La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio

A. Ferrara (Feltrinelli, Milano, 2008)

Con questo testo Alessandro Ferrara aggiunge un ulteriore tassello alla sua ricerca intorno agli  elementi distintivi di un «approccio giudizialista» all’etica e alla filosofia politica. La forza  dell’esempio si riallaccia da una parte alla riflessione teoretica presente in Autenticità  riflessiva[i], libro nel quale l’Autore delineava in maniera più approfondita il modello di  giustificazione delle scelte e delle pratiche di vita che si rifà al «giudizio riflettente» kantiano;  dall’altra, si connette a Giustizia e giudizio[ii], nel quale si conduceva una ricognizione intorno  al mutamento in atto all’interno del panorama della filosofia politica contemporanea. In base a  questa ricostruzione, le questioni di giustizia vengono sempre più articolate secondo un  linguaggio nuovo, che si propone di superare le difficoltà e le inadeguatezze emerse all’interno  del paradigma moderno del liberalismo universalista (del quale il primo Rawls è forse il più  importante sostenitore nella seconda parte del Novecento).  

Come in passato, il punto di partenza del testo è l’inevitabile constatazione del «fatto del  pluralismo», sul quale la riflessione filosofica ha fatto luce grazie a quel mutamento  dell’approccio alle questioni teoriche che viene generalmente denominato “svolta linguistica”.  La filosofia del Novecento acquisisce la consapevolezza dell’irriducibile natura contestuale, e  quindi legata necessariamente alla molteplicità dei contesti e punti di vista sviluppati dagli  esseri umani, della conoscenza. Citando la proposizione 5.6.2 del Tractatus Logico Philosophicus di Wittgenstein[iii], Ferrara ribadisce l’impossibilità di «pensare il mondo  indipendentemente dalla mediazione di un linguaggio. E poiché la pluralità dei linguaggi esiste  dal tempo di Babele, non vi è modo di sfuggire alla conseguenza che i diversi limiti dei mondi  pensabili da voi e me hanno a che fare con la diversità dei linguaggi in cui e mediante cui li  pensiamo»[iv]. Questa idea riduce in maniera considerevole l’efficacia di quel genere di  ragionamento, fatto proprio da gran parte della filosofia dell’età moderna, in base al quale  sarebbe possibile risolvere le questioni normative controverse attraverso l’adozione di principi  che si collochino al di sopra e al di là delle singole posizioni in conflitto. Allo stesso tempo,  tuttavia, è necessario andare oltre le letture relativistiche che sono consuetamente offerte a  proposito dei risultati della svolta linguistica. L’obiettivo della ricerca di Ferrara è quindi quello  di ricostruire un punto di vista sulle questioni normative che proponga una concreta alternativa  alla semplice constatazione della fine dell’epoca del fondazionalismo, spesso esposta alla resa  nei confronti di una presunta incomunicabilità e impossibilità di accordo tra visioni differenti del  mondo.  

