Governance: oltre lo Stato?
Giovanni Fiaschi (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008)
Governance: oltre lo Stato? (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 300), a cura di Giovanni Fiaschi, mette in opera un tentativo, a mio parere riuscito, di considerare il fenomeno della governance per aprire un’interrogazione filosofica sul fenomeno e sulla sua reale o presunta dialettica con il governo. Nei contributi dei diversi autori, in un confronto tra prospettive metodologiche diverse, la governance viene assunta come un «punto di attacco […] per riaprire la questione della politica del nostro tempo» [Fiaschi, p.6]. Nonostante l’ampia produzione scientifica sull’argomento, la governance sconta ancora una consistente vaghezza dei tentativi di definizione e il termine viene utilizzato per indicare fenomeni disparati. Il libro mostra i limiti della interpretazione ancora oggi più diffusa che rimane chiusa all’interno del modello della crisi dello Stato, secondo la quale la governance[Fiaschi, p.2], che si sostituisce alla vecchia forma di governo, legittimata per consenso, introducendo processi di decisione partecipata e diffusa, in grado di rispondere meglio ai nuovi problemi politici grazie alla spontaneità, all’autorganizzazione e alla rivincita del privato sul pubblico. Letture tutte che sono ben sintetizzate, soprattutto per ciò che concerne la scala globale, nel saggio di Bettina Lösch, Governance globale e democrazia. Una riflessione sul tema della governance viceversa deve partire dalle voci critiche che recentemente hanno messo in discussione questo entusiasmo interpretativo, mettendo in dubbio l’effettiva autonomia di questi processi di decisione politica dagli organi statali di governo. Il libro, pur nella eterogeneità dei sui contributi, anzi proprio a partire dalla molteplicità degli approcci, mira a far valere il punto di vista critico sul significato da attribuire al ruolo giocato dalle organizzazioni private e dalle aggregazioni informali nella vita politica, e approda ad una considerazione della crisi dello Stato non come un evento recente ma come «una costante nella storia dello Stato presente sin dalla sua origine» [Fiaschi p.4], alla quale si è pensato, e in fondo anche sperato dopo il crollo del blocco socialista, di poter dare una risposta terapeutica, individuando nella governance non solo un sintomo della crisi ma anche il pharmakon per la patologia dello Stato, affidato ai miti della partecipazione diretta e del coinvolgimento di tutti. Quello che viceversa va messo in discussione, e su cui il libro orienta l’interrogazione filosofica, è la natura stessa del modello statale mostrandoci come un pensiero critico sulla governance possa diventare «la via per sgretolare pretese indebite di legittimità» [Fiaschi, p.5]. è una «sorta di sovversione graduale e quasi spontanea nei processi di regolazione politica»
Per affrontare questo articolato progetto di ricerca il libro è strutturato in quattro segmenti che indagano il nesso tra governance e statualità a partire da alcuni nodi cruciali.
La prima parte, La partecipazione e la crisi: governance e Stato moderno, apre la riflessione con il saggio di Douglas Moggach, Società civile e logiche dell’intervento politico, a partire dalle due logiche dell’idea tutoria dello Stato, secondo il modello dell’assolutismo illuminato e del repubblicanesimo moderno, per affrontare nei saggi successivi la tenuta della concettualità moderna a fronte delle nuove dimensioni teoriche e pratiche aperte dalla governance, attraverso l’analisi di alcuni concetti cardine: pubblico e privato, legittimazione, rappresentanza, partecipazione. La crisi dello Stato, di cui la governancePubblico e privato: oltre la grande dicotomia moderna?, da un’intima contraddizione generata dal presupposto dell’individuo, identico e fungibile, cui si chiede di «ricondurre il contenuto del comando politico alla propria identità» [p.42]. La domanda di partecipazione che la governance[p. 46]. Se, infatti, questa pluralità di soggetti continua a riferirsi a soggetti uguali e fungibili, la sua realizzazione non esula dal meccanismo della finzione scenica in cui il confronto non ha alcuna valenza discorsiva. Né tanto meno il superamento della dicotomia pubblico-privato ci conduce di per sé al superamento della concezione dei soggetti come individui uguali e fungibili. Questo significherebbe solo «redimere i vizi pubblici dello Stato moderno con il ricorso strumentale delle private