Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine

Thomas Casadei (Giappichelli, Torino, 2012)

Non è facile inquadrare la figura di Thomas Paine (1737-1809) e non è un caso che del suo  pensiero siano state offerte molte interpretazioni, spesso parecchio divergenti l’una dall’altra. 

Qualcuno ha visto in Paine un teorico dello «Stato minimo» e del liberismo, altri l’hanno fatto  rientrare nel novero dei precursori dello «Stato sociale». C’è anche chi l’ha collocato in una  posizione mediana fra le due interpretazioni precedenti, entro una prospettiva di  «repubblicanesimo liberale» (cfr. pp. 252-255). Altri ancora l’hanno, invece, definito  semplicemente un «agitatore politico», ridimensionando il valore teorico della sua opera (p. 23). 

Thomas Casadei considera Paine uno «scienziato delle idee» (ibid.) e sostiene con convinzione  l’interpretazione che lo inserisce fra i primi teorizzatori di un intervento forte dello Stato per  garantire una maggiore equità sociale e l’effettivo riconoscimento e rispetto dei diritti dell’uomo. 

L’argomentazione sviluppata nel libro è molto articolata e ha il merito di soffermarsi in modo  approfondito sugli scritti, anche quelli meno conosciuti, di Paine, riuscendo così a dar conto delle  molteplici sfaccettature e della significativa evoluzione del suo pensiero. Nel compiere questo  esercizio interpretativo, Casadei non affronta nel dettaglio la biografia dell’autore, ma sa legarla  ai cambiamenti che avvengono nelle sue riflessioni, collegate a diversi contesti storici e sociali. 

Lo “spazio atlantico” è centrale nella vita di Paine. È questa una delle caratteristiche che ne fanno  una sorta di ponte fra il “vecchio” e il “nuovo” mondo, e non è un caso se questa parola ricorre  spesso nel libro, a partire dal titolo.  

Dopo aver trascorso i primi trentasette anni di vita nella natia Inghilterra, Paine decide di  spostarsi in America del Nord (1774). Nelle colonie inglesi, il suo talento di scrittore emerge e lo  rende famoso con Common Sense (1776), un pamphlet che diventa immediatamente un  successo editoriale. Secondo Paine, le colonie americane non hanno più alcun interesse a essere  governate dall’Inghilterra e quindi devono cercare di ottenere al più presto l’indipendenza. Dopo  il massacro di Lexington (1775) nessuna riconciliazione con Londra appare possibile. Paine usa  la sua penna per influenzare direttamente gli eventi ai quali prende parte. Per questo motivo, e  per la sua decisione di partecipare in prima persona alla guerra d’indipendenza, Casadei lo  definisce un intellettuale militante, «a strettissimo contatto con il popolo» (p. 38). 

Negli anni successivi Paine assume un ruolo importante nel dibattito su come organizzare la  nascente struttura istituzionale degli Stati Uniti, ottenendo anche un incarico all’interno  dell’amministrazione. Egli sostiene che il potere legislativo deve emergere come elemento  cardine del nuovo ordinamento. Solo qui, a suo modo di vedere, il popolo è veramente  rappresentato nella sua interezza. Questa posizione lo porta allo scontro con chi, come i  federalisti Adams e Madison, afferma invece che il potere legislativo deve essere ridimensionato.  Il punto dirimente è la natura umana: alla visione ottimistica di Paine si contrappone un’idea  dell’uomo come essere corruttibile anche dopo aver ottenuto i suoi diritti. Secondo i federalisti,  è assai rischioso prevedere un sistema in cui il popolo è «troppo» libero di fare ciò che vuole.  Ciò li porta a proporre una struttura costituzionale in cui i poteri si bilanciano a vicenda,  riprendendo in parte l’impostazione del «governo misto» che, al contrario, Paine tanto criticava  (pp. 110-117).

Nel 1787 Paine torna a Londra e di qui si sposta in una Francia che sta vivendo la sua fase  rivoluzionaria. A questo, proposito Casadei sostiene che l’impatto con i contesti europei aiuta  Paine a capire che in presenza di forti disuguaglianze sociali non si può pensare a uno «Stato  minimo». Una soluzione di questo tipo era forse possibile solo negli Stati Uniti, dove le  disuguaglianze non erano ancora profonde e dove si riscontrava un’accentuata mobilità sociale  (pp. 181-182). Questo nuovo viaggio atlantico contribuisce così a fondare le concezioni che  troviamo in Rights of Man (1791-1792), una delle opere più celebri dell’autore inglese. 

Casadei sottolinea come l’impostazione stessa del pensiero di Paine sia un grimaldello capace di  scardinare l’ordine monarchico. Ad avviso dello scrittore inglese, affermare che tutti gli uomini  hanno uguali diritti serve a distruggere la “vecchia casa”, ma è allo stesso tempo la base sulla  quale edificarne una nuova (pp. 81-82). 

