L’ombra della politica. Saggio sulla storia del pensiero antipolitico
M. Truffelli (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008)
Il volume di Matteo Truffelli costituisce il tentativo di far luce su un plesso tematico molto denso, in cui convergono categorie spesso inflazionate, pur se sovente dai confini concettuali poco chiari: il rapporto tra “apolitico”, “impolitico”, “antipolitica”. A questa prima scommessa, che si concentra, nello specifico, sull’ultima di queste tre nozioni, ma finisce inevitabilmente per coinvolgere il senso delle prime due, si aggiunge la chiave interpretativa di una retrodatazione delle origini dell’”antipolitica” stessa, al di là e oltre le manifestazioni contemporanee. Attorno ad un esplicito impianto propriamente storico, in cui si aprono comunque significative parentesi storico-concettuali, l’analisi di Truffelli, particolarmente attuale ed interessante, sviluppa un excursus che va dalle più recenti manifestazioni dei “mal di pancia” nei confronti della politica ad un tentativo di argomentarne le ragioni; dalle espressioni di “malessere politico” sempre più frequenti in questo primo decennio di terzo millennio fino alla ricostruzione di un quadro più ampio e articolato; dal Novecento fino a coinvolgere quella che una certa tradizione storico-concettuale ha guardato come l’”età per eccellenza” della politica, ovvero la modernità. Si tratta in sostanza di un itinerario che non si vuole limitare alla mera crisi di un sistema politico e partitico (osservato con la lente particolare del caso italiano, ma non solo) e intende quindi affrontare l’emersione di una profonda “sensibilità antipolitica” (p. 7) fino a “possibili radici nell’ambito del pensiero politico occidentale” (p. 8).
Il filo rosso che caratterizza la lettura di Truffelli si dipana, da un lato, attraverso l’idea che l’antipolitica costituirebbe una sorta di sindrome fisiologica della politica, la sua ombra ineliminabile e ineludibile, “una componente intrinseca della politica moderna, un rovescio negativo di essa, profondamente connesso con i suoi caratteri di fondo” (p. 9); dall’altro, esplicita la convinzione che la stessa modernità sia già anch’essa età dell’anti-politica, per cui questo fenomeno non si limiterebbe più alla disaffezione e al disorientamento degli ultimi decenni, ma avrebbe fondamenta ben salde “nell’origine stessa della politica moderna” (p. 9). L’antipolitica appare quindi come connotato congenito della politica stessa, a partire dalla sua genesi ed identità moderne, e ciò schiude la riflessione ad una declinazione ulteriore. La tesi di Truffelli va infatti a scardinare due filoni interpretativi tra loro agli antipodi, qui implicati e messi in discussione: la convinzione, già accennata, secondo cui la modernità sarebbe l’età della politica, e la lettura in virtù della quale, al contrario, l’età moderna finirebbe addirittura per costituire l’espressione dell’impolitico.
Illustrando brevemente la ricostruzione storica, si proverà a far emergere anche il confronto con tale ricco orizzonte interpretativo, a cui il volume guarda.
La problematicità odierna della democrazia, che, nella sua massima espansione e realizzazione, deve far fronte ad un rigurgito sempre più ampio di insoddisfazione, è divenuto uno dei sintomi contemporanei della disaffezione politica, che Truffelli illustra, tra gli altri, attraverso le parole del politologo Crick (“diffondersi di una certa insofferenza per la politica”) e dello storico Rosanvallon (“érosion de la confiance des citoyens dans leurs dirigeants et dans les institutions politiques”). Tale inquietudine ha finito per arricchire il vocabolario della critica politica e quindi per “strumentalizzare”, in un certo qual modo, la stessa espressione “antipolitica”, a cui si è fatto ricorso “sia da parte di coloro che si presentano come portatori di istanze antipolitiche – sottolinea Truffelli –, sia da parte di chi, all’opposto attribuisce la qualifica di antipolitici a critici e avversari, per tentare di squalificarne le posizioni” (p. 17).
Si è così inaugurato un processo per il quale l’importanza che tale concetto ha assunto nel tempo (fino a trovare “un terreno particolarmente fertile nell’orizzonte culturale che ha contraddistinto gli ultimi decenni del Novecento e i primi anni del Ventunesimo secolo”, p. 18) è divenuta inversamente proporzionale alla capacità di darne una definizione organica e univoca, in una sorta di indeterminatezza “che non riguarda solo l’uso che ne viene fatto a livello di senso comune o delle retoriche tipiche dei media e degli attori politici, ma che coinvolge anche, e in un certo senso innanzitutto, le scienze sociali” (p. 21). L’unica certezza diviene allora l’orizzonte culturale sul quale si è stagliata tale rapida progressiva affermazione, ovvero “il passaggio dalla modernità alla post modernità” e “il tramonto della dimensione statuale come ambito prioritario delle procedure decisionali, a favore di una governance delocalizzata e in gran parte spoliticizzata” (p. 20).
