrebbe assumere il suo volto rovesciato, quello della biopolitica affermativa, almeno nel senso dello sprigionamento di energie resistenti come risposta ai dispositivi totalitari e del controllo. Ma essa si configurerebbe sempre come una risposta, una reazione all’abbraccio mortale del potere. Torna alla mente la puntuta critica di Carlo Ginzburg a una certa concezione del rapporto tra culture dominanti e culture subalterne in Michel Foucault: “Identificare la «cultura prodotta dalle classi popolari» con la «cultura imposta alle masse popolari», decifrare la fisionomia della cultura popolare esclusivamente attraverso le massime, i precetti, le novelline della Bibliothèque bleue è assurdo”[7]. Affermare che la cultura dei dominati sia un riflesso della cultura dei dominanti forclude la cultura subalterna, le forme di resistenza autonome rispetto alla determinazione dell’alto. Che i contro-poteri siano una produzione dei poteri è assurdo.  

Se molti hanno criticato il polittico agambeniano perché in esso vi sarebbe il suggerimento a ignorare i dispositivi politici e, volgarmente, a uscire, a baciarsi, ad abbracciarsi, cioè a far prevalere la ‘vita’ contro le pulsioni repressive dello stato di eccezione, qui si sosterrà che la filosofia agambeniana è avvolta anch’essa da un odore di morte. In questo continuum trans-storico in cui il potere è da sempre la minaccia della morte (altro discorso sarebbe dirlo in relazione allo Stato moderno, come sapeva Schmitt, che in una lettera a Kojève lamentava la morte proprio dello Stato in quanto ormai “incapace di condanne a morte” quindi non più creatore di Storia[8]), l’unico modo di reagire è negarsi. Il vitalismo contro le tanatopolitiche sarebbe tutto qui: introflettersi come se un pene si facesse vagina, diventare da maschile femminile, piegarsi, diventare foglia, filo d’erba, rifuggire l’azione ed esaltare il gesto improduttivo, inutile.

L’ontologia agambeniana è tutta nell’idea che l’altro modo di dirsi dell’essere sia quello di non passare all’atto, ma di rattenere la potenza. Se infatti la potenza è di essere o di fare, essa è anche di non essere e di non fare, ma non per questo rinuncia a essere potenza. Questa accezione della potenza è in forte analogia con l’idea della sovranità come inoperosità, o meglio assenza d’opera (désoeuvrement) in Bataille. Perché, e qui sta il punto del nostro discorso, c’è un maestro occulto dietro la riflessione agambeniana, così come esso è dietro buona parte della riflessione francese del secondo dopoguerra. Il maestro dichiarato è Walter Benjamin, quello ‘occulto’ Georges Bataille. Nel saggio Bataille e il paradosso della sovranità è lo stesso Agamben a dirci cosa avvicina Bataille a Schmitt nella concezione della sovranità. È il negativo, il porsi al di fuori della legge legittimamente, per Schmitt, ovvero è sovrano, per Bataille, colui che si pone al limite della propria sovranità, espiandola[9]. Il sovrano si mette legittimamente fuori dalla legge attraverso la legge e, per Bataille, è sovrano eccedendo (uccidendo) se stesso, non essendolo. Ma con il progetto filosofico di Homo sacer, il tema del sacro in Bataille diventa scomodo: “By the time Agamben begins the Homo Sacer project (1995), and in particular in Means Without End (1996), Bataille has been banished into unambiguously dismissive footnotes or ‘thresholds’ in which Agamben distances himself from Bataille’s definitions of the sacred, sacrifice and sovereignty. Thus, unlike Carl Schmitt, Martin Heidegger, Walter Benjamin or Michel Foucault, Bataille not only cannot be considered one of Agamben’s main informants, but receives all but marginal attention from him”[10].

Se Agamben parlava di “raccogliere l’esigenza propria del suo [di Bataille] pensiero”, da Homo sacer la vita per Bataille, secondo Agamben, resta “interamente stregata nel cerchio ambiguo del sacro”[11].  Agamben vuole dire che la nuda vita è uccidibile, ma non più sacrificabile, dunque non vi è più una sacertà intesa come ambiguità tra violenza e sacro. Agamben scrive che l’errore di Bataille è aver tentato di far valere la nuda vita come figura sovrana: “L’aver scambiato questa nuda vita separata dalla sua forma, nella sua abiezione, per un principio superiore – la sovranità, o il sacro – è il limite del pensiero di Bataille, che lo rende per noi inservibile”[12]. E dà ragione a Benjamin quando disse del gruppo di Acéphale che “vous travaillez pour le fascisme”[13]. In effetti è Bataille a sostenere che il sacrificio “restituisce al mondo sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano”[14].

