Il mio ricordo di Norberto Bobbio negli anni 1943-45

I1 ricordo del nostro comune maestro Norberto Bobbio, per quanto mi riguarda, vuole essere  una testimonianza di uno studente, oggi novantenne, che negli anni che vanno dal 1943 al 1945 e  cioè nel periodo della lotta di liberazione contro il nazifascismo, ha avuto la ventura di una  frequentazione piuttosto assidua col prof. Bobbio sia con la costante presenza alle sue lezioni, sia  come partecipante ai seminari che egli teneva con una certa cadenza nel corso di quegli anni. 

Mi riprometto, in questa sede, di ricordare i momenti più significativi di questa mia  esperienza giovanile. 

L’occasione di tale frequentazione mi fu offerta dal rapporto amichevole, che fin dal  novembre 1943, intrattenevo col prof. Enrico Opocher, quando rientrato a Treviso dopo l’otto  settembre, ho ripreso a frequentare l’Università di Padova come studente del terzo anno di Filosofia. 

Enrico ed io eravamo entrambi di Treviso e abitavamo vicini di casa. Ambedue  frequentavamo l’Università. Enrico, di cinque anni più anziano di me, era assistente del prof.  Bobbio, allora direttore dell’Istituto di Filosofia del Diritto, ed io frequentavo da studente il corso di  Filosofia del diritto. Avevamo perciò l’occasione piuttosto frequente di fare insieme il viaggio da  Treviso a Padova e viceversa, per cui tra noi è nato un legame di forte amicizia, legame che ha  contribuito a determinare in me quel processo di maturazione intellettuale che mi ha portato sia ad  aderire al PdA, di cui Enrico era allora esponente autorevole, sia a partecipare attivamente alla lotta  di liberazione e che mi ha stimolato inoltre a coltivare gli studi di Storia delle dottrine politiche e di  Filosofia politica, discipline che Enrico seguiva con notevole impegno, oltre alla Filosofia del  diritto, suo preminente interesse scientifico. Tale circostanza mi consentì di partecipare come  allievo interno all’attività dell’Istituto di Filosofia del diritto ed ebbi l’opportunità di intrattenere  vincoli di profonda amicizia con alcuni dei miei compagni di studio come Luigi Caiani, Ernesto  Tattoni, Giuseppe Gerardis, Luigi Meneghello, e Mario Mirri, coi quali ho condiviso lo stesso  itinerario formativo ed ho vissuto stimolanti esperienze di vita clandestina.  

Luigi Caiani è stato indubbiamente, tra i miei compagni, il più impegnato nello studio della  Filosofia del diritto, disciplina in cui conseguì la libera docenza nel 1953. I suoi scritti più  impegnativi sono: Formalismo ed empirismo nella scienza del diritto, (1953); La filosofia dei  giuristi italiani, (1955). Aveva inoltre avviato un importante studio sull’Analogia, di cui rimangono  solo le prime bozze e alcune parti inedite di un lavoro quasi concluso. Tale intensa attività  scientifica non gli consentì di partecipare attivamente alla lotta partigiana anche perché soffriva  frequentemente di stati depressivi, situazione questa che lo portò nel 1959 al suicidio, proprio nel  giorno in cui la Commissione lo dichiarava vincitore del concorso ad ordinario di Filosofia del  diritto. Ernesto Tattoni e Giuseppe Gerardis ricoprirono invece posti di responsabilità come  esponenti del PdA e nelle formazioni GL nel bellunese, mentre Licisco Magagnato, studioso e  docente di Storia dell’arte, e Luigi Meneghello, il più noto di tutti, professore di letteratura italiana 

all’Università di Reading e autore e scrittore di numerose opere letterarie, svolsero anch’essi  nell’ambito dell’Università e dell’Istituto di Filosofia del diritto intensa attività partigiana sia nel  Padovano sia nel Vicentino. Inseparabile amico e stretto collaboratore di Magagnato e Meneghello  è stato Mario Mirri, oggi professore emerito di Storia moderna dell’Università di Pisa, che ha avuto  il merito di scrivere una preziosa e dettagliata testimonianza dell’attività politico-partigiana svolta  insieme ai suoi inseparabili amici vicentini. 

Bobbio aveva conseguito la libera docenza nel 1935 e nello stesso anno era stato chiamato  all’Università di Camerino a insegnare Filosofia del Diritto; nel 1938, vincitore del concorso a  titolare della stessa materia, veniva chiamato all’Università di Siena; nel 1940 ottenne il  trasferimento a Padova dove rimase fino al 1948. 

