La parola pubblica. Frammenti di una genealogia politica da Platone a Wittegenstein

Il concetto e la parola. Un concetto è una parola. Chi dice cosa?  

Il soggetto rappresenta la parola pensata. Pensa la vita dentro la forma. Forma la  parola dentro il pensiero. «Il pensiero e il discorso sono la stessa cosa, con la sola  differenza che quel discorso che avviene all’interno dell’anima fatto dall’anima con  se stessa, senza voce, proprio per questo fu denominato da noi ‘pensiero’».  

Differenza impercettibile ma decisiva. L’asserzione di Platone inaugura un  lungo e sempiterno percorso che si è caratterizzato per il divorzio tra forme del  pensare e aneddotica della vita. Le traiettorie contingenti di quest’ultima sembrano  acquistare senso solo entro una sua formazione che le proviene dall’esterno, una  forma-di-vita verso la quale la vita stessa non ha potere, sfuggendole perché  sballottata dalle dinamiche di pensiero. Wittgenstein la riconduce all’interno delle  pratiche pubbliche che contornano l’emergenza di società segnate anche dal  linguaggio, dalle parole e dalle cose

1 – Polis e parola 

Quando il pensiero si dischiude verso il mondo, fluisce verso una parola già in attesa di essere fecondata. Tuttavia, lo stesso concetto che le soffia esistenza ne  soffoca il suono: il silenzio della parola è la voce del pensiero. La phonè semantichè è  l’eco rumorosa che rende presente la tacita astrazione, l’evocazione che, asserendo la  cogenza dell’assente, ne dispiega il senso, il “nostro” senso.  Recuperare la radice tematica del termine idea, riconoscerne la coincidenza in  greco con l’aoristo del verbo orao (vedere) consente di palesare istantaneamente il  filo che cuce idea, visione e sapere; il sapere costituisce il momento di arrivo all’idea  di Bene: ho visto, dunque so. Tale sapere deve costruire la propria cogenza così da  non connotarsi in senso esclusivamente contenutistico; si insinua per questo dentro il  processo di formazione sociale piegandone la direzione in senso strategico. Sin  dall’incipit del VII libro della Repubblica Platone chiarisce che la narrazione che sta  per svolgersi, esemplificativa dello stato di abbrutimento in cui versano gli umani  privi di sapere, segue il passaggio dallo stato di apaideusia a quello di paideia; la  formazione è accesso al sapere, l’educazione è sapere, un modello unico per un  sapere unico, senza via di scampo.

«Dalla più profonda necessità vitale trasse origine l’idea di educazione, la  quale riconosce nel sapere la nuova grande potenza spirituale di quell’età, una forza  plasmatrice dell’uomo». Un uomo che la polis del V sec. volge in cittadino  “plasmato” secondo un’idea di cultura che fonde formazione e politica; il sapere  viene così codificato come quel processo culturale che modella l’uomo a essere  politico, abilitato a tale ruolo dalla sua potenza oratoria, «vero timone nelle mani  dell’uomo di stato». È su tale scacchiere che i sofisti dispongono le loro pedine;  contaminano virtù e politica in modo da organizzare uno spazio pubblico che esige  che il cittadino impari a essere retore per essere virtuoso, e a essere virtuoso per  essere politico:  «[Prot.] L’oggetto del mio insegnamento consiste nel sapersi condurre con  senno, così nelle faccende domestiche, tanto da amministrare nel modo  migliore la propria casa, come nelle faccende pubbliche, tanto da essere  perfettamente capace di trattare e discutere le cose dello stato. – [Socr.] Mi sembra che tu parli dell’arte politica e che ti proponi di formare  buoni cittadini. – [Prot.] Proprio questo è ciò che io mi propongo di professare».  