Rimane, a nostro avviso, il programma di raccogliere l’esigenza propria del suo pensiero. Rimane, in altri termini, l’esigenza di pensare il rifiuto (la negazione, la morte), ma al di là dell’atto e del soggetto, al di là del rapporto col sacro come ambiguità tra violenza e sacertà. La violenza non ha più niente di sacro ma è esposizione alla morte banale, dice Agamben. Ma in fondo il compito che egli si è dato è di riportare il sacro nel rifiuto, togliendone l’ambiguità: la nuda vita è esposta alla violenza più profana, mentre bios è la sovranità senza soggetto e senza atto. Dunque la prosecuzione agambeniana di Bataille è nello scorporo della nuda vita per salvare l’elemento della potenza, che invece Bataille teneva insieme.

Per Bataille la vera sovranità può essere conseguita solo nella dépense, nello spreco, nel sacrificio rituale, nella distruzione. Egli rielabora in qualche misura l’idea maussiana del dono, ma la purifica dalla concezione della dazione a usura tipica del potlach per esaltarne la gratuità. L’erotismo, altro tema batailleano per eccellenza, è in questo la realizzazione sovrana del soggetto. Ma l’erotismo, l’estasi vitalistica, in Bataille è l’approvazione della vita fino nella morte, come l’ebbrezza della vita è l’intensificazione parossistica[15] che (s)confina con la morte.

Nel suo commento intitolato Riflessioni sulla peste, pubblicato sul suo blog, Agamben scrive che “sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” [16]. La sfida alla paura della morte, in Bataille, si trasforma nell’introiezione e nell’esperimento della morte stessa. Come il Kirillov dei Demoni di Dostoevskij, che diventa sovrano solo uccidendo se stesso e, attraverso il suicidio, uccidendo Dio. A questi passaggi del grande scrittore russo Nietzsche dedicherà più di una riflessione. Il suicidio ‘metafisico’ è il modo per cancellare Dio, per liberarsi dal suo ‘dominio’. Solo l’uomo che non ha paura di vivere o di morire può farsi Dio. Bataille scrive con grande chiarezza: “Nessuno può essere – per un istante – sovrano se non si perde”[17]. Per Bataille l’odio verso tutto ciò che tende a farsi autorità, per usare il suo linguaggio, si trasforma nel parricidio come vendetta contro il padre attraverso l’automutilazione.

Per Bataille che legge Hegel attraverso Kojève[18], il signore vive anch’egli in una condizione di servitù, essendo egli legato alla necessità della sopravvivenza: “Conservare la vita, mantenersi in essa, lavorare, rinviare il piacere, limitare la messa in gioco, tenere a bada la morte nel momento stesso in cui la si guarda in faccia, questa è la condizione servile della signoria e di tutta la storia che essa rende possibile”[19]. Per Bataille, ci spiega Derrida, si tratta di un’Aufhebung che si risolve in una commedia, in un’economia della vita che lambisce la morte e torna indietro per conservarsi. È per questo che Bataille formula la nozione di ‘sovranità’ (“la sovranità di cui parlo ha poco a che vedere con quella degli stati”[20], egli scriverà) per trasformare e stravolgere la signoria, strappandola alla dialettica, facendo emergere quella commedia sconosciuta a Hegel. Bataille teorizza una sovranità che si scioglie, si perde, non domina neanche se stessa: “La signoria diventa sovrana […] quando smette di temere il fallimento e si perde come la vittima assoluta del suo sacrificio[21]. Bataille teorizza il mondo sadeano che Klossowski aveva descritto, quello nel quale il bubbone del male deve essere portato a esplodere: assumere su di sé la morte al fine di far esplodere il bubbone, prendere Sade sul serio. Come nell’eresia gnostica del messianismo carpocraziano, occorre far consumare tutto il Male per accedere al Bene.