Nella sua Autobiografia ricorda che: «Da Camerino a Padova le cose erano radicalmente  cambiate. L’entrata in guerra aveva scavato un solco decisivo tra noi e il regime provocando il  passaggio a una opposizione concreta, anche se più dimostrativa che incisiva». «Quando – prosegue  Bobbio – presi possesso della cattedra di Filosofia del Diritto all’Università di Padova, la situazione  generale si era fatta drammatica. Eravamo in guerra da alcuni mesi, alleati di Hitler. Una guerra  disonorevole che ci avrebbe portati alla catastrofe. Era venuta l’ora della scelta definitiva». 

L’Istituto di Filosofia del Diritto, fin dal mio primo contatto, mi era parso come una specie di  zona franca, situato all’interno del Palazzo del Bo ove transitavano ogni giorno centinaia di  studenti; in questo continuo via vai era piuttosto facile passare inosservati entrando dalla porta  principale di via 8 Febbraio e uscendo sia dalla porta di via S. Francesco o da quella di via Cesare  Battisti, senza lasciar traccia. Era perciò difficile avere un’idea di quale fosse nel ’42-’43  l’intrecciarsi degli incontri che tendevano a comporre una rete di rapporti e collegamenti tra le varie  componenti delle formazioni antifasciste venete. 

Naturalmente anche la polizia fascista era presente e cercava di vigilare, come poteva, in quel  ginepraio. 

A mettere sotto una vigilanza speciale della polizia il prof. Bobbio nella primavera del ’43 fu  il suo rifiuto, affiancato anche da quello del prof. Aldo Ferrabino, noto professore di Storia greca e  romana, di partecipare alla cerimonia in cui si sarebbe dedicata una lampada votiva al sacrario dei  caduti della rivoluzione fascista nel cimitero della città, a cui erano stati invitati o meglio comandati  tutti i professori dell’Ateneo. 

Tale rifiuto creò a Bobbio notevoli guai che arrivarono fino a dar corso a un provvedimento  del suo trasferimento coatto all’Università di Cagliari. Tale provvedimento non fu eseguito per il  sopraggiungere del 25 luglio che segnò la caduta di Mussolini dal potere. 

Fu a causa di questi eventi che, appena iniziate le prime lezioni dell’anno accademico 1943, il  6 dicembre Bobbio fu arrestato e incarcerato a Verona.  È comunque da precisare che le accuse mosse a Bobbio sono riportate in una comunicazione  del 13 dicembre fatta dalla Prefettura di Padova alla Direzione Generale della P.S. presso il  Ministero dell’interno, pubblicata nell’Autobiografia. In questa comunicazione si notifica che: «Il

prof. Bobbio è stato segnalato, come facente parte di un’associazione segreta antifascista intitolata:  Comitato d’azione per la libertà d’Italia». Accusa questa dimostratasi infondata nell’interrogatorio  che Bobbio subì, interrogatorio a cui seguì l’immediata scarcerazione. 

Il ritorno di Bobbio fu accolto con grande gioia da noi studenti, dai docenti e collaboratori  dell’Istituto. 

È ancora da sottolineare che il Ministro dell’Educazione Nazionale, Carlo Alberto Biggini,  che risiedeva a Padova allora sede del Ministero, era orientato verso una politica di pacificazione  nazionale, al punto di nominare Rettore dell’Università Concetto Marchesi, benché fosse noto per la  sua fede comunista. Per tali ragioni veniva consentita una sia pur limitata libertà di insegnamento,  una sorta di libertas philosophandis che doveva limitarsi a pure enunciazioni teoriche prive però di  esplicite implicazioni lesive del sistema politico vigente. Di questa libertas Bobbio seppe fare un  uso esemplare. 

I1 suo insegnamento, caratterizzato da grande chiarezza e rigore, si svolgeva secondo la  duplice prospettiva dell’analisi teorico-tecnica dei fenomeni giuridici e dell’approfondimento dei  presupposti filosofici che stanno alla base dell’esperienza giuridica in generale e del problema della  giustizia in particolare. Ed è questa prospettiva che soprattutto affascinava noi studenti per i risvolti  politici che essa sottendeva. 