L’iscrizione dell’aretè politica all’interno dello spettro semantico dell’arte  oratoria, nel momento in cui la svuota di una pretesa etica assolutamente fondata, ne  predispone una dimensione esclusivamente sociale, stringendola così inesorabilmente  ai vincoli della contingenza.  Il verosimile ha preso possesso del politico, forte di una parola a tal punto  debole di contenuto da essere alla mercè di tutti coloro che sappiano ottimizzarne  l’esercizio; «mentre nelle altre arti la scienza si risolve tutta nel lavoro manuale e in  altre attività del genere, la retorica invece non consiste in nessuna simile opera  manuale, ma tutta la sua efficacia e azione si esplica mediante la parola». La parola,  dunque, innerva il tessuto politico qualificandone l’agire, modulando sul proprio  essere efficace l’accesso allo spazio pubblico; uno spazio organizzato e distribuito  circolarmente, così che il kratos, posizionato al centro dell’agorà sia visibile  simbolicamente e fruibile prassicamente in modo eguale da tutti i cittadini, per ciò  stesso isoi e homoioi. Essa risulta quindi perfettamente congruente con l’isonomia e  l’isegoria della polis ateniese che ne accredita il senso legittimando tutti gli individui cittadini a esercitarne l’arte; il suo essere istituzionalizzata, cioè, abilita i cittadini a  mirare alla somma padronanza dell’arte oratoria per poter primeggiare nello spazio di condivisione della città, «il retore [infatti] è in grado di parlare contro tutti su tutto, sì  da persuadere, in breve, la massa su tutto quello che vuole».  

La parola dell’uomo della polis del V sec. è una parola mercenaria,  opportunista nel suo essere ambiziosa, osservata con la lente platonica inconsistente,  vacua, quindi di per sé fallace. Il discorso possibile deve diventare necessario, il  suono opinabile volgersi in “voce significante”, lo statuto fondativo della città deve  essere sovvertito.  

Può avere rigore un’arte politica in cui “giustizia e pudore” siano dispensati a  tutti in ugual misura? «Le città non potrebbero esistere se solo pochi possedessero  pudore e giustizia, come avviene per le altre arti. E così, [dice Protagora a Socrate]  gli ateniesi e tutti gli altri, qualora si debba discutere della capacità architettonica o di  qualche altra attività artigianale, ritengono che solo pochi abbiano il diritto di dare  consigli, e se qualcuno che non appartenga a quei pochi pretenda di dare il proprio  parere non lo sopportano, e non a torto, qualora invece si accingano a deliberare su  questioni relative alla capacità politica che si impernia tutta sulla giustizia e sulla  saggezza, è ragionevole che tutti vengano ammessi, poiché si ritiene necessario che  ognuno sia partecipe di questa dote, o non esistono città». Soltanto all’interno di uno  scenario di verosimiglianza può essere situata un’azione siffatta; la verità rimane  fuori scena, qualora ricadesse dentro sarebbe “follia”, «quanto alla giustizia, e agli  altri aspetti della virtù politica, sia pur sapendo che qualcuno è ingiusto, se costui  spontaneamente, a suo danno, confessi la verità di fronte a molti, quel che nell’altro  caso [delle altre virtù] si intendeva saggezza, dire cioè la verità, in questo è ritenuto  pazzia, e se si sostiene che tutti debbono sembrare di essere giusti, lo siano o no, e si  dice matto davvero chi non si atteggia a giusto, quasi fosse necessario che ognuno, in  una qualche maniera partecipi della giustizia, oppure sia fuori dall’umanità».  

2 – Logos e politica 

Dire la verità è un rischio, è la responsabilità che l’individuo assume su di sé  all’interno dell’agorà, è il cittadino solo di fronte all’assemblea, insinua nella polis il  germe del disfacimento, fa scivolare la contingenza nella necessità, al suo cospetto  anche la potenza della tirannide si gonfia di una parvenza illusoria. «Retore e tiranni  hanno un piccolissimo potere nelle città: nulla, se così possiamo dire essi fanno di ciò  che vogliono, ma solo ciò che a loro sembra. […] E tu pensi sia un bene per un uomo  fare ciò che meglio gli sembra, se non ha intelletto? Questo tu chiami gran potere?;  il retore adulatore e il tiranno arrogante entrambi sovrani del regno delle ombre.  

In quale spazio di azione, allora, situare il vero? Attraverso quali modalità  insinuare la sua legittimità?  La negazione dell’insegnabilità della virtù, e della conseguente possibilità di  acquisire maggiore credito tra i propri pari, mostra nel Socrate platonico la  figurazione più conforme del parresiastes, l’asserzione e la pratica dell’intellettualismo etico, nell’uniformare la condotta virtuosa al rigore logico,  prospettano nell’idea di Bene la somma aretè politica.  