Ne consegue un duplice esito: innanzitutto la sensazione che l’antipolitica si possa definire solo per derivazione dalla politica, attestando così un rapporto paradossale, che lo stesso Truffelli definisce nei termini di “estraneità e relazione” (p. 26); in secondo luogo la necessità di una declinazione quasi obbligatoriamente plurale di antipolitica, che racchiude uno spettro che va dall’opinione pubblica al vissuto popolare, dalla riflessione giuridica e politologica alla mera forma retorica. Tutto ciò – ecco il primo approdo del volume – trova un possibile raccordo, secondo l’autore, nel legare indissolubilmente la luce della politica con le ombre dell’antipolitica; antipolitica che costituirebbe perciò il “lato oscuro” di un modo di guardare all’ordine politico, senza che ciò implichi alcuna sua degradazione morale ma indichi piuttosto il contro-altare fisiologico di una medesima realtà.
Anche in questo caso, però, ci si trova di fronte ad un’alternativa tra due itinerari possibili: tutto dipende da quale limite si riconosca alla politica.
Da un lato vi è la posizione di quanti ritengono che l’antipolitica nasca dai programmi non rispettati della politica, e quindi dalle inadempienze di una politica che si è affermata come portatrice ed interprete di grandi valori, che poi, però, alla resa dei conti, ha deluso, generando “disincanto e risentimento”: il “riproporsi della politica come strumento di emancipazione e realizzazione dell’uomo e non, invece – secondo l’insegnamento di Platone – come «limitata tecnica» attraverso cui regolare le altre tecniche possedute dall’uomo” (p. 35). Una lettura ipervaloriale della politica starebbe quindi all’origine di una deriva ipertrofica dell’antipolitica; l’ambizione di una politica assoluta diverrebbe, suo malgrado, terreno fertile per la realistica delegittimazione radicale della politica.
Dall’altro lato, vi è la lettura, che Truffelli finisce per fare propria, secondo cui l’antipolitica sarebbe in realtà già “una componente intrinseca della politica moderna stessa” e quindi di un certo modello di politica: non più “una conseguenza della crisi della politica moderna”, quanto piuttosto – ed ecco il secondo approdo di questa ricerca – “un aspetto proprio e peculiare di quella politica nata dal grembo delle riflessioni e dei processi storici che hanno dato forma alla modernità” (pp. 40-41). Per giustificare tale posizione, l’autore inaugura un itinerario a ritroso che giunge fino alle radici moderne dell’antipolitica, seguendo le riemersioni di un fiume carsico che fa irruzione nel corso del Settecento. Dalla Francia di Luigi XVI (in cui l’antipolitica appare come fenomeno sociale, nel mix tragico di “incapacità delle classi dirigenti di uscire dalla contrapposizione tra proposte di riforma tanto radicali quanto astratte” e “forme di esercizio del potere consolidate dalla tradizione ma non più adeguate a rappresentare gli interessi di un tessuto civile”, p. 69) fino all’impianto hobbesiano (che ne inaugura le categorie concettuali, quando “la convivenza civile cessa di essere concepita e vissuta come l’unico possibile orizzonte di realizzazione della natura umana, per divenire […] una costruzione accidentale e artificiale”, p. 72): “l’antipolitica, insomma, si delinea come una sorta di ombra proiettata dalla politica moderna” (p. 71).
Nel momento in cui la politica diviene convenzione e la socialità qualcosa di estrinseco all’individuo, l’antipolitica ha di fronte a sé la possibilità di incarnarsi in varie forme di espressione, lungo un percorso non lineare, la cui sola coerenza è rappresentata dal fatto di non essere mai una dottrina, quanto piuttosto “la contrapposizione alla politica più radicale, spinta cioè fino alla messa in discussione della necessità e quindi della legittimità stessa della politica, o, quantomeno, della politica di cui si ha esperienza” (p. 84). Questo carattere genetico della modernità “sembra spiegare come le stesse riflessioni sviluppate in epoca moderna per fondare convenzionalmente la legittimità della politica abbiano potuto, certo in maniera paradossale, essere rovesciate dall’antipolitica in fonti a cui attingere per estrapolarne elementi con cui sostenere l’illegittimità dell’autorità politica in quanto tale” (p. 9).
Quali allora le conseguenze a questo punto? Restano, a mio avviso, due sottolineature da fare.
Innanzitutto Truffelli si inserisce in quel filone di analisi e ricostruzione critica della modernità che tende ad abbandonarne una visione “irenistica”, come età aurea della politica. Egli mette piuttosto in risalto la dinamica contraddittoria, conflittuale e per nulla scontata della modernità e del suo rapporto con la politica; la lettura risulta critica rispetto al filone interpretativo illuminista e storicista che, come è stato evidenziato più volte, collega in un rapporto di stretta specularità politica e modernità. Rispetto ad esso, poi, si aggiunge un tassello significativo nell’interpretazione di questa alternativa, basata sull’idea che l’antipolitica, intesa come ombra della politica, costituisca una sorta di “fattore di contraddizione interna” (p. 101) non solo della politica in sé, ma in particolare del liberalismo, per cui (il riferimento è alla lettura di Hindess) “la classica preoccupazione liberale di tracciare i confini tra lo spazio dell’individuo, quello della società e quello della politica, comporta, oltre all’inevitabile disaccordo circa la precisa collocazione di tali confini, un’altrettanto inevitabile propensione a percepire quei confini come perennemente minacciati dall’espansione della politica e degli interessi di parte, a scapito della libertà dell’individuo, da un lato, e dell’autonomia dell’azione di governo, dall’altro” (p. 115).