I1 tema dominante della riflessione filosofica di Bobbio, a partire dal ’38, era concentrato sul  concetto di persona, come appare in tutta evidenza nei suoi primi scritti di filosofia sociale  pubblicati negli «Annali della Facoltà giuridica di Camerino», e cioè La persona e la società e La  persona nella sociologia contemporanea, cui fanno seguito le Lezioni di filosofia del diritto, tenute  da Bobbio a Padova negli anni dal ’42 al ’45, dove venivano analizzati con profondo impegno  speculativo quei due temi fondamentali. 

I1 primo riguardava il problema della giustizia, considerato sia dal punto di vista della libertà  e dell’uguaglianza, sia dalla duplice prospettiva individualistica e universalistica.  I1 secondo tema riguardava il personalismo e la democrazia, argomento questo trattato da  Bobbio nelle Lezioni di Filosofia del Diritto tenute nel ’44 e nel ’45. Punto centrale della riflessione  era sempre il personalismo che possiamo classificare come «laico di ispirazione kantiana», per  distinguerlo, senza peraltro contrapporlo, dal personalismo cristiano, che proprio in quello stesso  periodo Luigi Stefanini docente di Storia della filosofia, andava trattando nel suo insegnamento alla  Facoltà di Filosofia, senza però trarne alcuna implicazione etico-politica riferibile all’istanza  democratica. 

Tra lo Stato liberale che si fonda sull’individualismo utilitaristico e lo Stato socialista che si  fonda sul predominio del soggetto collettivo, si poneva, a giudizio di Bobbio, lo Stato democratico,  che costituiva la sintesi e il superamento delle forme di Stato sopra indicate. Lo Stato democratico  era dunque il modello che meglio di ogni altro poneva le condizioni per una più equilibrata  combinazione dei valori di giustizia e libertà, intesi come valori comprimari che stavano a  fondamento della forma più elevata, tra le molteplici forme che potevano darsi le società umane,  rappresentate appunto da quella che Bobbio chiamava «comunità personale». 

Si trattava di una forma di Stato, oggi largamente condivisa, ma che, vale la pena di  sottolinearlo, Bobbio, in uno dei momenti più tragici della nostra storia nazionale, e cioè durante la  

Repubblica sociale di Salò, andava approfondendo come tema centrale dei suoi corsi di Filosofia  del Diritto nel triennio ’43- ’45 mediante elaborazioni teoriche di alto profilo etico-politico,  riferimenti storici quanto mai puntuali e suffragati dalla lettura e dal commento delle opere dei  grandi classici della democrazia, da Pericle a Kant a Tocqueville. 

L’Istituto di Filosofia del Diritto, oltre a essere un centro di formazione e di crescita morale e  intellettuale, era diventato anche un luogo di attività clandestina antifascista e partigiana. Bobbio, più che essere un organizzatore di attività antifasciste clandestine, era molto  apprezzato per i contributi intellettuali che forniva, senza però fare nessun esplicito riferimento a  fini operativi. Egli tuttavia, manifestando attraverso l’insegnamento accademico le sue convinzioni  più profonde, costituiva per chi lo ascoltava un orientamento ideale sui problemi della giustizia e  della democrazia. Più apertamente, si discuteva nell’ambito dei seminari, in cui erano spesso  presenti, oltre a Enrico Opocher e Giovanni Ambrosetti, che erano suoi assistenti, anche altri  studiosi di alto profilo intellettuale come Luigi Cosattini, Antonio Giuriolo e Mario Todesco. Questi  studiosi dialogavano, senza manifestare in modo chiaro quella che era la loro adesione dal punto di  vista dell’appartenenza partitica. Venivano discussi in quel periodo, ne ho ancora vivo il ricordo,  problemi che riguardavano in particolare il pensiero che Silvio Trentin aveva espresso nello scritto  Libérer et Fedérér

Silvio Trentin veniva da Bobbio presentato come uno studioso costituzionalista che aveva  elaborato delle idee estremamente interessanti e moderne che riguardavano il suo concetto di Stato  in rapporto soprattutto alla giustizia e alla libertà. A Trentin veniva riconosciuto il merito di aver  ipotizzato una società che, da una parte, garantisse la più completa libertà politica personale e,  dall’altra, assicurasse istituzioni di carattere collettivistico che garantissero la giustizia sociale.  