La tensione verso il Bene fonda un’attività parresiastica che deve, per necessità  armonizzare logos e bios, e nel prefigurare un oltremondano in quiete, espone il  parresiastes alla mobile legge del verosimile, la cui forza apparente rende la sua  debolezza reale; egli è il minore, sa che la sua vera eloquenza lo mantiene cittadino,  ma è altro dall’assemblea, separato da essa dall’ebbrezza della sua libertà di scegliere  il pericolo, per questo è il più grande, il più forte. 

«Credo di aver posto la mano sulla vera arte politica, e di essere il solo oggi a  metterla in pratica». La pratica dell’arte politica, così come la intende Socrate,  tuttavia non lo immunizza dal contingente. La sua necessità di asserire il vero  confluisce nella possibilità del rischio della derisione e del discredito, crede di  sfuggirvi e di salvarsi prefigurando una dimensione di compiutezza in cui la giustizia  come somma aretè politica si volge in Bene come massima realizzazione dell’idea di  giustizia, ma il prezzo che paga è la perdita della vita, e con essa del suo status di  cittadino. Incontra la politeia nell’attimo in cui non è più parte di essa, è fuori scena  che vede ciò di cui dentro dice. È preda della contingenza, il possibile ha vinto.  

La figurazione del logos, allora, deve presentarsi così luminosa da non lasciare  alcun cono d’ombra, da annullare ogni possibile sfumatura, converte così la  speculatività del theorein in operatività dell’ethos; il logos striscia all’interno della  politeia prendendo a vivere, assumendo il respiro di nomos. Platone disegna la  Repubblica come «la comunità in cui la legge – il nomos – esiste come logos vivente:  come ethos – costumi, modi di essere, carattere – della comunità di ciascuno dei suoi  membri; come occupazioni dei lavoratori; come atmosfera mentale e movimento  spontaneo dei corpi, come nutrimento spirituale (trophè) che volge naturalmente gli  spiriti verso un determinato spazio (tropos) di comportamento e di pensiero».  

Quanto è potente il logos! Potente e astuto, impersona la legge senza indossare  l’abito del legislatore, diffonde autorità spacciandola per rettitudine, permea  l’atmosfera talmente in profondità da evaporarne la superficie, organizza uno spazio  in cui «il cittadino viene pervaso da un racconto piuttosto che trattenuto da una  legge». Il racconto suadente, però, non può essere affidato alla chiacchiera del  momento, deve inebriare, fino a stordire, la politeia; per questo si rimette a una  parola vera e giusta, pertanto virtuosa, consegnata a un educatore che libera dalle  ombre per condannare alla luce, che «trasforma incessantemente la legge nel suo  esprit». «Il regime di interiorità della comunità in cui la legge traduce l’armonia  dell’ethos, l’accordo tra il carattere degli individui e i costumi della collettività» è in  atto. 

3 – Parola e rappresentazione 

La diacronicità storica non può che alterare la modalità di dispiegamento di  tale senso, ne intacca la sua irraggiungibilità meta-fisica, lo avvicina al reale,  incarnandolo in un soggetto senza carne, che dice senza parlare, che mette in scena  senza corpo. Affidando al pensiero la certezza dell’incertezza dei corpi rinuncia così  all’oggetto assoggettandolo, lo chiama a sé raffigurandone l’inferiorità dentro la  rappresentazione; la statuizione dell’«unità immediata di essere e pensiero, non solo  emancipa il cogito dalle condizioni del corpo, ma ne realizza un’emancipazione  complessiva: lo emancipa da ogni condizione “altra” che non sia posta dallo stesso  pensiero» . Purificatosi dall’altro può così glorificare la propria semplicità,  assolutamente vera, e proiettarne i riflessi dentro il campo dell’esperienza, l’unica  esperienza necessariamente sensata, dal momento che lavora un’apparenza che non  appare nella propria immediatezza, «il più ‘immediato’ molteplice dell’apparenza  [infatti] sarà sempre, proprio in quanto molteplice, formato, e cioè ordinato, secondo  la forma del molteplice». 

Perché anelare alla trascendenza, alla ricerca del principio di verità, quando sul  piano dell’immanenza sussistono condizioni che consentono l’istituzione di un  soggetto normativo, che indubitabilmente garantisce la verità del senso degli enti? 

