Partito

Damiano Palano (il Mulino, Bologna, 2013)

Nel corso degli ultimi decenni un numero crescente di studiosi ha scelto di investigare  l’universo dei partiti politici: un’esigenza spesso indotta dall’evidenza quotidiana dei limiti di questi ultimi quali strumenti della rappresentanza democratica dentro e fuori le istituzioni. Soprattutto in  Italia, la letteratura sulla crisi dei partiti di massa del secolo scorso e sulla loro trasformazione in  chiave personalistica si è riverberata in una più ampia letteratura sulla crisi della democrazia  moderna, attanagliata da un combinato inedito di disaffezione, apatia e pulsioni antipolitiche.  Tuttavia, negli ultimissimi anni si è verificata una rinascita di studi intorno al senso della categoria  ‘partito’ che merita particolare attenzione. Come ha infatti rilevato Nancy Rosenblum, docente ad  Harvard Government, nel suo On the Side of the Angels (2008) e come ha ribadito con forza Jeremy  Waldron nella sua prolusione a Oxford poi pubblicata sul Journal of Political Philosophy (2013),  per tutta la seconda metà del Novecento gli studi sui partiti sono stati monopolizzati dalla scienza  politica e sono rimasti orfani della filosofia politica. Nel mondo di lingua inglese, a interrogarsi  sull’universo partitico da una prospettiva spiccatamente teorica, contribuendo così ad arginare  l’egemonia degli studi quantitativi, stanno contribuendo, oltre a Rosenblum e Waldron, studiosi  quali Russell Muirhead, Jonathan White e Lea Ypi. E in Italia?  

Nell’ultimo biennio il nostro paese ha registrato un’esplosione di studi sulle nuove  fenomenologie della rappresentanza politica. In questo contesto, studiare la crisi dei tradizionali  istituti rappresentativi e dei corpi intermedi ha significato interrogarsi sulla pensabilità di una  democrazia sempre meno dei partiti e sempre più dei leader. Lavori come quelli di Michele  Prospero, Piero Ignazi, Marco Revelli, Salvatore Lupo – solo per citarne alcuni – hanno apportato  contributi significativi in tal senso. Ma il libro di Damiano Palano ha una sua specificità anche  rispetto a questa nuova corrente di studi: fornisce una storia concettuale della categoria ‘partito’ di  cui nella nostra letteratura si sentiva fortemente la mancanza, conciliando una rigorosa ricostruzione  storica di ampio raggio con una sensibilità teorica circa il futuro dei partiti nelle odierne  ‘democrazie dell’audience’. Finora, infatti, era assente nel panorama storiografico nazionale una  ricostruzione globale del posto riservato alla ‘parte’ nella costruzione del corpo politico. Come  Palano illustra in modo rigoroso attraverso uno studio comparato delle dottrine e dei testi che si  dipana dal mondo classico (greco e romano) al contesto odierno, il partito ha conquistato a fatica una propria “onorabilità” all’interno della teoria e della pratica politiche. Di una simile storia del  pregiudizio il libro in esame individua sette momenti fondamentali. 

Anzitutto, esso prende in esame la democrazia degli antichi, per i quali pensare un Tutto  composto di parti significava attentare alla salus rei publicae, minare le fondamenta della  convivenza civile, complottare contro l’unità e la tenuta del corpo politico. Le ricorrenze dei termini  stasis, eteria e sinomosia nel contesto culturale ellenistico e la distinzione tra pars e factio nel  lessico sallustiano e ciceroniano, che Palano tratteggia nel primo capitolo, dimostrano le radici  profonde di un pregiudizio che si sarebbe trascinato per i successivi venticinque secoli.  

Sottolineando la teoria dell’isomorfismo tra gerarchia cosmica e gerarchia politica che  pervade l’intera cultura medioevale e la cui fortuna è consacrata dal Policraticus di Giovanni di  Salisbury, egli si sofferma in secondo luogo sul panorama dottrinario che sottende alla costruzione  della Respublica Christianorum: la celebre metafora contenuta nell’apologo di Menenio Agrippa si  fonde con l’immagine paolina del corpus mysticum e contribuisce al primato, in chiave  organicistica, del tutto sulla parte. Dopo aver richiamato la realtà dei Comuni italiani e le sfumature  acquisite dal lemma pars in alcuni dei testi più significativi a cavallo tra Due-Trecento e primo  Quattrocento – dallo Pseudo Brunetto Latini e Guittone d’Arezzo a Dante, Marsilio da Padova e  Leonardo Bruni –, Palano si concentra sulla costruzione dello Stato moderno quale artifizio  razionale che si impone super partes

