El Príncipe
Maquiavelo Nicolas (Prometeo Libros, Buenos Aires, 2006)
Questa recente edizione argentina del Principe (1513) di Machiavelli è di particolare interesse sia per l’accuratezza e l’aderenza al testo della versione in lingua castigliana sia per le argomentazioni svolte nei due saggi introduttivi da Antonio Hermosa Andújar, studioso spagnolo di storia del pensiero filosofico-politico che ha già pubblicato traduzioni di altri importanti scritti italiani del XVI secolo e che è uno dei massimi esperti della “ricezione” delle opere machiavelliane nel contesto iberico cinque-secentesco, un settore di indagine – questo – che soltanto negli ultimi tempi è stato oggetto di approfondimento anche da parte di ricercatori non spagnoli.
Nel primo dei due “studi preliminari”, intitolato “El Príncipe y les leyes de la política” (pp. 13- 43), si focalizza l’attenzione sui capitoli I-XXV dell’opera, prendendone in esame i principali motivi e temi. In questa che è, secondo Hermosa, “la prima parte del Principe”, Machiavelli espone le regole atte alla conservazione del potere; ma non solo: il Segretario fiorentino elabora qui un concetto di potere indipendente dal tipo di principe che siede sul trono, dal modo in cui questi prende il potere, dalla natura dello Stato ecc. Tale suo concetto di potere include, come osserva lo studioso, quell’articolatissimo sistema di idee che lo ha reso celebre, spaziando dall’importanza rivestita dagli esempi da imitare al potenziale urto delle esigenze politiche con gli insegnamenti morali e religiosi, dal dualismo antropologico alla necessità della forza, dal dualismo sociologico al ricorso del principe alla violenza. Su questo sfondo, si staglia il concetto machiavelliano di virtù: ciò che al principe deve importare più di ogni altra cosa è “mantenere lo stato” , ossia difendere, insieme con la propria posizione, il potere e l’assetto costituzionale esistente; onde, egli può definirsi “virtuoso” solamente qualora persegua questi obiettivi, dimostrando nei fatti di aver compreso che “imparare a potere essere non buono” è il supremo imperativo morale della politica. In questo modo, il “principe pieno di virtù” descritto da Machiavelli, commenta Hermosa, si rivela “l’unico in grado di magnificare la storia staccandola dal regno della natura, di restituire ad un popolo antico l’unità, di decidere il destino della nuova società” (p. 37).
Nell’analisi della figura del principe de facto “assoluto”, di colui – cioè – che mostra tentazioni tiranniche e non distingue lo Stato dalla società civile, intromettendosi negli affari dei privati cittadini, lo studioso tocca un importante nodo concettuale della nascente modernità. Una delle prime tappe – se non già quella di esordio – della linea di pensiero secondo cui le sfere di competenza dello Stato e della società civile debbono conservarsi ben distinte, è infatti rappresentata dal dibattito etico-politico fiorentino del primo Cinquecento, come rivelano in maniera inequivocabile un passo del Principe e due significativi luoghi guicciardiniani pressoché coevi. Si tratta di proposte che, mettendo in risalto la necessità di pervenire ad una netta differenziazione tra pubblico e privato, tra la sfera politica e quella del mercato, hanno contribuito a portare l’Occidente sulla via delle libertà “moderne” e dei diritti umani. Sebbene esistessero, nei secoli precedenti, formule chiare per la definizione del bonum commune come “proprio” della politica rispetto agli interessi particolari dei privati, in tutti quei casi – nondimeno – si rimaneva ancora nell’ambito dei tradizionali appelli etici di radice classica e cristiana, volti a combattere la degenerazione continua delle lotte politiche tra fazioni. Nel Medioevo, pertanto, lungi dall’esservi già una distinzione precisa tra privato e pubblico, appariva ben radicata un’idea della politica come composizione degli interessi particolari nel quadro di una superiore identità condivisa, quella della respublica Christiana.
In “De Florencia a Italia: Maquiavelo, nacionalista” (pp. 47-54), il secondo saggio introduttivo, si analizza quello che è ancor oggi, probabilmente, il capitolo più controverso del Principe, l’ultimo. Stando all’argomentata interpretazione di Hermosa, in questo capitolo – il XXVI – si eclissa inaspettatamente il Machiavelli “tutto ragione” delle pagine antecedenti a beneficio di un Machiavelli “tutto cuore” che esorta all’unità dell’Italia; dal punto di vista dello studioso, quindi, l’autore toscano, nell’exhortatio finale, si spoglia dei panni dello scienziato della politica per vestire quelli del militante passionale, del fervente nazionalista. Hermosa rileva che, nel capitolo XXVI, il principe cessa all’improvviso di essere fiorentino e diventa italiano: gli esempi stranieri richiamati in precedenza perdono adesso tutto il loro valore e allo strutturato catalogo degli strumenti politici a disposizione del principe “virtuoso” subentra un acceso sentimento di “italianità”, che unisce principe, “grandi” e popolo, e “magicamente” espelle la conflittualità dalle relazioni sociali.
In questo quadro, se la presenza di Dio, prima dell’exhortatio conclusiva, ha avuto un ruolo secondario, ora Dio viene improvvisamente a garantire il Suo appoggio al principe che rompe gli indugi e decide di accollarsi il duplice compito di liberare l’Italia dal “barbaro dominio” e di unificarla. E, per impiegare le parole di Hermosa, che recupera qui le categorie introdotte da Machiavelli nella “prima parte dell’opera”, questo “nuovo principe italiano” deve intendersi non già come un principe “nuovo” sensu stricto, bensì piuttosto come “un principe ‘elettivo’ [=‘civile’] nel momento dell’acquisizione del potere, e quasi un principe ‘ecclesiastico’ relativamente alla sua conservazione” (p. 54).
Nella ricostruzione dello studioso, pertanto, il Machiavelli del capitolo XXVI assume le sembianze di un autentico alter ego rispetto a quello incontrato nella “prima parte del Principe”, palesando una “personalità interamente distinta” (p. 47) e avvicinandosi – in un certo senso – al Platone della Repubblica, là dove il filosofo greco tende a far scomparire l’azione propriamente politica sotto i colpi dell’elaborazione della téchne politica perfetta. E, sul piano della prassi, questi nuovi italiani sono in parte da assimilare, secondo Hermosa, a quegli ebrei che, nel XX secolo, a dispetto delle tante differenze esistenti tra le loro rispettive comunità di appartenenza, si unirono in un unico entusiasmo nazionale quando il trionfo del sionismo si concretò nella nascita della loro profetizzata creatura: lo Stato di Israele.
Quest’edizione del Principe, sia per la qualità della traduzione sia per l’importanza dei due “studi preliminari”, merita di essere conosciuta anche al di fuori dei Paesi di lingua spagnola. L’assoluta rilevanza degli argomenti affrontati, dei quali si è purtroppo potuta offrire qui solo una sintesi molto limitata, attesta, accanto ad un’indubbia consuetudine di Hermosa con la figura e gli scritti di Machiavelli, anche la vastità degli studi che egli ha condotto nel tempo su altri momenti e autori significativi della storia della filosofia. E l’encomiabile distillato di indagini e riflessioni che emerge da queste pagine, documenta anche un’alta testimonianza della notevole originalità della prospettiva critica dello studioso spagnolo, il quale viene così a caratterizzarsi come uno dei maggiori specialisti – non solo in area iberoamericana – del pensiero filosofico-politico europeo tra il XVI e il XVIII secolo.