Nei primi due capitoli, La forza dell’esempio riprende la riflessione sulle caratteristiche del  paradigma giudizialista. Quest’ultimo trae la propria denominazione dalla nozione di «giudizio  riflettente», che Ferrara analizza attraverso la riflessione di Kant, primo fondamentale teorico  della nozione stessa – che tuttavia egli relegava nell’ambito dell’estetica o in un ruolo di  orientamento nei confronti delle scienze della vita – , e di Hannah Arendt, a sua volta originale  interprete, a questo proposito, del pensiero kantiano. Nella Critica del Giudizio del filosofo di  Königsberg, il giudizio riflettente è presentato come la forma di giudizio che, se, come ogni  altra, funziona riconducendo circostanze particolari a principi universali, ha come peculiarità  quella di rintracciare l’universale non prima e, per così dire, a prescindere dal particolare, ma a  partire dal particolare stesso. Nel caso del giudizio «determinante», infatti, il principio che dà  ordine all’esperienza è già disponibile antecedentemente ad essa: quest’ultima deve  semplicemente essere sussunta sotto di esso secondo criteri prestabiliti; nel caso del giudizio  «riflettente», invece, il principio deve essere rintracciato considerando le caratteristiche del  particolare concreto[v]. Questo diverso modo di procedere può essere posto, secondo Ferrara,  alla base di una nuova versione dell’universalismo. La validità di una determinata azione,  pratica culturale o istituzione al di là delle circostanze in cui si è originata – validità alla quale una posizione filosofica non relativistica non può comunque rinunciare – può ora essere  interpretata come la capacità di mostrare una peculiare congruenza con la propria identità o il  proprio contesto di partenza, anche a chi non si riconosca direttamente in esso. La forza che  scaturisce da scelte e circostanze di questo genere è per l’appunto quella dell’esempio, e la  rilevanza di quest’ultimo è commisurata al grado in cui il soggetto o il gruppo sociale  interessati sono riusciti a realizzare al meglio quello che sono a partire dalle caratteristiche che  determinano da sempre la loro identità. In sostanza, la validità dell’esempio è commisurata  all’autenticità della forma di vita in cui esso si concretizza. 

Alla base della capacità, propria di tutti gli esseri umani, di riconoscere la validità del giudizio  riflettente, Kant introduce la nozione di «sensus communis», che Ferrara cerca di interpretare  in maniera coerente con il suo progetto e allo stesso tempo «compatibile con lo spirito  dell’approccio kantiano»[vi] – anche se non con la teoria contenuta nella terza Critica in quanto  tale. La strategia di Ferrara consiste nell’evitare da una parte una interpretazione in chiave  ontologica del «sensus communis», direzione nella quale si dirigono le varie teorie  ermeneutiche, dall’altra una sua rivisitazione in chiave naturalistica o trascendentale, che è poi  la strada più coerente con la posizione di Kant. Piuttosto, il modo migliore di intendere il  «sensus communis» è, rifacendosi al paragrafo 23 della Critica del Giudizio[vii], come una  sensibilità, comune a tutti gli esseri umani, nei confronti del piacere legato a «un senso di  “agevolazione”, promozione, esaltazione, ovvero, come potremmo più liberamente tradurre, di  “affermazione” della vita (Beförderung des Lebens)»[viii]. Ferrara reinterpreta questa idea  attraverso il concetto di realizzazione e di autenticità di una vita umana, le cui dimensioni sono  comunque soltanto accennate in La forza dell’esempio[ix]. 

