Eguale rispetto

I. Carter, A. E. Galeotti, V. Ottonelli (Bruno Mondadori, Milano, 2008)

Il testo è il frutto di un programma di ricerca che si è concretizzato in svariati seminari e convegni  tenuti dagli autori dei saggi raccolti, aventi come oggetto la nozione di rispetto nella filosofia  politica e morale contemporanea. Perché parlarne? Nella prefazione al libro, Salvatore Veca, che  insieme a Ian Carter ha delineato i punti della ricerca, sottolinea due valide ragioni: nel discorso  filosofico il rispetto non è concettualizzato in maniera puntuale e in quello politico si traduce solo  in uno slogan. Insomma, qual è il senso del richiamarsi al rispetto? Qual è il suo fondamento?  Quali le sue ragioni e implicazioni normative? 

Prende per primo la parola Stephen Darwall, che distingue tra rispetto come stima e rispetto  come riconoscimento. Il primo significa riconoscere nell’altro un ruolo importante, cioè un onore.  Tuttavia, tale forma di rispetto dipende dalle qualità che attribuiamo all’altro. Il secondo, invece,  ha una funzione regolativa della condotta. A sua volta, quest’ultimo concetto implica una  responsabilità reciproca da parte di se stessi e degli altri ma ciò si verifica solo se il rispetto  assume una dimensione in seconda persona. La relazione con gli altri, cioè, stabilisce un  riconoscimento che è reciproco perché crea un centro di imputabiltà eguale. Eppure, che cosa  non direbbe Darwall in ciò che sta dicendo? Sul punto interviene la Galeotti che rivolgendosi a  Darwall ritiene che questi abbia inteso il rispetto come dovere. A suo avviso, il rispetto, lungi  dall’essere un dovere verso gli altri, è un bisogno psicologico ed emotivo di riconoscimento; è  un atteggiamento appropriato ma non classificabile: è un concetto vago, indiretto e  incondizionato. Tuttavia, affinché il rispetto sia universalizzante non basta che le persone  abbiano eguali diritti giacché rispetto e diritti sono nozioni diverse: avere eguali diritti non vuol  dire necessariamente essere rispettati perché “misura la riconoscibilità del singolo entro la  categoria personale cui si attribuisce il rispetto” (p. 42). In realtà, l’inclusione si traduce  nell’esclusione del rispetto. Come poter trovare una possibile soluzione? Secondo Anna Elisabetta  Galeotti, la politica del riconoscimento, intesa come compimento delle promesse della  democrazia liberale, può garantire l’eguale rispetto. Se il rispetto è in seconda persona e ciò  implica riconoscere una autorità eguale, si può concludere che abbia una dimensione egualitaria?  Carter avanza questo dubbio e per formulare una teoria normativa che prescriva la distribuzione  di beni fra persone, prende le mosse dalle basi dell’eguaglianza. La specificazione di queste  ultime ha il carattere di premessa alla famosa domanda di Sen “eguaglianza di che cosa?”. La  premessa di Carter è ciò che egli definisce rispetto-opacità. Tale strategia permette di rispettare  le persone dal punto di vista esterno ossia si caratterizza per l’assenza di valutazioni in merito  alle persone. Evitando di giudicare gli altri, si esclude la possibilità di prendere in considerazione  le loro particolari proprietà. Carter non ha in mente la nozione rawlsiana di proprietà di campo  non avendo essa una giustificazione morale indipendente. Il punto è proprio questo: il rispetto opacità si potrebbe definire l’a priori del concetto rawlsiano. Infatti, l’idea del filosofo è  appropriata per una teoria della giustizia che si occupi di distribuire beni sociali primari.  L’argomento di Carter ha peraltro la conseguenza di abbandonare la concezione trascendentale  della persona kantiana, non avendo essa riferimenti empirici. Tuttavia, si potrebbe ipotizzare  che la concezione kantiana non sia dopotutto così trascendentale? Carla Bagnoli riflette sulla  possibilità di interpretare il modello kantiano in senso naturalista per giungere ad elaborare una  concezione dell’autonomia che ha per presupposto l’eguaglianza democratica kantiana. Che gli  uomini siano essere razionali e responsabili, deriva da una caratteristica che è propria della  mente: l’auto-riflessione. Questa non ha una giustificazione metafisica ma dipende dall’ambiente  politico, sociale ed economico nel quale la persona si trova a relazionarsi. In tal modo, le persone  si riconoscono, e facendolo, fondano la loro autonomia. Il rispetto è costitutivo del  riconoscimento del valore di una persona. Tale valore intrinseco deriva da una relazione normativa che poi certo si può trasferire in ambito politico. Qui si traduce in eguaglianza  democratica che mira alla promozione di un riconoscimento reciproco. Hillel Steiner interviene  nella discussione pensando al commercio equo e alla sua relazione con il concetto di rispetto.  Davvero il commercio equo, benché volontario, è equo? Tale forma di contrattazione può celare  lo sfruttamento. Il punto non è che la contrattazione in sé implichi un non rispetto ma lo può  diventare se i beni scambiati hanno un valore diseguale e se le parti hanno un diverso peso  economico. Lo spazio dell’ingiustizia che precede la contrattazione implica un non rispetto ma la  contraddizione risiede nel fatto che essa risulta essere autorizzata su basi di rispetto.  