In secondo luogo, una tale concezione chiede di precisare la relazione tra politica, da un lato, antipolitica e impolitico, dall’altro. L’impressione che sembra conseguirne è infatti che questi due ultimi termini indichino due fenomeni strettamente ed inevitabilmente connessi alla politica, ma distinti: l’impolitico appare una sorta di implosione interna della politica, un collasso su se stessa a causa di una contraddizione inconciliabile, mentre l’antipolitica costituisce una sorta di esplosione, una reazione critica rispetto ad una politica che ha perso il sano equilibrio tra partecipazione, legittimità e fiducia.
Pur nella diversità di accezioni, che hanno coinvolto tale categoria, l’impolitico sembra infatti costituire una sorta di buco nero, inteso come negativo della politica, pur se non sua negazione (Cfr. R. Esposito, La modernità tra politica e «impolitico», in Aa.Vv., Logica e crisi della modernità, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 159-172), oppure come rivelazione di un’insufficienza
teorica, che è anche espressione di una incompiutezza (Cfr. R. Gatti, Sul carattere impolitico del moderno: Hobbes, Locke, Rousseau, in Aa.Vv., Forme del bene condiviso, a cura di L. Alici, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 259-296). In ogni caso, che sia la presa d’atto di un bene irrappresentabile – e quindi di un dissidio inguaribile tra politica e morale –, perché non c’è alcuna dimensione del bene da compiere, ma la sola realtà del potere, o che sia la consapevolezza di un’incongruenza della rappresentazione rispetto al bene, ovvero l’incapacità di dare coerenza alla fondazione del politico in relazione alla natura del soggetto, resta l’impressione che l’impolitico finisca per raffigurare la miccia innescata dal contatto problematico tra antropologia, etica e politica.
La nozione di antipolitica, a cui ricorre Truffelli, si distingue da entrambe queste declinazioni di impolitico: è più negazione, che negativo, della politica, e attestazione non tanto di una contraddizione quanto di un’insoddisfazione. L’antipolitica, divenuta successivamente anche risposta ad una ipervalorialità di alcune esperienze politiche novecentesche, nasce, nella lettura di Truffelli, come risposta “già moderna” alla costruzione politica moderna: la contraddizione tra “persona naturale” e “persona artificiale” sta all’origine della degenerazione del “macchinario politico”; ciò lega radicalmente il potere all’efficacia; la conseguenza estrema è la giustificazione di ogni rifiuto della legittimità del potere in nome della sua inefficacia. In tal senso, l’antipolitica sembra piuttosto la reazione deflagrante in cui si manifesta la critica alla realizzazione di una determinata realtà di potere quando quest’ultima viene considerata illegittima e non più degna di fiducia: ciò la rende una dinamica intrinseca alla politica, nella misura in cui ne coinvolge due coordinate esenziali, quali sono il potere e la partecipazione.
Si può allora ipotizzare, andando anche oltre l’esito del lavoro di Truffelli, che si possa parlare di un rapporto di “estraneità e relazione” anche in merito all’impolitico e all’antipolitica?
Estraneità nella misura in cui l’impolitico va a toccare il nervo scoperto della relazione tra componente antropologica e ordine politico, e quindi problematizza la possibilità di una visione più articolata del legame tra natura umana e spazio politico, mentre l’antipolitica si concentra sull’esito di questo rapporto, soffermandosi sulla forme di potere e di partecipazione, affrontando più propriamente il problema di una presunta cooriginarietà tra potere legittimo e riserva di sfiducia (cfr. P. Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia, Città Aperta, Troina 2009). Estraneità nel senso per cui ci troviamo di fronte ai due estremi campanelli di allarme che costringono la politica a mettersi in discussione e che, in quanto tali, ne costituiscono l’ombra: da un lato, elidere le radici antropologiche o il riferimento al bene dall’idea di politica apre al rischio dell’implosione impolitica, esito di una contraddizione interna (gettando così l’ombra sulle origini e le radici della politica); dall’altro lato, quando si affronta la questione del rapporto tra legittimità e fiducia, aumentando la distanza tra società civile e istituzioni, si è di fronte all’esplosione antipolitica, frutto della radicalizzazione della partecipazione come controllo (proiettando così l’ombra sulla politica nel suo esercizio di potere e partecipazione).
Relazione nella misura in cui, rispetto a questi due filoni, Truffelli si trova a ipotizzare un medesimo e comune ancoraggio storico, illustrando riferimenti e argomenti importanti per ritornare sul legame tra antropologia e politica, nella misura in cui la critica di tale pertinenza antropologica della politica e la concezione della politica stessa quale vincolo artificioso vengono presentati come il nucleo originario e il momento di aurorale contatto possibile tra impolitico e antipolitica.