Le opere giuridiche e politiche di Trentin circolavano nell’ambito dell’Istituto di Filosofia del  Diritto. In particolare Antonio Giuriolo, con l’amico Nino Perego, aveva tradotto il testo originale,  che lo stesso Trentin gli aveva dato.  

Trentin, infatti, aveva destato notevole interesse tra i giovani resistenti, con il suo «Appello ai  veneti guardia avanzata della nazione italiana», pubblicato il 1 novembre 1943 in «Giustizia e  Libertà», organo clandestino del Partito d’Azione veneto. 

Trentin veniva inoltre presentato da Bobbio come uno dei più originali interpreti delle teorie  federalistiche e le sue posizioni venivano utilizzate per sollecitare la riflessione su due tematiche  che erano al centro del nostro interesse come studenti del corso di Filosofia del Diritto, ma  interessavano in ben altro modo quelli di noi che aderivano (o che avrebbero aderito) al Partito  d’Azione. 

Nel pensiero di Trentin erano poste in evidenza da Bobbio le due facce del federalismo: quella libertaria e quella pacifista, ma l’esigenza libertaria prevaleva su quella pacifista. Il suo interesse di  studioso di diritto e di politica era rivolto alla critica dello Stato nazionale che si era venuto  identificando con un potere sempre più monocratico. Il motto di Trentin «liberare e federare» ci  suggeriva l’idea di una liberazione che doveva coinvolgere sia il potere economico, sia quello  politico, realizzando uno Stato federale a democrazia integrale, le cui strutture di base dovevano  fondarsi sui consigli degli enti professionali così come di quelli territoriali. 

Negli ultimi mesi del ’44 e nei primi mesi del ’45, ormai, l’attività accademica interna  all’Università languiva, le aule erano pressoché deserte, le biblioteche paralizzate, gli istituti  semivuoti in una città gravemente ferita dai frequenti bombardamenti. Fuori dall’Università,  stimolata da docenti, da giovani studiosi e da numerosi studenti ferveva viva la lotta partigiana nelle  fabbriche, nei quartieri cittadini, nei campi e soprattutto nelle montagne dal Cansilio, al Grappa, al  Pasubio, all’Altopiano di Asiago, alle montagne Veronesi, coinvolgendo larga parte della  popolazione veneta: donne, giovani, e anziani davano sempre più numerosi il loro apporto  svolgendo i ruoli più diversi, contribuendo, a costo di gravi sacrifici e talvolta anche con l’olocausto  della vita, a trasformare la lotta partigiana in guerra di popolo. 

In questo periodo la presenza di Bobbio a Padova si limitava al tempo strettamente necessario  per l’adempimento degli impegni accademici più urgenti ed è proprio in una di queste fugaci  presenze che il 14 marzo del ’45 Bobbio, venuto a conoscenza che mi ero laureato in Filosofia alla  fine di febbraio, mi offrì il posto di assistente volontario presso la sua cattedra , incarico che accettai  molto volentieri, sia perché mi dava il diritto all’esenzione dal servizio nelle formazioni militari  della Repubblica di Salò, servizio che nel mio caso era obbligatorio, sia soprattutto perché mi  consentiva un legame organico, anche se a titolo gratuito, con l’Università ed in particolare mi  offriva l’occasione di uno stretto rapporto di collaborazione didattica e scientifica, particolarmente  col prof. Opocher. 

Bobbio riprese con una certa continuità la sua presenza a Padova ai primi di maggio del ’45  ove incontrò il prof. Meneghetti che – come egli ricorda – «nessuno di noi sperava vivo dopo  l’arresto e le torture subite» e che qualche tempo dopo sarà eletto Rettore dell’Università. Ricorda  Bobbio riandando al 31 luglio del ’45: «Ero presente quando Meneghetti tenne un discorso davanti  alle autorità alleate per la riapertura dell’Ateneo, esponendo un punto fondamentale del programma  del Partito d’Azione e cioè che i principi del liberalismo, premessa per ogni vita civile, non sono più  sufficienti perché approfondendo l’indagine nelle coscienze e nei fatti, si scopre che difficilmente  compiuta libertà può esistere dove l’ascesa dei migliori non sia regolata da uguali posizioni di  partenza».  

Il 12 novembre del ’45 partecipò all’inaugurazione dell’anno accademico a cui intervenne  Ferruccio Parri: Gli studenti reduci dalla guerra partigiana si assiepavano intorno a lui, allora capo  del governo formato in giugno dai partiti del CLN. Lo acclamarono al grido di «Maurizio,  Maurizio» (era il suo nome di battaglia) in un’atmosfera irripetibile di entusiasmo e di fiducia.  «eravamo tutti convinti, commenta Bobbio, che si aprisse una fase nuova della vita italiana». 