Il destino dell’alterità, già tragicamente compromesso, viene ulteriormente  inabissato per riaffiorare soltanto come figura della rappresentazione, al cui interno  va in scena la relazione soggetto-oggetto come unica possibile. «Ne segue che non è  più concepibile una diversità di soggetti tutti ugualmente dati perché manifesti; al  contrario esiste un solo soggetto (l’io) cui l’altro da sé può apparire nella forma di  oggetto»; l’inconsistenza dell’altro si volge in esistenza solo come altro da sé.  

Perché l’altro da sé possa avere un senso non solo coerente ma vero, è  necessario che sia logicamente ordinato, non può perciò che esprimersi nel detto, «il  pensiero fonda perché ordina e ordina perché dice». All’assertorietà del linguaggio  è affidata la figurazione della realtà, una figurazione senza crepe, liscia, che rende  trasparente l’unico significato possibile, e che, al contempo, decreta l’ecatombe dei  singoli soggetti che parlano. Colui che ha diritto di parola è il soggetto-logos-nomos,  che, nel momento in cui imprigiona il mondo dentro la rappresentazione, ne scioglie  inesorabilmente la policromia, organizzando una «rappresentazione sempre  perpendicolare a se stessa: a un tempo indicazione e apparizione; rapporto con un  oggetto e manifestazione di sé».  

L’istanza cartesiana riconosce nella necessità gnoseologica della cosa la  possibilità di determinarne il suo essere e il suo senso, disloca pertanto il principio  ordinatore presente nella filosofia classica, in particolare aristotelica, e lo assesta  all’interno della rappresentazione, della quale si autoincorona sovrano. «La filosofia della rappresentazione […] si determina a partire dalla disgiunzione essere-pensiero.  I momenti distinti restano comunque e sempre sotto l’ipoteca dell’unità, della  ricomposizione e della sintesi. […] Il soggetto è nomos: la rappresentazione è  soggetto perché è legge. L’intelletto domina e governa; il logos è legislatore assoluto  degli enti che vengono alla presenza».  

È la rappresentazione adesso che deve mostrare il vero, deve tradurre l’epifania  del principio trascendente in visione unitaria del reale, saldare la frattura tra soggetto  e natura all’interno di un quadro vero.  

A che cosa ricorrere per garantire indubitabile trasparenza alla  rappresentazione, e quindi assicurare la certezza conoscitiva? «L’articolazione del  linguaggio è l’analisi visibile della rappresentazione», replica la cogenza della phonè  semantikè greca «[definendo] le parole e [individuandole] le une di fronte alle altre  mettendole in rapporto col contenuto che possono significare», nel linguaggio,  dunque, l’epifania della natura; la storia ha mutato le pedine muovendole sulla  medesima scacchiera, organizzando un’illusione più ambiziosa, in cui il soggetto  ordina le parole per sapere cosa dice, che «fa entrare il mondo nella sovranità di un  discorso che ha il potere di rappresentare la sua rappresentazione». 

La triade essere-pensiero-linguaggio continua a perpetuare la propria sovranità,  ma non beneficiando più di una garanzia esterna, piega ulteriormente nel linguaggio  la possibilità del discorso.  

4 – Politica e gioco linguistico 

«È chiaro che “A crede che P”, “A pensa P”, “A dice P”, sono della forma “‹p› dice p”»; uno dei fendenti sferrati al quadro triangolare della rappresentazione: il  sommo sapere del soggetto volto in credenza linguistica.  

Già a partire dal Tractatus albeggia la curvatura con cui Wittgenstein segna il  deragliamento dell’idea di un soggetto che conosce il reale e che, asserendone la  verità, ne controlla il senso, gestendo una logica di inclusione/esclusione che decreta  al contempo legittimità di esistenza. Il theorein, la visione del vero, che il moderno  aveva tradotto nel quadro rappresentativo, specchio senza dubbio autentico, si  appanna definitivamente, rimanda ora immagini fuori fuoco e fuori campo, tratti  sfumati, nessun appiglio certo; il linguaggio non è più in grado di sopportare il peso  del concetto e, disfattosi del pesante fardello, adesso può muovere le parole per  comporle e ricomporle in espressioni; «che cosa fa della mia rappresentazione di lui  una rappresentazione di lui? Non la somiglianza dell’immagine». Il Soggetto non  vede, i soggetti vedono come. Costretti a lungo alla cecità dalla necessità di vedere e  com-prendere speculativamente il vero per affermarne, così da istituirne, la potenza, i  soggetti ora aprono gli occhi su un reale di cui sono parte e che si muove insieme a  loro; cominciano a “giocare” con il linguaggio.  