Il secondo capitolo del libro ripercorre poi i punti salienti dell’interpretazione – rimasta per  altro incompleta a causa della morte della filosofa tedesca – della «validità esemplare» fornita  da Hannah Arendt. Ferrara ritiene agevolmente superabili le difficoltà generalmente sollevate  dagli interpreti della Arendt a proposito della sua teoria del giudizio politico. Egli evidenzia  come fondamentali le due condizioni della validità del giudizio illustrate in Teoria del giudizio  politico[x]: l’«apertura mentale», ovvero la capacità di fare riferimento a un punto di vista che  racchiuda la prospettiva del maggior numero di persone interessate alla circostanza presa in  considerazione, e l’«immaginazione», ovvero la capacità di portare all’attenzione della mente  gli esempi attraverso i quali giungiamo alla conoscenza e alla classificazione degli oggetti e  degli eventi della realtà. Ciò che tuttavia Ferrara ritiene problematico è la riduzione, da parte  della Arendt, del funzionamento dell’esempio a quello di ciò che, usando una terminologia  kantiana, possiamo chiamare «schema». Lo schema è un modello mentale in grado di  sussumere sotto di sé vari oggetti differenti che tuttavia costituiscono un medesimo insieme, in  quanto ci permette di accantonare le caratteristiche che differenziano quegli oggetti gli uni  dagli altri – come, per dire, lo schema “sedia” ci permette di riconoscere come tali tutte le  sedie con le quali abbiamo a che fare. L’esempio, nonostante abbia in comune con lo schema il  suo presentarsi come un’immagine semplificata delle cose della realtà, si differenzia da esso  per la natura flessibile e non automatica del suo utilizzo. In questa natura si riflette la  particolarità dell’esempio: il suo uso richiede l’esercizio autonomo della riflessione[xi]. Inoltre  l’esempio è strutturato in maniera «olistica»: «la nostra capacità di giudicare non può dunque  essere equiparata alla capacità di redigere liste di tratti isolati e discreti, bensì va intesa come  l’abilità di identificare una certa unità di intento, un certo “punto” sotteso a una sequenza  temporalmente estesa di comportamenti, come pure di cogliere quante più somiglianze è  possibile fra i due contesti all’interno dei quali rispettivamente l’azione esemplare e l’azione da  giudicare hanno luogo»[xii]. La posizione abbracciata da Ferrara – che anche in questo caso  ritiene di conservare almeno l’intento generale, se non la lettera, del pensiero della Arendt – consiste nel concepire il giudizio sulla validità di un esempio paradigmatico o di una azione  particolare in maniera analoga all’interpretazione di un testo. Quest’ultimo, in base a un punto  di vista già elaborato da autori come Gadamer e Dworkin, può essere visto a sua volta come  un giudizio sulla natura più o meno riuscita del testo preso in considerazione. Di nuovo assume un ruolo di primo piano l’ideale dell’autenticità, caratterizzato attraverso le dimensioni che  Ferrara ha esposto brevemente in precedenza. 

Con il terzo capitolo il libro comincia a mostrare, attraverso una sorta di realizzazione concreta  del procedimento tipico del modello giudizialista, gli esempi di utilizzo del giudizio stesso nei  quali si riflette la validità del paradigma teorico. In primo luogo il modello giudizialista è  applicabile alle questioni politiche relative alla giustizia. Ferrara si concentra qui sulla posizione  che John Rawls è andato sviluppando a partire dalla fine degli anni Settanta, dopo la  pubblicazione di Una teoria della giustizia[xiii]. L’obiettivo di Ferrara è mostrare innanzitutto  come – contro la critica presentata da Habermas a questa posizione[xiv] – essa sia, rispetto  alle teorie rivali, più coerente con il riconoscimento del «fatto del pluralismo», e di  conseguenza maggiormente in grado di offrire la base per una critica delle democrazie attuali.  In secondo luogo, questo capitolo intende portare alla luce il senso più profondo delle intuizioni  rawlsiane, al fine di rintracciare in esso il nucleo di una nozione autenticamente giudizialista  della giustizia. Ferrara ripercorre perciò le caratteristiche principali della nozione centrale di  «ragione pubblica», il cui requisito fondamentale – per quanto non unico – consiste nel  procedere alla soluzione di contrasti e alla determinazione di scelte politiche in base a un  nucleo condiviso di valori, che ciascun cittadino può accettare in base alla propria visione del  bene. L’analisi si estende quindi da una parte alla natura della condivisione delle premesse  dell’argomentazione pubblica, dall’altra alla relazione che tali premesse intrattengono con le  conclusioni egualmente approvate da parte di tutti gli interessati. Secondo Ferrara, entrambi i  momenti centrali per la teoria di Rawls, se correttamente intesi, incarnano il genere di  ragionamento che è stato in precedenza identificato come «giudizio riflettente».  