L’osservazione di Steiner induce Luca Beltrametti a spostare il dibattito verso il tema del  paternalismo e sulla sua relazione con il rispetto nell’ambito della teoria economica. Secondo il  filosofo il paternalismo non implica automaticamente una mancanza di rispetto. Per dimostrare  ciò, egli prende in considerazione quattro tipologie di paternalismo: la prima è autoritaria perché  impone un determinato comportamento; il paternalismo libertario si riferisce a forme non  autoritarie di manipolazione del comportamento di una persona; il paternalismo di Ulisse  riguarda i casi in cui la persona sceglie che la propria libertà individuale venga limitata per  raggiungere i propri obiettivi; il paternalismo dei donatori fa riferimento al fatto che anche le  donazioni possano essere forme paternalistiche giacché al beneficiario potrebbe essere negata  la scelta di rifiutare (è il caso, per esempio, dei sussidi per la disoccupazione). Lester Hunt nutre  delle perplessità in merito al rapporto tra rispetto e Stato sostenendo che il primo non è molto  amichevole con il secondo. In sintonia con la concezione kantiana, argomenta che affinché sia  possibile il rispetto che non va confuso con l’amore (di ciò lasciamo che siano le belle pagine di  Karl Jaspers a parlarne), occorrerebbe attribuire alla persona una dignità che non ha prezzo:  farlo vuol dire conferire un valore e ciò, a sua volta, implica riconoscere un sistema di norme  deontologiche. Quest’ultimo non produce il valore della persona ma lo rispetta. Tuttavia, perché  si dovrebbe aderire alla concezione kantiana? Dietro la domanda va ricercato il problema del  doppio criterio che si collega a molteplici questioni riguardanti il rapporto tra individuo e Stato:  “Perché la tassazione non è un furto? Perché la chiamata alle armi non è un rapimento?” (p.  137). Ci si trova davanti ad un ineguale rispetto. La coercizione, dice Hunt, quando è  paternalismo comporta considerare la persona con un livello morale inferiore rispetto agli altri.  Ciò potrebbe indurre allo sfruttamento? Eppure, l’idea di eguale rispetto non è il principio  giustificativo della democrazia? Valeria Ottonelli articola quest’ultimo quesito in una riflessione  che comprende tre punti: democrazia, giustificazione e eguale rispetto per le persone. Anzitutto,  affinché l’ideale di democrazia sia una forma di governo rispettosa, bisogna tener presente la  sua caratteristica: l’eguaglianza politica intesa come eguale partecipazione. Il principio  dell’eguale rispetto serve da giustificazione dell’eguale partecipazione. Il contenuto, non le  ragioni, dell’eguale rispetto esprime il trattare gli altri come “egualmente capaci di essere agenti  in senso pieno” (p. 156). Come può tale principio giustificare l’eguale partecipazione? Ottonelli  parla di tre interpretazioni sulla democrazia che si riferiscono a tre livelli di agency che delineano  diversi gradi di inclusività, per così dire, dal più basso al più alto: il primo è inerente alle capacità  delle persone di essere dei promotori di fini; il secondo considera le persone capaci di essere  pienamente agenti morali; il terzo presume che le persone siano capaci di essere agenti morali  responsabili. Il rapporto tra eguale rispetto e partecipazione politica dipende dalla concezione di  agency adottata dalle diverse teorie delle istituzioni democratiche. Peter Jones, tuttavia, fa  notare ai presenti come sia problematico estendere il discorso dell’eguale rispetto all’arena  internazionale e come esistano poche teorie in merito alla tolleranza internazionale piuttosto che  intra-nazionale. La tolleranza è invocata spesso dagli Stati per prevenire le conseguenze  dell’intolleranza. Eppure il richiamo alle conseguenze significa legare il concetto di tolleranza alla  contingenza e di per sé non è un argomento che tiene dal punto di vista morale. Jones afferma  che l’appello alla tolleranza dovrebbe essere fondato sullo status delle persone, le quali nel  contesto internazionale andrebbero viste come gruppi collettivi, non un’associazione di popoli  alla Rawls. Questo perché una rivendicazione collettiva afferma congiuntamente le individualità  di coloro che compongono il gruppo in modo tale da attribuire ad ogni individuo uno status  morale, non un’identità di gruppo. In altri termini, un popolo non esprime un’unità. Tollerare  culture diverse non vuol dire emettere un giudizio in merito ma implica “l’obbligo di rimetterci  alle loro credenze e desideri” (p. 191). Tuttavia, come può lo status morale delle persone  misurarsi con istituzioni politiche che promuovono l’ineguaglianza? E se fossero le stesse persone  ad aderire ad un status ineguale, quali ragioni dovremmo avere per tollerarle? Le ragioni si possono ricondurre all’idea di rispetto che è solo “una fra le tante considerazioni a cui dovremmo  dare peso nel decidere che cosa dovremmo fare” (p. 196). 