«Il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Non è fondato  non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come la nostra vita». Nel momento in  cui si strappano le bende dagli occhi del soggetto, si scioglie anche il bavaglio che lo  rendeva afono, condannato a echeggiare un’unica voce e a svolgere un unico  discorso; adesso «vedo che la parola è azzeccata ancor prima di sapere, e anche se  non saprò mai, perché lo è». Sguardo e parola sono così dis-incagliati, rapiti  dall’illusione dell’assolutezza gnoseologica e incarnati in corpi di individui che  vivono, che respirano un’atmosfera; finalmente irretiti in un tempo e in uno spazio  che non hanno scelto, ma che ne definisce il loro essere particolare, di esistenti in  divenire.  

La luminosità accecante del significato declina fino a scolorare dentro una  parola non più traghettatrice del senso della cosa, ma tassello deformabile di  un’espressione linguistica; una nebulosa dunque avvolge il significato offuscando la  trasparenza di quella parola che ne evidenziava la sua trascendenza, d’ora in poi  dissiparla sarebbe insensato, l’extra-ordinario è ormai perduto. La parola si opacizza,  finalmente immune dal rischio della assertorietà del concetto, addensa così il proprio  significato nell’ordinarietà delle pratiche quotidiane. Il linguaggio adesso è  attraversato e modellato da mille pieghe che ne curvano il senso, intrecciandolo in  una pluralità di trame che esso stesso contribuisce a tessere e a sciogliere: si lascia  contaminare e contamina la vita. 

«È essenziale vedere che, quando udiamo una parola, alla nostra mente può  presentarsi la stessa cosa, e tuttavia la sua applicazione può essere diversa. Allora si  ha lo stesso significato entrambe le volte? Credo che diremo di no». È l’atmosfera  che circonda la parola a definirne il significato, «[sottraendo così] il vedere al campo  visivo-oculare della visione come sensazione e [presentandolo] come un’attività  percettiva di carattere sinestetico che concerne direttamente il modo di comparire  della forma», configurandone in tal modo l’aspetto, il come del vedere. 

Il movimento sovversivo che travolge il processo gnoseologico, pilotandolo dal  vedere al vedere come, consegna alla proposizione un “espressivismo” linguistico a  lungo negato, per cui essa cessa di oltrepassare se stessa alla ricerca del posto giusto  all’interno di uno schema, non «cade in uno stampo della nostra mente già da tempo preparato per essa», che consenta alla «forma vuota» e alla «forma piena» di  combaciare, bensì, tornata in sé, si scopre parte di un’azione umana e sociale. È il tramonto della sussunzione di kantiana memoria, in cui il “dato” era già  dato alle forme pure a priori dell’esperienza sensibile, già incasellato prima di essere  giudicato; spazio e tempo adesso sono nell’espressione linguistica così come  l’espressione linguistica è nello spazio e nel tempo.  

Quest’ultima indossa un “aspetto” che la colora di senso, un senso datato,  contestuale, in una parola esperito, l’espressione verbale del “vedere” diventa così  «una caratteristica manifestazione del vissuto» , un’incessante apertura dello  sguardo sul mondo, per catturare analogie, affinità, respiro comune.  

La staticità del senso contemplata come in un’ipostasi vacilla fino a disfarsi  dentro il divenire dell’ “esperienza vissuta del significato”, per cui «chi dice “quando  ho sentito quella parola per me significava…” si riferisce con ciò a un istante di  tempo e a un impiego della parola»33, proprio perché «soltanto nel fluire del pensiero  e della vita le parole hanno significato».  

5 – Parola e forma di vita 

La commistione del linguaggio con la vita schiude ai soggetti la possibilità  dell’interpretazione, li rende atti a rappresentarsi perspicuamente il reale, a  riconoscere «aspetti alternativi delle cose nei termini di relazioni interne che  collegano le cose e gli eventi gli uni agli altri», «il concetto di rappresentazione  perspicua [assume pertanto] un significato fondamentale. Designa la nostra forma  rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose».  

La figurazione che emerge ha smontato definitivamente il modello platonico  secondo cui «nulla può essere spiegazione di una parola se non è definizione del suo  significato e nulla può essere, letteralmente, definizione del significato se il  significato non si presta ad essere visto come una cosa perfettamente chiusa nei suoi  confini, come una cosa, cioè che “in nessun punto” o in nessun senso sfugge al nome  che porta»; essa rinvia così simultaneamente il linguaggio dentro le pratiche  quotidiane consegnando ad quest’ultimo la possibilità della modulazione del senso. 

