La quotidiana persistenza della nazione. Nota al Nazionalismo banale di Michael Billig.
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Questo breve, significativo pensiero di Cesare Pavese, a suo modo carico di poesia e di malinconico romanticismo, restituisce senza dubbio il senso di legami profondi, di un appassionato rapporto con uno spazio al contempo fisico e simbolico, di una stretta relazione tra sentimento e terra, innervati l’uno all’altra. In questa rapida ed acuta riflessione, incastonata all’interno di un romanzo aspro e intenso, incentrato sui temi della solitudine e dello sradicamento, da un lato (la vicenda, autobiografica, rimanda al Pavese déraciné, ormai avvolto nel buio che lo condurrà fino al tragico suicidio), e del senso delle proprie origini dall’altro lato, c’è però qualcosa di più. Una varietà di significati e di richiami si sommano, si sovrappongono e si confondono. Nelle parole del celebre scrittore piemontese c’è un evidente omaggio alle terre degli avi; c’è la ricerca della stabilità e una naturale propensione al perpetuarsi della vita, poiché, avverte Pavese, prima o poi «uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione»: portando con sé questo desiderio, ogni uomo tende, come il protagonista del romanzo, a «metter su nome e piantare un giardino». Nel pensiero tratto da La luna e i falò c’è però anche l’esaltazione del borgo natio, in senso stretto, e della patria, in senso lato. Il paese – con la voce dei rospi e dei grilli che suona familiare, con lo scricchiolio del vento che sa di casa, con le stelle del paesaggio notturno che riempiono gli occhi e il cuore – costituisce infatti la dimensione del primo e più importante orizzonte; è, soprattutto nell’ottica contadina fatta propria da Pavese, il luogo, fisico e spirituale, aspro e gioioso, miserabile e fecondo, che schiaccia e protegge al contempo, come una pietra incombente (perché «vita senza sfogo») e come un ventre sicuro, in grado di custodire gli equilibri prodotti dalla tradizione; è lo spazio dell’amore familiare e dell’intimo legame con la terra, con gli usi e le memorie; è, come già avvertiva, non senza esasperazione, Monaldo Leopardi, l’ambito che scandisce i modi e i tempi dell’appartenenza; è, al redde rationem, l’epitome della nazione e la sineddoche del mondo intero.
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