Anche nella seconda metà del ’45 Bobbio continuò le sue attività seminariali trattando in  particolare temi riguardanti il federalismo e le istituzioni democratiche; argomenti questi sui quali  scrisse alcuni articoli pubblicati in «Giustizia e Libertà» e cioè Federalismo vecchio e nuovo (25  agosto ’45); Uomini e istituzioni (21 settembre ’45); Istituzioni democratiche (16 ottobre ‘45); Istituzioni e costume democratico (6 novembre ’45). Durante la campagna elettorale del 6 giugno  1946 scrisse infine, sempre in «Giustizia e Libertà», l’articolo Le due facce del federalismo,  ristampato a cura della Federazione di Padova del PdA e distribuito in occasione delle elezioni.

Anch’io subito dopo la liberazione, oltre che coltivare gli studi di Storia delle dottrine  politiche e collaborare all’attività didattica dell’Istituto, mi dedicai per qualche tempo  all’organizzazione del PdA come vicesegretario regionale a fianco del segretario prof. Bruno  Visentini. In questa veste ebbi quindi l’opportunità di collaborare con Bobbio nel breve periodo in  cui si dedicò alla politica attiva. 

Quando furono fatte nel Veneto le liste elettorali del collegio Padova-Vicenza-Verona,  Bobbio non poté rifiutare di essere candidato per il Partito d’Azione. Doveva essere l’unica  campagna elettorale della sua vita. «Venivano – egli racconta – a prendermi in macchina e mi  portavano sul luogo del comizio. Devo dire che non lo facevo volentieri. Come oratore di comizi,  non avevo né l’attitudine né l’esperienza. Preferivo parlare nei teatri. Tenni discorsi a Belluno, a  Verona, a Vicenza, naturalmente a Padova, anche ad Adria […]. Quando ho fatto l’ultimo discorso è  stato per me un grande sollievo. Mi sono liberato da un incubo durato un mesetto». 

Purtroppo le elezioni per il Partito d’Azione andarono malissimo; il partito infatti ottenne una  manciata di voti non solo nel Veneto (fatta eccezione per Venezia), ma in tutto il Paese, ove non  riuscì a vincere in un solo collegio. Bobbio apprese la lezione e confessò a se stesso: «Basta, la mia  vita politica è finita». Ma non era certamente finita la sua vita di intellettuale di grande levatura  culturale e morale tale da far progredire con contributi scientifici di altissimo spessore le scienze  giuridiche e politiche non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. 

Contemporaneamente a Bobbio e ad esso strettamente collegati altri insigni maestri  dell’Ateneo patavino svolsero ruoli di rilevante responsabilità nella lotta contro il nazifascismo;  nella regione veneta in particolare Bobbio collaborò attivamente con Concetto Marchesi e Egidio  Meneghetti.  

Questi maestri non solo furono esponenti attivi della Resistenza veneta, ma ad essa (e non  solo ad essa) apportarono un arricchimento del patrimonio ideale con significativi e originali  contributi nell’ambito delle loro specifiche qualificazioni scientifiche e ideologiche. Furono questi  maestri che lasciarono in me, come in molti miei compagni di studio, una profonda impronta  intellettuale e sollecitarono riflessioni e confronti che influenzarono le nostre scelte etico-politiche.  

Come studente della Facoltà di Lettere e filosofia, ho seguito nell’a.a. 1943-44 il corso di  letteratura latina tenuto da Concetto Marchesi. Con lui ho avuto solo sporadici rapporti personali  per ragioni didattiche; ma fu soprattutto l’assidua frequenza alle lezioni, che ho seguito col più vivo  interesse, a consentirmi di cogliere le frequenti e anche troppo trasparenti allusioni che egli faceva  alle somiglianze tra le prepotenze e le ottusità dei più dispotici fra gli imperatori romani e quelle dei  gerarchi dell’imperante regime fascista. 

Così altrettanto suggestivi mi apparivano i riferimenti agli scritti ai padri della Chiesa quali  Tertulliano, Ambrosio, Prudenzio e Agostino, autori che egli inseriva nei suoi corsi di letteratura  latina classica. Nel cristianesimo e nel socialismo Concetto Marchesi vedeva gli stessi ideali di  giustizia, di uguaglianza e di pace per tutti gli uomini e particolarmente per la povera gente  diseredata. 