È questo il terzo dei grandi momenti di riflessione sulle parti politiche che egli ricostruisce.  Ancora nel solco della corrispondenza tra techne e physis, gli Stati che prendono forma a partire  dalla pace di Vestfalia del 1648 sono personae morales che, per vivere, non possono ammettere il  conflitto al proprio interno. Questo ostracismo nei confronti delle parzialità si fa esplicito nel  Seicento ma affonda le proprie radici – spiega Palano – nella riflessione cinquecentesca. Se per  Machiavelli, erede in questo della tradizione romana, le discordie intestine possono ancora svolgere  una funzione positiva laddove inscritte entro un quadro costituzionale che sappia tramutare il  conflitto in elemento di forza per la repubblica, Guicciardini, in aperta polemica col Segretario  fiorentino, condanna fermamente “la infezione delle parti”. Tuttavia, nel passaggio dal Cinque al  Seicento, a seguito dell’emergere degli Stati moderni, l’antipartitismo che innerva la storia del  pensiero politico occidentale compie un passo ulteriore: le invettive nei confronti delle sette e  fazioni che contaminano il corpo politico sono pronunciate in nome dell’interesse universale dello  Stato. Con i teorici della ragion di Stato, l’esistenza stessa delle parti non è più soltanto perniciosa:  diviene addirittura criminale. Non mancano certo sfumature: laddove Bodin riconosce un potenziale  ruolo ai collegi nel caso in cui questi rimangano subordinati all’autorità del sovrano, Botero e  Althusius non lasciano spazio alcuno agli interessi parziali (per quanto dal secondo sia ammesso il  consociazionismo all’interno di un una visione dell’ordine politico ben più articolata). Ciò  nonostante, la spersonalizzazione del potere concreto del principe e la parallela personalizzazione  dello Stato rendono illegittima qualsiasi espressione di dissenso, ricondotto in misura crescente,  come Palano ricorda guardando alla dottrina giuridica del Cinquecento, nell’alveo del crimen laesae  maiestatis

Da codesta prospettiva – è la quarta fase della genealogia storico-concettuale tratteggiata da  Palano – il contesto inglese è pervaso dall’analogo rifiuto di sectae, factiones e partialitates che  anima il Continente: Bacon, Hobbes, Locke e Harrington ne sono esempi significativi, all’interno di  uno scenario politico turbolento e segnato da una sempre più radicale contrapposizione tra sovrano  e Parlamento. Tuttavia, anche in questo caso non mancano sfumature rilevanti: se Bacon, nel solco  di Machiavelli, sembra incline a una limitata tolleranza del dissenso, Harrington, memore anch’egli  dei Discorsi del Fiorentino, ipotizza la convivenza nell’ordinamento repubblicano di “umori”  diversi, fatta eccezione per il fanatismo dei partiti spirituali. Ma è Lord Bolingbroke, nella sua  raccolta A Dissertation upon Parties, il primo a distinguere tra ‘fazione’ e ‘partito’: alla  contrapposizione tra whigs e tories egli sostituisce quella tra court e country, individuando nel  country party il portatore degli ideali della nazione e nel court party l’esito nefasto di una politica  che alla tutela della Costituzione – compito primario del re patriota – sostituisce il primato degli  interessi parziali. Frenare, contenere e bilanciare le passioni politiche è anche l’obiettivo di  Montesquieu, che guarda a Machiavelli e alla sua interpretazione della repubblica romana per  sostenere una visione dialettica dell’ordine all’interno delle comunità politiche. Moderazione è  anche l’ideale di Hume, il quale nel saggio Dei partiti in generale propone una prima  classificazione tipologica dei partiti, distinguendo tra ‘fazioni personali’, legate a interessi e  amicizie, e ‘fazioni reali’, fondate su questioni di principio. Ma è soprattutto a Burke che si deve la  prima vera sistematica difesa del partito politico in epoca moderna. Nei suoi Thoughts on the Cause  of the Present Discontents egli individua nel partito una connessione “onorevole” necessaria per il  corretto funzionamento del sistema rappresentativo poiché favorisce il perseguimento dell’interesse  comune alla nazione. È dunque, come ricorda Palano, il primato della Nazione a sancire la difesa  (condizionale) dei partiti nella costellazione teorica burkeiana, come emerge anche dal celeberrimo  Discorso agli elettori di Bristol.  

La quinta e la sesta fase riguardano specificatamente l’Otto e il Novecento. Con la  Rivoluzione francese s’inaugura in modo progressivo un nuovo orizzonte concettuale nel quale alla  gerarchia propria dell’ordine medievale prima e moderno poi si sostituiscono l’orizzontalità dei  rapporti tra classi e il primato della sovranità popolare. Non si tratta di un processo immediato. Se  Rousseau e Sieyès sono ancora eredi dell’antipartitismo più viscerale, con il primo che si scaglia  contro le “società parziali” e con il secondo che trasforma una parte (il Terzo Stato) in quel nuovo 