Il nuovo assetto è talmente destrutturante da autorizzare un radicale  ripensamento del concetto di sapere. Il pensiero tradizionale aveva storicamente ripulito il sapere dalla polvere del dubbio che rischiava di opacizzarne il chiarore,  esso era perenne e universale proprio in quanto indubitabile; adesso che si trova  preda della mutevolezza del sensibile che aveva tanto aborrito deve, per poter definirsi tale, introiettare la possibilità del dubbio; è la sua contingenza che lo esige,  la necessità di verità del sapere è volta in possibilità di negazione, pena il non sapere. 

«Io so in che modo ci si sincera di avere due monete in tasca. Ma non posso  sincerarmi di avere due mani, perché non posso dubitarne»; «si dice “io so…”  laddove si può dubitare, mentre i filosofi dicono che si sa qualcosa proprio là dove  non ci sono dubbi e dove dunque le parole “io so” impiegate come introduzione  dell’enunciato sono superflue», il sapere atterra finalmente tra noi, contaminato,  perché prodotto dalla struttura che lo afferma impuro e situato. Sporcare il sapere con  il pulviscolo del mondano significa umanizzarne la sua connotazione e delimitarne  sensibilmente il suo campo d’azione, per cui «se io, senza che ci sia un’occasione  particolare, dico “io so” – per esempio “io so che in questo momento sto seduto su  una sedia” – l’enunciato mi appare ingiustificato e pieno di pretese. Ma se dico il  medesimo enunciato là dove ce n’è bisogno, allora esso mi appare completamente  giustificato e ordinario, anche se non sono per nulla sicuro della sua verità»; la  verità di un enunciato, il suo senso assume esistenza nell’ordinarietà delle pratiche  dei parlanti, si trova quindi, dimessa e rassegnata, ad avere vita dentro  l’interpretazione. 

Il significato (pertanto) non può essere più esaurito dalla mera conoscenza del  segno, risulta inesorabilmente contaminato, perché coinvolto nell’espressione di un  volto, in un gesto, in un’azione umana. È l’ “atmosfera” che la avvolge a dare voce  significante alla parola, è proprio dentro tale atmosfera che il linguaggio verbale si  scopre affine ad altre forme espressive, quali quella pittorica e musicale, poiché,  come queste ultime, ha acquisito la capacità di “raccontare una storia”; «nel  linguaggio delle parole è presente un forte elemento musicale. Un sospiro, il tono  della domanda, dell’annuncio del desiderio, e tutti gli innumerevoli gesti del tono  della voce», dunque «il tema non indica qualcosa al di là di se stesso? Oh sì! Ma  questo vuol dire:- l’impressione che mi fa dipende da certe cose nel suo ambiente». Soltanto la figurazione di una storia dà accesso immediato alla comprensione,  ne amplia il suo spettro semantico condizionandolo per “necessità” alla dimensione  relazionale, legandone la possibilità di giustificazione alla forma di vita; «la  comprensione implica una reazione diretta al gesto stesso: proprio perché tale  reazione è diretta la comunicazione risulta possibile […]. Quel che conta è la nostra  capacità di rispondere all’altra persona, di avere un’intesa con essa. L’altra persona  sorride o dice qualcosa, noi sappiamo quello che vuol dire: il suo gesto ha un senso  per noi, ed essa stessa può confermare il fatto che l’abbiamo capita». 

Il linguaggio verbale, abbandonando la posizione di isolamento che ne  restringeva l’espressività, si scopre affine ad altre forme comunicative, imparentato  con esse perché non già pre-figurato, ma, al pari di esse con-figurato nella e dalla  relazione tra i soggetti che lo abitano, «la scelta di una parola o locuzione piuttosto  che un’altra determina il gesto che andiamo a compiere, la posizione che assumiamo  nei confronti dell’altra persona […]; proprio come un tema musicale, una locuzione  può contenere tutto un mondo di significato: può riunire e riassumere una complessa  rete di pensieri e sentimenti», tutte le volte che parliamo incrociamo «una gran  quantità di sentieri a noi familiari [che] si dipartono dalla parola e conducono in tutte  le direzioni». 