virtù» della governance [p. 50]. Queste considerazioni tuttavia non devono comportare una stasi che genera una fuga dalla politica, viceversa, l’insuperabile aporia del consenso di legittimazione di individui uguali e fungibili deve condurre ad uno sforzo per costruire uno spazio diverso della relazione politica, e qui la riflessione critica sulla governance può intervenire proprio facendosi carico «di pensare l’istanza di partecipazione in tutta la sua valenza radicalmente innovatrice nei confronti dei paradigmi teorici della legittimazione per consenso» [p. 57], trascinarli fuori dal modello rousseauiano e, usando le parole di Janet Newman, re-immaginare quello spazio a partire dalla dimensione concreta della relazione politica, alla pratica concreta della partecipazione, ad un comando politico inteso come atto discorsivo, fuori però dalla logica di neutralizzazione del conflitto dell’ottica habermasiana. sarebbe la manifestazione più evidente, non solo non è recente ma è costitutiva del modo specifico con cui si fonda la legittimità dello Stato stesso, che verte sulla scissione tra dimensione pubblica e privata. Il processo rappresentativo su cui la democrazia moderna fonda la propria legittimità è afflitto, scrive Fiaschi nel suo saggio, sembrerebbe soddisfare dunque non solo non è inedita ma va indagata come la riproposizione di una dicotomia, di una aporia, che la dimensione politica moderna reca in sé sin dalla sua genesi e che investe proprio il nesso tra partecipazione e legittimazione, così come questo si configura a partire dalla separazione tra pubblico e privato. La domanda che oggi dobbiamo porci, di fronte all’intensificazione meramente quantitativa delle istanze di partecipazione, è quella che verte su chi siano veramente i soggetti chiamati a partecipare: sono gli stessi «individui astratti del modello di legittimazione moderna oppure – si chiede Fiaschi – soggetti politici di diversa natura, che come tali non sono riconducibili allo schema del consenso legittimante?»
Occuparsi di governance oggi comporta la ricognizione di esperienze e pratiche concrete e la messa alla prova della categoria attraverso diversi registri teorici che ci restituiscono il senso effettivo delle politiche che la governance mette in atto. L’attivazione di un più ampio e partecipe consenso da parte delle procedure di governance sembra avere superato il rapporto politico che ha sempre legato consenso e legittimazione, ma non nelle forme del suo superamento bensì in quelle di una produzione del rapporto comando-obbedienza attraverso quelli che nel saggio di Gianfranco Borrelli, Democrazia di governance tra crisi di legittimazione e dispositivi d’emergenza, sono definiti «scorrimenti di soggettivazione» [p. 76]. Lungi dunque da attivare prassi partecipative e inediti network di attori, sciolti dai consueti legami di comando obbedienza, le politiche di governance rispondono all’esigenza di costruzione di un nuovo ordine mondiale e, allo stesso tempo, alla garanzia del governo della vita, attraverso relazioni comando/obbedienza attivate attraverso tecnologie governamentali a impatto dolce [p. 77]. L’indagine delle politiche di governance, e del loro impatto multilevel, non può prescindere dalla comprensione critica delle trasformazioni in atto nelle democrazie occidentali e nei paesi in transizione, e dalla intrinseca contraddittorietà tra fenomeni di conservazione e di trasformazione. Indagare le procedure di governance significa dunque formulare anche una nuova determinazione del concetto di Stato che tenga conto dei suoi processi di trasformazione e di superamento. La crisi dello Stato che possiamo leggere nelle procedure di governance si manifesta non tanto come una crisi dell’apparato statuale in sé quanto piuttosto come una crisi delle procedure di legittimazione e quindi investe il dispositivo rappresentativo che regge la dimensione statuale [p. 92]. Secondo Scalone – Governance: superamento o integrazione del paradigma rappresentativo? – Governance e Autorità amministrative indipendenti tuttavia non sono la causa di questa crisi di legittimità ma la manifestazione, il sintomo, della crisi delle procedure rappresentative. Una crisi di rappresentanza che altro non è se non la manifestazione di un’aporia strutturale, congenita della dimensione statuale dal momento che «la necessaria non-congruenza fra rappresentante e rappresentato è precisamente la condizione di esistenza, se si vuole: la realtà della forma politica moderna» [p. 93].