Tutto che è il popolo-nazione, nei primi decenni del XIX secolo si afferma l’immagine hegeliana  dello Stato, nella quale rivive su nuove basi l’antico modello della rappresentanza cetuale. La  visione organicistica e nazionalista dello Stato-persona propria del Romanticismo tedesco (da  Hegel, Gentz e Mohl a von Stahl, Treitschke a Laband) e la riflessione italiana sulla degenerazione  del governo parlamentare a causa dei corpi intermedi (da Rosmini a Bonghi, da Minghetti a Mosca  e Orlando) si intersecano con il consolidamento del profilo extra-istituzionale dei partiti. Mazzini e  Buonarotti in Italia, Blanqui in Francia e Marx ed Engels in Germania sono i principali esponenti di  una visione inedita dell’associazione e del partito politico, interpretati quali strumenti per realizzare  il potenziale rivoluzionario delle classi subalterne. D’altro canto, nel passaggio dall’Otto al  Novecento, la dimensione elitista dei partiti dei notabili, inscritti entro una visione aristocratico liberale dello spazio politico che attribuiva ai colti e possidenti il compito di rappresentare la  nazione e più in generale consegnava alle minoranze organizzate la possibilità di preservare  l’asimmetria rispetto alla maggioranza disorganizzata (secondo la diagnosi di Ostrogorski e  Michels), è sostituita dal pieno affermarsi delle macchine partitiche, espressioni par excellence,  come spiega in pagine memorabili Weber, dell’intreccio tra i convergenti processi di  Bürokratisierung e Demokratisierung. Ma il Novecento è anche il secolo nel quale, sulle ceneri  dello Stato-persona, s’impone l’ideologia dello Stato-partito e in cui al contempo viene sviluppata  l’idea marxiana del partito come strumento di lotta culturale e sociale oltre che politica: Panunzio,  Gentile e Schmitt, da una parte, e Gramsci, dall’altra, sono i principali teorici della stagione che  precede il dispiegarsi della democrazia dei partiti nel secondo dopoguerra. 

La settima e ultima fase è quella che Palano chiama dei “Tiranni senza volto”, cioè di partiti  che dominano lo spazio pubblico delle democrazie del secondo Novecento costituendone insieme la  premessa strutturale e uno dei principali vulnera. La visione minimalista della democrazia elaborata  da Schumpeter – i partiti quali strumento di selezione elettorale periodica dell’offerta politica – descrive infatti la forma dello Stato dei partiti di massa, ma non ne sa afferrare il contenuto. Il  Parteienstaat nato a fatica dopo l’esperienza degli opposti totalitarismi si mostra fragile e poroso a  fronte di corpi intermedi che si dimostrano tutt’altro che responsivi e democratici rispetto ai propri  elettori e assai inclini alla conservazione oligarchica nonché all’accrescimento del potere acquisito.  La diagnosi tracciata da Minghetti a soli vent’anni dalla nascita dello Stato italiano si conferma  tristemente attuale alla fine del secolo scorso, con l’esplosione di Tangentopoli e l’emergere di una  partitocrazia all’insegna della corruzione. Se la fine della democrazia dei partiti e l’avvento della  democrazia dell’audience annunciata da Manin nel 1997 costituisca oggi non soltanto una realtà  concreta ma soprattutto il destino delle odierne forme democratiche di governo, è l’interrogativo  che Palano solleva nelle ultime pagine della sua rigorosa ricostruzione. Può esistere una democrazia  senza od oltre i partiti?  Richiamandosi alla diagnosi formulata da Marco Revelli nel suo libro Finale di partito, il  nostro autore rileva la “tempesta perfetta” che si è scatenata alla fine del Novecento e che ha  ridimensionato notevolmente il ruolo dei corpi intermedi. L’infragilirsi della sovranità statuale, la  de-territorializzazione della rappresentanza, il tramonto del modello fordista proprio della civiltà  capitalistica del secolo scorso, il diffondersi di forme più flessibili di lavoro e l’affermarsi di  modalità inedite, più orizzontali e spontanee, di organizzazione socio-politica (come dimostrano le  proteste studentesche già alla fine degli anni Sessanta), hanno inciso profondamente nei fianchi già  molli dei partiti, complicandone la crisi e demolendo quanto rimaneva del Parteienstaat novecentesco. Ma la politica – ricorda Palano nel solco di Rancière – è e non può che essere  conflitto tra parti irriducibili al tutto. Da qui scaturiscono quella che egli definisce “la maledizione  della politica moderna” – l’ambizione perpetua, e perennemente frustrata, di ricomporre l’ordine a  partire dal disordine – e al contempo la nuova sfida per i corpi partitici: saper dare voce al nuovo  partito dei “senza parte”. Riusciranno ad esserne all’altezza, oppure si riveleranno, nelle parole di  Piero Ignazi che Palano fa sue, “sgraziati e impacciati Leviatani”? Con questa domanda,  inevitabilmente aperta, si conclude una ricostruzione tanto rigorosa sul piano storico-concettuale  quanto gravida di sollecitazioni su quello teorico-politico.

19/07/2014
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