La conversazione filosofica tra questi autori sta per concludersi, ma immaginiamo che  all’improvviso uno di loro si metta a ridere semplicemente perché trova un atteggiamento o un  atto degli altri comico. Con l’atto del ridere sta mancando di rispetto nei confronti dei suoi  interlocutori? E quest’ultimi si sentono derisi? L’umorismo potrebbe essere una minaccia per l’eguale rispetto? Esso, ritiene Elizabeth Telfer, è ciò che è fuori del senso di appropriatezza e in  molte situazioni può essere interpretato come un non-rispetto, soprattutto in ambito pubblico,  ma in altre può essere visto come una tutela dell’eguale rispetto.  

Il dialogo lascia al lettore le seguenti questioni aperte: come può il rispetto, nelle parole di Veca,  diventare un ideale politico e morale per la vita democratica? Le risposte al quesito “perché  l’eguaglianza” possono dare risposte univoche all’interrogativo “eguaglianza di che cosa”? In  termini generali, il problema legato al rispetto è quello di formulare categorie e analisi per la  diversità, si potrebbe dire, reciproca. Dopotutto, Fernando Pessoa scriveva: “La costante  trasformazione di ogni cosa avviene anche nel nostro corpo e, di conseguenza, anche nel nostro  cervello […] Essere coerenti è una malattia, un difetto atavico, che forse risale all’epoca degli  animali preistorici, al cui stadio evolutivo una tale disgrazia sarebbe del tutto naturale” (F.  Pessoa, Cronache della vita che passa [1915], a cura di P. Collo, Passigli Editori, Firenze 2008,  pp. 29- 30).

13/07/2008
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