La seconda parte del volume, Soggetti al potere: nell’autunno della sovranità, mette in luce il contributo che il pensiero critico della statualità moderna può dare ad una lettura della governance in termini di continuità con la forma della Stato e della sovranità, e in particolare le questioni relative ai processi di soggettivazione e al modo in cui al loro interno funziona il paradigma della governamentalità.
Luca Basso, nel suo saggio Ambivalenza della governance e dimensioni della soggettività, affronta il tema della governance come governo della globalizzazione, all’interno del quale l’obbligazione politica si riconfigura secondo modalità in buona parte inedite, in una struttura reticolare, complessa, in cui molteplici realtà, e autorità, si intersecano e sovrappongono in modo tale da non essere riducibili ad un unico schema. L’indagine di una tale rete richiede innanzitutto uno sforzo de-costruttivo il cui esito non annulla del tutto il ruolo dello Stato, e della logica della sovranità che esso continua a veicolare, ma ci mostra una diversa dislocazione e riconfigurazione delle funzioni statali [p. 100]. Lungi dal risolvere i problemi posti dall’assetto tradizionale di government la governance può ridisegnare gli assetti di dominio ma non per questo cancellarli. Tuttavia, per non cadere preda di una lettura tutta negativa della governance, Basso propone di riattivare la critica marxiana al capitalismo, che ci consentirebbe di entrare nelle «fratture della realtà presente» [p. 104] presa in tal modo non come una monade compatta bensì come un organismo attraversato costantemente da processi di trasformazione. Tra i processi investiti da questa riconfigurazione del capitalismo a livello globale Basso analizza quelli relativi alla ri territorializzazione e alla soggettivazione. I primi riconfigurerebbero lo spazio globale scardinandolo e riconfigurandolo su scale geografiche diverse da quelle tradizionali, ma non per questo meno consistenti. I secondi investono le dimensioni delle soggettività agenti, scardinando la dicotomia classica tra pubblico e privato, ma soprattutto producendo «spazi attraversati da differenziazioni interne, da opposizioni, in alcuni casi radicali», all’interno delle quali un ruolo decisivo viene giocato dalla soggettività dei migranti, e dalla soggettività di genere – di cui Basso però si limita a indicare la presenza – che possiamo assumere come «indicatori» dei mutamenti in corso che ci mostrano lo scompaginamento delle categorie e delle pratiche politiche [p. 113]. Anche il saggio di Sandro Chignola, In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, affronta la trasformazione delle forme della statualità contemporanea interpretandone la crisi come una «riorganizzazione complessiva del potere» che si articola grazie ad una diversa operatitività dei criteri di legittimazione resi indipendenti dai canali tradizionali di formazione della rappresentanza [p. 117]. Questi fenomeni danno vita ad una decostituzionalizzazione del comando e ad una riconfigurazione del lessico e delle categorie fondamentali della politica. In questa trasformazione la governance rovescia le forme classiche di legittimazione dell’azione di governo, che viene orientata non più all’input, che tradizionalmente derivava dalla rappresentanza politica, bensì all’output, che fonda una legittimità basata sulle capacità performative delle istituzioni. Un passaggio che si può sintetizzare come la transizione dalla democrazia della rappresentanza alla democrazia dell’efficienza [p. 120]. Dall’analisi genealogica della governance, che Chignola ricostruisce nella seconda parte del suo saggio, questa ne emerge non come il prodotto dell’obsolescenza dello Stato, e dunque la manifestazione di una dimensione post-nazionale, ma come il modo attraverso il quale lo Stato – attivamente denazionalizzato – «diventa un sito agibile» per la realizzazione di varie funzioni: apertura di mercati, territorializzazione del lavoro, attrazione di capitali, controllo di migrazioni, destrutturazione dei diritti e delle garanzie sociali, negoziazione di nuovi parametri di cittadinanza, inclusione differenziata [p.126]. Di questa genealogia, di cui già negli anni ’70 Foucault aveva intercettato alcune dinamiche di governance, Chignola ci invita a recuperare le costanti della