Nel quarto capitolo Ferrara si interroga su uno dei temi più complessi della riflessione politica  contemporanea: quello del male radicale. La trattazione degli episodi più orribili della storia (la  Shoah, i crimini del regime sovietico, la pulizia etnica in Bosnia e molti altri ancora) presenta  difficoltà apparentemente schiaccianti per un modello che vorrebbe superare le filosofie  fondazionaliste e le concezioni metafisiche della tradizione, in linea con la svolta linguistica.  Ferrara si trova di fronte a due esigenze: conciliare il «fatto del pluralismo», cioè il nostro  disaccordo pressoché totale sul bene, con il senso di condanna irrevocabile e universale incastonato nella nostra percezione del male radicale; accordare la natura sempre  linguisticamente pre-interpretata della conoscenza della realtà con lo status smisurato e  indicibile dei crimini radicalmente malvagi. Ferrara sceglie di analizzare come caso  paradigmatico del male radicale la Shoah e, partendo dalla ricostruzione della visione del  mondo dei nazisti elaborata da James Bernauer[xv], cerca di illuminare la perversione del  punto di vista morale operata dai seguaci di Hitler attraverso un approccio giudizialista. La  radicalità della Shoah viene poi interpretata attraverso una rielaborazione del concetto di  «sacro» in Durkheim: se i simboli sacri incarnano l’identità più propria di una società, l’ideale  realizzazione dei potenziali migliori di un contesto sociale concreto, il male radicale costituisce  un loro rovesciamento. Gli eventi storici che vorremmo non fossero mai accaduti  rappresentano ai nostri occhi il peggio che le nostre società possono produrre in relazione alle  concrete determinazioni della loro identità. 

Il quinto capitolo del testo mette a confronto il modello giudizialista con quella famiglia di  teorie che ha dato maggiore risalto alla «forza dell’esempio» così come intesa da Ferrara: il  repubblicanesimo. Questa corrente viene inizialmente analizzata con una particolare cura per  la distinzione tra le due versioni nelle quali, secondo l’Autore, si presenta generalmente. La  prima, che risale alle ricostruzioni e interpretazioni della filosofia di Aristotele e di Machiavelli,  passando per il pensiero di Hannah Arendt, viene considerata poco rilevante nell’ambito del  dibattito politico contemporaneo. La seconda è invece rappresentata da teorie – quelle, in  particolare, di Philip Pettit, Cass Sunstein, Frank Michelman e Bruce Ackerman – che Ferrara  ritiene particolarmente vicine al proprio paradigma di riferimento. L’intento della sua  argomentazione è dimostrare come in realtà, contrariamente a quanto spesso viene affermato  dagli stessi interessati, il secondo genere di repubblicanesimo non si contrapponga in maniera  radicale alla corrente, interna al liberalismo, dei cosiddetti «liberal» (tra cui Rawls e Dworkin),  contrapposti da Ferrara ai «liberali libertari» (come Nozick o Hayek). Il punto è che la  differenza fondamentale tra il liberalismo liberal e il «repubblicanesimo politico» non consiste  tanto, come affermato da Philip Pettit[xvi], nella distinzione tra un modello di libertà come  «libertà dall’interferenza» (delle leggi nei confronti delle scelte del singolo) e un modello di  libertà come «libertà dal dominio». Piuttosto essa si identifica con la maggiore vicinanza di un certo repubblicanesimo al modello giudizialista, in virtù dell’importanza da esso conferita a un  modello esemplare di validità. E’ per questa ragione, secondo Ferrara, che nella proposta  repubblicana è racchiuso ancora oggi un potenziale di grande interesse per la riflessione  politica. Per ammissione dello stesso autore di La forza dell’esempio, la concezione post fondazionalista della liberal-democrazia che il testo sostiene, non è ancora in grado di  camminare sulle sue gambe a livello teorico. Se possiamo oggi riconoscere che il modello di  razionalità proposto nella Critica del Giudizio ha un valore che va al di là dell’ambito estetico o  di metodologia delle scienze naturali, rimane il dato di fatto che il modello della validità  esemplare è ancora costretto a prendere a prestito dalla critica d’arte il suo linguaggio.  Sembra che Ferrara riscontri nel repubblicanesimo quella corrente del pensiero occidentale che  più è in grado di contribuire alla chiarificazione del senso specificamente politico e sociale del  giudizialismo. 