6 – Per una grammatica del comune 

L’affinità espressiva con il gesto svincola il linguaggio dal duplicato di se  stesso decostruendo quell’approccio che forzava l’enunciato a «[confrontarsi] con se  stesso, una volta come sequenza di parole e un’altra volta come fatto trascendente il  linguaggio».  

Il linguaggio, al pari del gesto, dice in sé e con sé, senza rinvii. Tale assenza di  un differimento del senso della proposizione, nel respingere ogni rimando altrove,  apre sul linguaggio uno sguardo esclusivamente esternalistico, e al contempo  preclude la possibilità di un’espressione verbale privata, negandole esistenza non solo  sul piano contenutistico, ma anche della modalità attraverso cui essa reclama tale  esistenza.  

«Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla  può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non  potrebbe comprendere questo linguaggio»: patire una sensazione in privato è  possibile, pensare di connotarla, e quindi definirla, articolando fonemi, suoni o gesti è  illusorio. «Quando si dice “ha dato un nome a una sensazione”, si dimentica che  molte cose devono già essere pronte nel linguaggio perché il puro denominare abbia  un senso. E quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore, la grammatica  della parola dolore è già precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova  parola».  È l’altro a essere la condizione necessaria perché io possa essere sicuro di  provare una sensazione, la cui espressione è simultanea alla sua affezione, per cui  «“ho dolore” non si riferisce a un comportamento di dolore, ma è un comportamento  di dolore» , non è la traduzione verbale di un accadimento interiore, che  duplicherebbe la sensazione in immagine mentale e rappresentazione della stessa, «la rappresentazione non è immagine. Quale oggetto mi stia rappresentando non riesco a  vederlo dalla somiglianza che le immagini mentali hanno con esso».  

7 – Linguaggio politico 

Il turning point è epocale, costruisce la possibilità del mondo interno sulla  modalità d’uso codificata nel mondo esterno, rivoltando in senso grammaticale assunti sia psicologici che ontologici, non esclude tuttavia con ciò la possibilità di  esprimere una sensazione in privato, ma la condiziona di necessità alla pratica del  senso che di essa si ha in pubblico.  

Anche il sapere si declina all’interno della grammatica del verbo sapere; «chi  prova dolore non può dire “ho dolore e non lo so” e quindi non può dire “ho dolore e  lo so”», ogni formulazione di pensiero ha avvio con il linguaggio, «non serve a  nulla dire che abbiamo in mente un oggetto privato e gli diamo un nome. Vi è un  nome solo dove vi è una tecnica per usarlo».  

L’espulsione dal linguaggio di una struttura profonda che ne sostenga  l’autenticità del senso non rende “superficiale” il linguaggio, invece lo esternalizza  espandendone le prospettive di significazione, dal momento che iscrive queste ultime  sul piano della interrelazione tra individui; allora «il comportamento primitivo del  dolore è un comportamento connesso alla sensazione; comportamento che viene  sostituito da una espressione linguistica. “La parola ‘dolore’ designa una sensazione”  significa né più né meno che: “provo dolore è un modo di manifestare sensazioni”». 

La svolta linguistica pone la dimensione pubblica quale spazio di formazione  della parola che diviene sociale per definizione; la apre ai giochi discorsivi che  Foucault intreccerà nelle strategie di veridizione, alle quali non sono estranee le  relazioni di potere e gli apparati di sapere.  

L’impossibilità di un linguaggio privato ripoliticizza ciò che il taglio  metafisico del pensiero occidentale, ostile allo scandalo della democrazia, ha cercato  di confinare in una sfera intangibile socialmente e collettivamente, perché affidata  alla cura dei pochi che sanno e accedono alla verità o alla profondità imperscrutabile  dell’interiorità (da Agostino a Freud).  La dimensione pubblica della parola sottende una grammatica plurale la cui  formazione e il cui funzionamento vanno rintracciati nelle trame contestuali  dell’agire sociale in un campo di forze alla ricerca di un predominio anche  linguistico. La sistematicità di una grammatica non si radica così in un fondo  ontologico, né si irradia muovendo da un lucore originario, bensì si tesse collettivamente secondo un gioco conflittuale le cui pedine si denominano espressioni,  modi sintattici, locuzioni enunciative, piuttosto che classi, soggetti storici, o dinastie  regali. 

06/09/2015
Data

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