trasformazione che investe la politica nell’epoca del declino della sovranità. Se la governance consiste nel mutamento dei dispositivi della rappresentanza e del dominio, e dunque è la manifestazione dell’irruzione di processi, interessi e soggetti che non sono collocabili nella tradizionale meccanica del consenso, allora è vero anche che ci troviamo di fronte ad una trasformazione la cui posta in gioco è ancora da decidere [p. 141]. E la governance, pur muovendosi all’ombra dello Stato, mantiene aperti i circuiti di soggettivazione, sia su scala metropolitana sia su quella globale, lasciandoci la possibilità di tenere aperta la distanza tra libertà e dominio, tra autonomia e controllo, tra ciò che non è governabile e il governo, una responsabilità che è allo stesso tempo politica e scientifica. Sulla stessa scia dell’analisi foucaultiana, il saggio di Dominik Nagl e Ulrike Höppner, Governance e governamentalità nelle aree di statualità limitata, si concentra sulle prospettive aperte dall’indagine dei meccanismi di dominio politico nelle società (post)coloniali e sulla capacità euristica del nesso governance/governamentalità. Se l’analisi della governamentalità, così come è stata proposta da Michel Foucault, non contempla, a giudizio dei due autori, una trattazione del colonialismo e delle forme di sfruttamento neocoloniali, nei Post-colonial e Development Studies troviamo alcuni tentativi promettenti di applicazione del concetto di governamentalità ai fenomeni di governance nelle aree (post)coloniali, che funziona come strumento di smascheramento delle questioni di dominio insite nella governance [p. 153]. Ciò che andrebbe valutata criticamente è la trasferibilità e l’applicabilità del concetto di governance ad aree (post)coloniali con funzionalità statuale limitata [p.158]. Stesso discorso vale per il concetto di governamentalità, che viene elaborato sulla base della genesi dello Stato moderno europeo, col rischio di impiegare i concetti europei in modo irriflesso ad altre realtà. Tenendo conto di questo rischio interpretativo tuttavia l’analisi della governamentalità nelle aree (post)coloniali resta un percorso promettente, proprio perché fa apparire la contingenza del modello statuale occidentale ed è capace di aprire l’indagine a realtà che non possono essere ricondotte a quel modello. Significativo della produttività di un approccio che coniughi l’analisi dei processi di governance con quella della governamentalità è, ad esempio, la critica del potenziale emancipatorio delle categorie e delle strategie di good governance e dei programmi di lotta alla corruzione e, più in generale, la critica della teoria dello sviluppo inteso in senso partecipativo.
La terza parte del volume, Governare il mutamento: le domande della diversità, affronta le sfide che la governance deve affrontare nel preteso compito di governare il mutamento odierno e, in particolare, quelle relative al ruolo e alla capacità della politica di far fronte alla dimensione della diversità e della identità sul piano locale e internazionale. Secondo Cubeddu – Governance, innovazione e ruolo della politica – i modelli di governance, pur nelle loro differenze, sono accomunati dal fatto di essere ancora più inefficienti del modello Stato che sembrano sostituire [p. 175]. Il modello dello Stato nazione entrando in crisi sta dando vita a due fenomeni contraddittori: quello della «globalizzazione del mercato della conoscenza, dei talenti e dei beni, e quello della parcellizzazione comunitaria dei diritti» [p.176]. A fronte di questi processi la politica sembra aver perso il carattere della progettualità e dell’imperio ed essersi ridotta ad elaborare criteri di distribuzione, ispirati a ideali diversi, chiamata com’è ad elaborare gli effetti di iniziative altrui. In questa complessità di meccanismi decisionali e produttivi Cubeddu propone una considerazione sui tempi della politica. Il tempo in cui individui si aspettano di vedere soddisfatte le proprie aspettative coincide sempre meno coi tempi decisionali della politica. L’economia della conoscenza produce asimmetrie conoscitive che rendono sempre più tenui i vincoli formali all’interno dell’associazione politica e modificano continuamente le aspettative e i valori individuali e sociali, ponendo domande sempre nuove e spesso inconciliabili alla