I capitoli sesto e settimo sono dedicati alla questione dei diritti umani, in chiave di  giustificazione teorica prima e di strategie di implementazione a livello internazionale poi. Dopo  aver esaminato alcune difficoltà presenti nelle teorie dei diritti umani di Rawls e di Habermas,  Ferrara propone il proprio punto di vista riprendendo la posizione già esposta in Giustizia e  giudizio[xvii]. In questo testo si sosteneva innanzitutto che l’esistenza in quanto tale di un  conflitto tra identità collettive differenti segnala allo stesso tempo la presenza di a un ambito di  intersezione tra i valori e le esigenze che le caratterizzano. Infatti «persone che articolano la  loro interpretazione della materia del contendere a partire da lessici totalmente diversi non  potrebbero, a rigor di logica, avere l’idea di stare fra loro in una qualsiasi relazione»[xviii],  nemmeno in una relazione di contrasto. Se partiamo da questo presupposto, possiamo  individuare la soluzione alla controversia in quell’insieme di scelte in grado di valorizzare al  meglio – in base alla nozione di autenticità sulla quale fa perno tutta la teoria di Ferrara – l’«identità sovraordinata»[xix] che si forma nei punti di intersezione tra quelle in conflitto. La  condivisione di alcuni orientamenti di azione, valori o interpretazioni della realtà può costituire  la base per una identità nuova comune alle parti. In La forza dell’esempio Ferrara ripropone  questa idea e spiega che l’«identità sovraordinata» in questione può svolgere il suo ruolo di  fonte normativa grazie al «sensus communis», la comune sensibilità per le dimensioni della  piena realizzazione della vita umana che tutti condividiamo, così come esposta nel primo  capitolo. A ciò si unisce l’individuazione della forza cogente dell’identità comune alle parti in  conflitto nella natura intersoggettiva delle identità stesse: «se assumiamo una concezione  intersoggettiva dell’identità – quale è presupposta dal paradigma del giudizio – tutte le  identità, individuali e collettive, sono viste come costituite da relazioni di riconoscimento, e in  caso di conflitto queste relazioni continuano a possedere rilevanza per l’identità»[xx]. In  questo senso rientra all’interno dei requisiti per la fioritura di ogni singola identità la  considerazione di ciò che deriva ad essa da un compiuto riconoscimento da parte delle altre. La  novità presente in La forza dell’esempio è l’introduzione di una «idea di umanità»[xxi] come  identità sovraordinata a individui e popoli impegnati in un complesso tentativo di definizione di  una nozione di giustizia a livello internazionale. Ferrara ritiene che il contributo specifico che gli  occidentali possono portare al dibattito su questa identità umana sia l’inclusione, all’interno del  progetto per la sua migliore realizzazione, dei diritti umani. Questi ultimi sono certo parte del  retaggio che una specifica porzione dell’umanità ha ereditato dal proprio passato: ogni  posizione all’interno del dibattito è caratterizzata in questo modo. La scommessa del modello  giudizialista è che una concezione dei diritti umani possa divenire patrimonio di tutti i popoli  umani. 

Quanto alla spinosa questione della tutela concreta di un nucleo minimo dei diritti umani  largamente accettato – almeno sulla carta – dai paesi membri delle Nazioni Unite, Ferrara  sceglie il Report della International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS)  come testo di riferimento della propria riflessione. La Commissione, voluta e sostenuta dal  Governo canadese nel 2000 al fine di offrire supporto alle Nazioni Unite in occasione  dell’Assemblea Generale del Millennio, ha assunto come obiettivo lo studio e la chiarificazione  del controverso rapporto tra la necessità di intervento da parte della comunità internazionale in  circostanze di massiccia violazione dei diritti umani (genocidio, pulizia etnica, deportazioni di  massa) e il principio di sovranità statale che è alla base delle istituzioni politiche moderne. La  chiave di volta della posizione sostenuta dal Report, sulla quale Ferrara concentra la propria attenzione, è la svolta teorica coincidente con il passaggio dall’affermazione del principio del «diritto di intervenire» a quello del «dovere di proteggere»[xxii]. La «rivoluzione  copernicana»[xxiii] alla quale si fa riferimento in La forza dell’esempio è il superamento della  contrapposizione tra prerogative statali e possibilità di ingerenza da parte di autorità esterne in  nome di un unico principio: la responsabilità dell’autorità politica di proteggere almeno le  condizioni minime dell’integrità della vita dei propri cittadini. Se lo Stato-nazione rimane il  primo incaricato per questo compito, nel caso in cui esso non sia in grado o non dimostri la  volontà di assolverlo, il «dovere di proteggere» passa, secondo le conclusioni della ICISS, alla  comunità internazionale.  