Se dunque più di uno ha visto nel polittico agambeniano una sorta di invito alla rivolta, alla disobbedienza, al recupero di bios e al rifiuto della riduzione a zoé[22], allora si deve affermare che non di un sogno vitalistico si tratta (nonostante i richiami al gioco, al gesto senza finalità, alla danza), ma di una sfida aristocratica che implica la bella morte. Aristocratica come l’indifferenza ‘heideggeriana’ del filosofo al pathos del mondo. Aristocratica, mistica e messianica. Ché l’azione non deve avere un fine, non è l’officium (che poi però è proprio del sovrano nel De cive). E non è un caso che anche ad Agamben, come a parte di certa cultura francese del secondo dopoguerra, sia cara la figura del Gesù melvilleano, lo scrivano Bartleby, scambiato per un eroe dell’ontologia negativa mentre è solo un ostinato che muore senza lottare, rannicchiato accanto alle mura del carcere di New York. Bartleby è, per Agamben, l’altro modo di dirsi della potenza in Aristotele. Una ‘potenza’ però rinunciataria: di una pallida, imperturbabile mansuetudine, dice Melville[23]. Come scrive Derrida, Bartleby preferirebbe, ma alla fine non preferisce: “il ‘I would prefer not to’ di Bartleby è una passione sacrificale che lo condurrà alla morte”[24]. Mi pare dunque si possa ripetere ciò che ha scritto Roberto Esposito di questo aspetto della metafisica batailleana, contrapposta a quella hobbesiana. Se quest’ultima è fondata sulla paura, quella è innervata dal desiderio, dal rischio, anche – come abbiamo detto – sovranamente dall’assenza di paura. Eppure è come se Bataille, “una volta rovesciato il paradigma sacrificale hobbesiano, finisse in qualche modo afferrato nella sua presa”[25]. Potremmo citare un altro Gesù ancora, Franz Kafka, e la sua angoscia della posizione eretta, la sua rinuncia al mondo, l’accettazione di tutto: quel Kafka batailleano secondo cui l’unica sovranità possibile sta nell’assenza di potere, nella dépense di se stessi.

Il vitalismo di Agamben dunque si rovescia nel suo contrario, in una sfida alla bella morte. E quanto è sintomatico che egli citi il cap. XX del libro I dei Saggi di Montaigne: “Non sappiamo dove la morte ci aspetta, aspettiamola ovunque[26]? Uscite, infettatevi, piegatevi al male, perché oggi stesso saremo nel regno dei cieli. Il ricordo di Jean-Luc Nancy, in fondo, è significativo: “Quasi trent’anni fa, i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto”[27].

La rivendicazione del mondo si introflette in una rinuncia al mondo, con una posa, dicevamo, aristocratica[28] che in definitiva è non solo impolitica, ma reazionaria. O reazionaria in quanto impolitica. Laddove ‘reazionario’ ha da essere inteso non volgarmente come ‘di destra’, ma come antimoderno. Se il moderno è la sfida rivoluzionaria alla violenza e al potere, se il moderno è l’idea che essi possano essere domati (anche attraverso lo Stato e il diritto), pur essendo consapevoli che uno scarto e un resto di violenza originaria si evoca continuamente dal fondo uccisore di ogni imperativo (per citare Lacan), allora Agamben è reazionario. E lo è perché ritiene che il diritto e lo Stato abbiano come paradigma l’annientamento delle forme-di-vita nella loro riduzione a nuda vita, e che da questa cattura – che opera da sempre e per sempre – non ci si possa liberare (a meno che non ci si neghi, diventando inutili e in definitiva morendo).

Viene in mente una straordinaria tragicommedia di Shakespeare, Misura per misura, sul potere sovrano in età moderna, sulla debolezza del sovrano che deve implorare di essere amato, un’opera nella quale c’è una vera canaglia, Barnardine, che viene chiamata al patibolo e vi si sottrae urlando ai suoi esecutori “Vi prenda la peste alla gola!”. Egli è l’anti-Bartleby: non vuole morire, e non morirà. Avrebbe dovuto al posto di Claudio, gentiluomo accusato di fornicazione, che – pur salvandosi in ragione del suo status – riuscirà solo a dire: “Invocando di vivere, scopro che cerco di morire”[29].

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