politica [p. 177]. La politica rischia così di trasformarsi in un elemento di contrasto al cambiamento, che rimane circoscritto a aree limitate di privilegio, riducendo in tal modo la quantità di risorse a disposizione della società. Ma questa situazione crea paradossalmente una domanda sempre crescente di politica cui la governance non può dare risposta. Lungi dunque dall’essere la risposta politica che consente di uscire dalla ormai inadeguata dimensione dello Stato, la governance si trova ancora più incapace di gestire la complessità della convivenza, spesso conflittuale, della molteplicità delle fonti normative: «Stato, istituzioni internazionali, mercato, mondo della ricerca, religioni» [183]. Restando all’interno dello schema della politica la governance non rappresenta dunque una risposta migliore ai problemi che lo Stato non riesce più a soddisfare, costituendo forse un modo di superamento dello Stato ma certo non il superamento della politica [184]. L’incapacità dello Stato moderno di tenere in debita considerazione le differenze culturali, messa in luce dalle teorie multiculturaliste, è l’oggetto del saggio di Flavia Monceri, Diversità e ordine politico nelle teorie multiculturaliste. La sua analisi mette a tema il nesso identità/differenza prefigurando un duplice compito alla riflessione filosofica: elaborare una definizione dei concetti di diversità e differenza culturale e analizzare il modello dello Stato moderno per renderlo più capace di includere le rivendicazioni legittime delle minoranze culturali. Secondo Monceri il pensiero multiculturalista non riesce a soddisfare nessuno di questi due compiti, dal momento che non riesce a rompere realmente con il paradigma moderno della statualità, restando così all’interno delle sue categorie logiche, e finendo paradossalmente per rafforzarle adattandole al mutamento avvenuto nelle società del XXI secolo. Questa incapacità del Multiculturalismo di elaborare un pensiero nuovo, e la conseguente neutralizzazione del suo potenziale innovativo, viene addebitata da Monceri al fatto che il Multiculturalismo non ha mai messo in discussione né il concetto di identità né il modello politico della società liberale. Per assolvere la richiesta multiculturalista il modello dello Stato moderno non va reso più estensibile, elastico o flessibile, come nelle teorie multiculturaliste, ma va radicalmente messo in discussione al fine del suo superamento. Per uscire dal modello politico statuale l’interrogazione filosofica deve investire il concetto di differenza/diversità per sganciarlo da quello di identità, ed elaborare un nuovo modello di ordine come risultato di interazioni fra le diverse differenze individuali.
Nell’ultimo saggio della terza parte del volume, L’ordine della sete. Note sulla governance dell’acqua in Palestina, Mauro Farnesi Cammellone affronta la questione della governance a partire dalla prospettiva dei conflitti internazionali per il controllo delle risorse idriche. Assumendo il caso del conflitto israelo-palestinese come paradigma dell’uso della governance ad integrazione di meccanismi di controllo esercitati tradizionalmente facendo ricorso a azioni iscrivibili all’area di azione del governo o, al limite, dell’intervento armato, Cammellone mostra come l’impossibilità di sussumere i fenomeni di governance all’interno della costellazione concettuale dello Stato non comporti il tramonto di questa istituzione [p. 212]. Lo Stato e la sua efficacia decisionale va considerata anche se sembra tramontato il monismo implicito nella logica della sovranità. Così facendo la sovranità mostra la propria forza nella sua continua capacità di riconfigurare il proprio profilo a fronte di tecnologie politiche ad essa non immediatamente riconducibili. In questo sforzo il conflitto israelo-palestinese viene assunto per misurare la tenuta e le incrinature della dimensione statuale e intra-statuale presente nel conflitto e la presenza al suo interno di tecnologie politiche, in particolare di biopolitiche della popolazione, che contribuiscono alla governance dei conflitti. Questa relazione apre la riflessione alle interazioni tra la logica della sovranità e le pratiche biopolitiche e ci permette di misurare quanto la tenuta o l’infrazione della dimensione della statualità sia investita dalla governance [p. 227].