Bobbio ricorda i frequenti incontri serali con Marchesi in casa dei conti Papafava dei 

Carraresi nel cui palazzo avito di via Marsala abitava. Ce lo descrive come «un uomo di una  schiettezza perfino imbarazzante nel cui animo dominavano due sentimenti, la compassione per gli  oppressi e il disprezzo per i potenti. Non era soltanto uno dei maggiori studiosi del suo campo.  Aveva una visione del mondo tragica ma non disperata. Di sé diceva che aveva l’animo  dell’oppresso, ma non la rassegnazione. Da quando il socialismo era apparso nel mondo non ebbe  dubbi su quale sarebbe dovuta essere la sua parte: una parte cui fu intellettualmente fedele fino alla  fine». E più oltre precisa: «Dava l’impressione di grande compostezza, ma era una compostezza  conquistata attraverso il dominio di una natura passionale, agitata da rancori istintivi, da sacri furori,  da magnanime collere: dietro la calma apparente, un mare in tempesta. Nei rari momenti in cui  rompeva gli argini la sua parola diventava rovente, il suo gesto concitato, la forza che emanava  dalla sua persona irresistibile: solenne e terribile come un nume adirato. Ero con lui nel rettorato, il  giorno in cui per la prima volta i fascisti e la polizia avevano fatto sapere che sarebbero entrati del  Palazzo del Bo per una perquisizione: si alzò di scatto dalla seggiola, pronunciò con tanta veemenza  il suo rifiuto che nessuno osò fiatare, e i fascisti rimasero fuori». 

Anche Egidio Meneghetti era legato a Bobbio da strettissimi legami di amicizia fondati sui  comuni ideali dell’antifascismo e dell’azionismo. 

Bobbio lo ricorda, oltre che nell’Autobiografia, nella Commemorazione di Egidio Meneghetti  da lui tenuta nell’Aula Magna dell’Ateneo patavino nel 1985. Si tratta di un ricordo non rituale, ma  di un profilo magistralmente tracciato ove Bobbio descrive con animo commosso e con dovizia di  riferimenti biografici la figura di Meneghetti combattente, scienziato e anche letterato, nella sua  duplice veste di impareggiabile divulgatore scientifico e di poeta che ha saputo raggiungere, usando  il dialetto veneto, livelli di alta liricità. Bobbio così lo descrive: «Alto vigoroso saldo come una  quercia il suo aspetto evocò più volte immagini dantesche […], Il suo aspetto esteriore lo faceva  apparire un uomo sicuro, imperioso, gagliardo, un dominatore nato, che incuteva soggezione ed  esigeva rispetto […]. Fu un dominatore nato, senza alcuna volontà di potenza. Appartenne al  contrario alla sparuta schiera, sempre sconfitta ma non mai spenta, degli uomini di buona volontà.  La sua forza fu esclusivamente una forza morale, sorretta da un’eccezionale forza fisica che la forza  morale riuscì a domare e a dirigere verso il bene. Diventò un capo per capacità naturale quando  occorreva per diventare un capo essere più bravi degli altri, non indietreggiare di fronte al pericolo,  e magari affidarsi, con noncuranza e fiducia alla propria buona stella». 

La personalità di Meneghetti mi affascinava perché egli portava nella Resistenza lo slancio  della tradizione combattentistica e repubblicana del nostro Risorgimento. Quanti gli sono stati vicini  lo ricordano instancabile, onnipresente, incurante di ogni cautela, nonostante i consigli di prudenza  che gli venivano dai compagni, disponibile per ogni sacrificio a favore della causa in cui credeva.  Per diretta esperienza posso testimoniare gli intensissimi rapporti che tenne coi compagni azionisti e  con i rappresentanti sia del CLN veneto sia del comando militare di cui fu l’anima e il braccio. 

Meneghetti non fu un ideologo, ma un grande animatore, uno spirito nobile, un vero maestro  di scienza e di vita che aveva un senso profondo della funzione dell’Università moderna, che  «appare a chi ne è degno – come scrisse nel manifesto clandestino celebrativo dell’a febbraio ’44 – il   

massimo tempio della libertà per la consapevolezza e l’indagine che diviene feconda nella  divergenza delle opinioni apertamente discusse, per la ferma persuasione che il valido oppositore è  il collaboratore più efficace, per la sicura esperienza del perenne affermarsi dell’eresia in ortodossia  e del perenne zampillare dall’ortodossia di nuove benefiche eresie». 