Nell’ottavo capitolo Ferrara si concentra sui processi di carattere internazionale che ci  riguardano più da vicino: quelli della costruzione dell’Unione Europea. Lo spunto del capitolo è  una sorta di versione polemica della scelta rawlsiana di dare un taglio soltanto politico alla  propria riflessione sul liberalismo: di contro alle teorie sull’identità europea concentrate sulle  origini culturali, filosofiche, religiose o morali, Ferrara propone una ricostruzione del contesto  politico nel quale opera una sorta di ragione pubblica europea. Il luogo privilegiato di  espressione di tale istanza è, secondo il suo parere, la proposta di Trattato Costituzionale  dell’Unione – il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007. Attraverso una lettura del Trattato  costituzionale vengono ricostruiti innanzitutto gli ideali che costituiscono il programma politico  per il futuro dell’Europa; Ferrara si dedica poi ad evidenziare le peculiarità storiche che fanno  dell’Unione un progetto unico e irripetibile all’interno del contesto globale.  

Infine, il capitolo di chiusura di La forza dell’esempio propone una breve trattazione dell’attuale  dibattito sul rapporto tra religione e politica, particolarmente articolato a livello internazionale  e, per note ragioni storiche, decisamente incandescente in Italia. Ferrara si concentra su tre  temi all’interno della questione; innanzitutto riprende la problematica sollevata recentemente  da Jürgen Habermas a proposito delle difficoltà insite nella completa inclusione politica dei  cittadini credenti e legati a comunità religiose organizzate. Vista l’accettazione, all’interno dei  contesti istituzionali dello Stato neutrale liberal-democratico, delle sole ragioni giustificabili in  base a un punto di vista laico, emerge il problema dello sforzo aggiuntivo di riformulazione  delle proprie posizioni che viene richiesto a coloro che organizzano la propria vita in base a  valori che laici non sono. In secondo luogo Ferrara si interroga sulla possibilità di modificare – per quanto non di mettere da parte – il principio lockiano dell’individuazione dei limiti da  imporre ai comportamenti legati al credo religioso in base alle leggi dello Stato laico. A livello  normativo, la difficoltà consiste ancora nello sforzo di adeguamento richiesto a cittadini legati a  tradizioni che, per la natura stessa dell’ambito del sacro e della religione, si modificano molto  più lentamente rispetto alla legislazione – anche costituzionale – delle democrazie  contemporanee. Il problema diventa ancora più complesso se si considera che  differenti tradizioni religiose dispongono a loro volta ciascuna, per così dire, di una differente  velocità di adattamento ai mutamenti delle istituzioni statali. L’ultima parte del capitolo è  dedicata alla particolare relazione tra Stato e comunità religiose affermatasi nel corso della  storia italiana. Se il principio della laicità dello Stato è accettato all’interno del nostro Paese e  sancito dalla Costituzione repubblicana, è pur vero che il nostro contesto storico-geografico ha  reso perlomeno disagevole la sua completa realizzazione. Anche in questo caso Ferrara  accenna a una soluzione che, memore delle conquiste del liberalismo moderno, rientri  comunque all’interno di una concezione non fondazionalista, e quindi autenticamente liberale e  tollerante, della neutralità statale.

12/10/2008
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