La quarta e ultima parte del volume è dedicata all’analisi della governance oltre l’ordine degli Stati e alle dimensioni all’interno delle quali quest’ultima sembra chiamata a svolgere un ruolo, non neutro, nella realtà contemporanea: sicurezza e diritti umani. Alessandro Arienzo, nel suo saggio La security governance tra Stato e mercato: human security e security sector reform, indaga le relazioni che intercorrono tra governance e Stato a partire dalle trasformazioni della nozione di security e dalle riflessioni prodotte nell’ambito della security governance sul displacement di popolazioni a seguito di gravi crisi ed emergenze [p. 233]. Nel quadro di questa specifica forma di governance viene delineandosi un insieme di politiche differenziate, messe in atto da attori molteplici, con lo scopo di «mettere in sinergia sviluppo economico, sicurezza e governo democratico». Un nesso quest’ultimo che si trova al centro delle riflessioni sulla global security governance e costituisce il nucleo di una strategia finalizzata al sostegno di failing o transitional states facendo ricorso ad una serie di politiche volte a rispondere ai problemi generati dagli spostamenti di popolazione prodotti da povertà, conflitti, malattie e disastri ambientali [p. 234]. La global securitygovernance è l’esercizio di un governo non statale sulle popolazioni. La logica governamentale che dà forma alle sue prassi di governo specifiche è l’espressione degli sforzi di re-definizione dei rapporti tra Stato e governo. Una re-definizione che avviene sulla base di meccanismi di sicurezza specifici che operano come agenti di sviluppo economico, nelle forme della governance delle popolazioni, come human security. Governance e conflitti intervengono sulle popolazioni, e sugli individui, mantenendo il modello democratico come modello politico di riferimento, anche se trasformato in un sistema complesso e ambiguo misto di government e governance, nel quale le reti transnazionali, i processi di delocalizzazione economica e politica, la ricollocazione su scala macro-regionale o globale dei momenti decisionali, sopperisce alla debolezza delle istituzioni statali. La dimensione sovrana dello Stato, anche se trascesa dalle prassi governamentali delle popolazioni, continua dunque a sussistere per garantire la continuità, la tenuta e la veridicità dei processi di individualizzazione politica «che chiamiamo cittadinanza» [p.262]. Degli stessi processi di individualizzazione politica Massimiliano Tomba affronta, nel suo saggio Partecipazione politica e diritti nella crisi dello Stato, la questione dei diritti umani. Il legame tra il fenomeno della governance e la questione dei diritti umani, in uno scenario di crisi della forma statuale, sono evidenti, scrive Tomba, a partire dalla considerazione che le giustificazioni della global governance come superamento dello Stato, coincidono con lo stesso scenario evocato per legittimare nuove forme di guerra in difesa dei diritti umani [p. 268]. Questo tipo di giustificazione ha operato un rovesciamento del rapporto tra pace e diritto. La pace non è più un valore assoluto che il diritto deve garantire e i diritti umani sono diventati un fine da perseguire in sé anche a costo della guerra, dando luogo ad uno stato di eccezione internazionale che non ci colloca fuori dalla logica della sovranità ma ci pone di fronte ad un suo riposizionamento. Il titolare dei diritti umani è un soggetto passivo, una passivizzazione che è connaturata alla logica del diritto moderno, facendo sì che i diritti umani si configurino come i diritti a non subire il Male. Un diritto che può essere reso effettivo solo in forza della violenza che un benefattore può opporre alla violenza del Male su una vittima inerte [p. 273]. Non una nuova forma di sovranità dunque ma la riemersione del suo lato perturbante, quello che può essere rimosso nei momenti di normalità e si manifesta nei momenti di emergenza, soprattutto quando a livello globale lo stato di emergenza sembra essere diventato «costitutivo della statualità nell’epoca della sua crisi» [p. 276]. Quella che andrebbe ripensata, e qui troviamo la proposta di Tomba che possiamo assumere, in conclusione, come la proposta programmatica di ricerca dell’intero volume, è l’intera logica che sorregge la costellazione concettuale potere-diritto-individuo che opera una neutralizzazione dell’agire politico del singolo a fondamento della sua libertà [p. 277].