Né posso passare sotto silenzio che, dopo l’arresto, Meneghetti e molti altri compagni e  collaboratori subirono e seppero resistere alle torture degli sgherri della «Banda Carità», mentre  nella stessa città di Padova cadevano trucidati i comandanti della brigata Giustizia e Libertà «Silvio  Trentin», Otello Pighin, assistente della Facoltà di Ingegneria, Corrado Lubian e Sergio  Fraccalanza, studente della Facoltà di Medicina, questi ultimi miei preziosi e validissimi  collaboratori. 

Alla fine del marzo del ’45 Meneghetti fu rinchiuso nel lager di Bolzano da dove poté fuggire  ai primi di maggio durante l’insurrezione che segnò la fine della guerra. 

L’esempio e l’insegnamento di questi maestri aiutò noi giovani a scegliere e a schierarci.  Aiutò non solo chi aveva già maturato un atteggiamento antifascista o stava passando  all’antifascismo, ma anche altri giovani che nel fascismo vivevano avvertendo però una grande  costrizione intellettuale e in cui agiva un forte spirito di insofferenza. Tra questi maestri, tuttavia,  proprio per il tipo di impegno professionale che gli veniva offerto dalla natura specifica della sua  materia di insegnamento, il maestro più formativo fu certamente Norberto Bobbio. Anche perché  intorno a lui si era costituito, come ho già ricordato, quel folto gruppo di giovani studiosi che, sia  pure coperti dai vincoli della clandestinità, militavano nelle file della Resistenza ed erano esponenti  di partiti antifascisti di varie tendenze politiche e in particolare del PdA. Con l’evolversi degli  eventi alcuni di essi furono travolti da un tragico destino: Cosattini morì a Buchenwald, Giuriolo  cadde in combattimento nell’Appennino tosco-emiliano e Todesco fu selvaggiamente trucidato a  Padova. 

In conclusione, il periodo padovano, e in particolare gli anni ’43-’45, sono stati per Bobbio un  periodo di maturazione quanto mai impegnativo dal punto di vista intellettuale, che ha prodotto nel  suo pensiero trasformazioni profonde e durature. Del resto tale giudizio trova piena conferma nella  lettera che lo stesso Bobbio mi ha indirizzato in risposta agli auguri che io e molti altri ex allievi ed  amici padovani gli avevamo scritto nel 1999 in occasione del suo novantesimo compleanno: «Tra i  molti auguri che ho ricevuto per i miei novant’anni – egli mi scrive – quelli che mi hanno  commosso di più per la loro forza rievocativa, sono i tuoi che accompagnano le firme di allievi,  compagni, amici di quella straordinaria stagione della mia vita che furono gli anni trascorsi a  Padova, gli anni della fine e della caduta del fascismo e della preparazione alla libertà. Stagione  straordinaria, irripetibile, non più ripetuta, incancellabile dalla mia memoria per le persone con cui  sono venuto in contatto, in gran parte allievi che frequentavano- le mie lezioni […]. Fu uno di questi  studenti morto giovane, Beppe Gerardis, che alla fine del mio corso 1942-43 (la caduta del fascismo  era vicina) disse a nome dei compagni alcune parole coraggiose su ciò che dalle mie lezioni  avevano appreso, ed era proprio quel tentativo di fondare la democrazia su un’etica personalistica  che tu hai così perfettamente ricostruito nell’articolo de “Il Mattino” […]. Ho detto più volte che il  vecchio, non potendo fare progetti per il futuro, si rifugia nei ricordi, nel ripercorrere la propria vita 

per conoscere finalmente se stesso, attraverso la riflessione dei suoi errori o erramenti e sui  momenti (rari) felici, in cui ha compiuto pienamente il proprio dovere. Gli anni padovani sono stati  un momento cruciale della mia vita, della raggiunta maturità, di cui sono debitore anche ai giovani  ormai insofferenti della dittatura, della guerra combattuta dalla parte sbagliata, protesi verso un  futuro di pace e libertà. A loro la mia riconoscenza. 

Grazie caro Fiorot, con affetto Norberto Bobbio”.

29/09/2011
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