Paine si scaglia in maniera vigorosa e ricorrente, quasi “ossessiva”, contro il principio del potere  ereditario. Osservando la monarchia da un punto di vista razionale, egli dichiara che non è  possibile trovare motivi per continuare a sostenerla. Il re è una persona come le altre: in un  certo senso, Paine gli toglie la corona, la frantuma e la distribuisce al popolo (p. 121). 

Non deve quindi sorprenderci se una parte consistente del lavoro di Casadei si sofferma  sull’importanza rivestita dalle Carte costituzionali nel pensiero dell’autore inglese. 

Secondo la prospettiva painiana, il popolo non rinuncia mai ai suoi diritti. Al contrario, l’obiettivo  dell’accordo che esso conclude volontariamente è proprio ampliare i diritti naturali di cui ogni  individuo già dispone. L’accordo, inoltre, non è definitivo: può essere sempre modificato. In  questo modo, il popolo riesce a essere, al contempo, fonte del potere e soggetto preposto al suo  controllo (pp. 101-109). 

La Carta costituzionale diventa quindi l’architrave di questo modo di pensare. Essa è la garanzia  del rispetto dei diritti dell’uomo da parte del governo e Casadei ne sottolinea il ruolo di freno e  di indirizzo dell’azione governativa. In un certo senso, l’azione del governo è già contenuta nella  Costituzione. Inoltre, nella prospettiva di Paine diritti e doveri sono «due facce della stessa  medaglia» (p. 58). Questa reciprocità porta a concepire la solidarietà fra gli elementi base della  convivenza: quindi Paine, da questo punto di vista, non può di certo essere considerato un  liberale che si occupa solo dell’interesse dell’individuo (pp. 132-133). In Rights of Man,  compaiono così le prime proposte di carattere «sociale» di Paine. Se la prima parte dell’opera è  dedicata interamente alla sua nota polemica con Edmund Burke (ampiamente indagata alle pp.  62-83), la seconda si sofferma sul caratteri dei diritti dell’uomo e sulla loro piena realizzazione. 

In particolare, Paine concentra la sua attenzione sui soggetti più vulnerabili, poveri e anziani,  proponendo modalità concrete per far studiare i primi e per non abbandonare a se stessi i  secondi. L’obiettivo è includere tutte le persone all’interno della società, indipendentemente dalla  loro condizione sociale di partenza. Seguendo questa intenzione, Paine avanza precise proposte  per usare lo strumento fiscale in modo da trovare le risorse necessarie per attuare le sue idee  senza però provocare un aumento eccessivo delle tasse. Ciò induce Casadei a vedere in alcune  concezioni painiane una vera e propria filosofia della tassazione che persegue «l’espansione  dell’eguaglianza» (p. 183).  

L’architettura concettuale del pensiero sociale dell’autore inglese viene completata nel 1795 con  Agrarian Justice. In questo scritto, Paine afferma che tutte le persone, per il solo fatto di esistere,  hanno diritto all’utilizzo della terra. In una società che si basa sulla proprietà privata, dopo un  certo tempo sarà inevitabilmente sempre più difficile per le nuove generazioni avere la possibilità  di conquistare la terra con il lavoro, come sosteneva John Locke. La ricchezza è un frutto della  società; nello stato di natura nessuno garantisce il rispetto della proprietà privata e quindi essa  non può essere accumulata senza limiti (p. 192). Paine propone allora di istituire un «fondo  comune» grazie alle risorse fornite da chi più degli altri ha tratto vantaggio dall’istituzione della  società: ciò permette la creazione di un sussidio che spetta a tutte le persone facenti parte di  una comunità organizzata. Casadei vede in questa mossa la dimostrazione che nel pensiero di Paine esiste una «dimensione collettiva» (p. 190) che approda a una sorta di democratizzazione  delle concezioni lockiane (pp. 197-202). Paine rivendica in tal modo quello che ai suoi occhi è  un diritto, non un’elemosina che i ricchi elargiscono per avere la coscienza più leggera. Secondo  l’interpretazione suggerita nel volume, l’innovazione painiana consiste nel promuovere una  visione dell’uomo, della società e dell’economia che permetta ai poveri di «smettere di essere  poveri» (p. 185). In questo modo, pur partendo da una posizione vicina a quella di Adam Smith,  Paine finisce col proporre un liberalismo «democratico ed egualitario» (p. 180) in cui ai diritti  civili e politici si affianca per la prima volta anche un’ulteriore categoria di diritti: i welfare rights,  i diritti sociali. 

Entro tale visione, lo Stato svolge un’attiva funzione di indirizzo della sfera economica, oltre che  di riconoscimento, promozione, tutela e garanzia dei diritti (p. 186), tiene insieme interesse  individuale e interesse collettivo, ma si apre anche a buone relazioni con gli altri Stati e alla  possibilità di una «pace universale» mediante «il governo dei diritti dell’uomo» (cfr. pp. 235- 244). 

Nel suo complesso, il libro di Casadei fa dunque emergere i nodi di un pensiero che si dimostra  molto complesso, ma ancora attuale e utile per «tessere le trame della cittadinanza della nostra  epoca» (p. 260).

06/04/2013
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