Alla ricerca di una «scienza politica nuova». Liberalismo e democrazia nel pensiero di Alexis de Tocqueville

R. Giannetti (Rubbettino Editore, 2018)

Qual è il senso politico del rileggere Tocqueville? Quando scrisse La democrazia in America un  mondo nuovo gli si stava schiudendo davanti, un mondo ‘rivoluzionato’, in cui alla struttura sociale  aristocratica andava sostituendosi una struttura sociale democratica. Tocqueville aveva osservato la  democrazia muovere i primi passi e, con il vantaggio di chi vive al confine tra due mondi, aveva  potuto intravederne le virtù e analizzarne i problemi. Convinto di non poter tornare indietro al  vecchio mondo aristocratico, cui pure apparteneva per nascita e formazione, si trovava però di  fronte a un bivio «tra una società democratica, la quale progredisce senza grandezza ma con ordine  e moralità, e una democrazia disordinata e depravata» (p. 57). Siamo davvero in grado di  intravedere questo bivio nelle nostre società democratiche? O forse pensiamo che troppo sia il  tempo che ci separa da Tocqueville, che troppa sia la nostra esperienza democratica, e che la  democrazia si mantenga da sé come le cose eterne? Se così fosse, la lettura di questo libro, e di  Tocqueville, sarebbe perfettamente inutile. Ma se invece consideriamo reale il bivio di Tocqueville,  possiamo chiederci: è possibile attualizzare il suo pensiero, restandogli fedele e pur facendone una  risorsa utile per risolvere le difficoltà che attraversano le nostre liberal democrazie? Giannetti  ritiene di sì, e anzi, ricostruisce il pensiero di Tocqueville e i temi della Democrazia in America riprendendo «quella tradizione di studi che ha individuato in quest’opera un testo fondamentale del  pensiero liberaldemocratico moderno, in cui per la prima volta viene messo a fuoco il trade-off tra  libertà ed eguaglianza con l’intento di ricercare le soluzioni al problema della loro difficile  coesistenza» (p. 38). 

Il punto di partenza dell’autore nella sua lettura di Tocqueville è la distinzione tra due concetti di  democrazia alla base della Democrazia in America, già individuata da J. S. Mill. In un primo senso,  con democrazia si intende democrazia politica, basata sul suffragio universale, rappresentanza e  regola della maggioranza. In un secondo senso, democrazia significa assetto sociale caratterizzato  da «eguaglianza delle condizioni»: in democrazia non vi sono infatti aristocrazie cui venga  riconosciuta una superiorità di status. Viceversa, ognuno possiede gli stessi diritti e la medesima importanza sociale; e la mobilità sociale rende le differenze di reddito e di potere, che pure  continuano a esistere, modificabili e pertanto non discriminanti ai fini dell’eguaglianza. Stabilire  una distinzione tra i due concetti di democrazia consente anche di stabilire delle relazioni tra di loro.  La democrazia come assetto sociale, scrive l’autore, si sarebbe portata dietro la democrazia come sistema di governo, poiché istituzioni basate sull’ineguaglianza politica in un mondo in cui ognuno  ha la medesima importanza non sarebbero state più giustificabili. 

L’«eguaglianza delle condizioni» era, per Tocqueville, un punto dal quale non si sarebbe potuto  tornare indietro e che aveva piuttosto i caratteri del «fatto provvidenziale» (p. 40): il futuro sarebbe  stato democratico, restava da capire in che modo. Tocqueville aveva di fronte a sé due diversi  esempi di democrazia: da un lato, nella sua Francia post-rivoluzionaria, il rischio era di restare  fermi a «una democrazia disordinata e depravata»; dall’altro, l’America assurgeva a esempio di  come la democrazia potesse essere un buon sistema di governo, di come i problemi che l’assetto  sociale democratico pure creava si potessero gestire attraverso un insieme di costumi e istituzioni  che lì aveva visto interagire armoniosamente e virtuosamente. 

Ma quali sono i problemi creati dall’«eguaglianza delle condizioni»? Una larga parte di essi sono  riassumibili per l’autore nei concetti di individualismo e di «tirannia della maggioranza».  L’individualismo, al contrario dell’egoismo che costituisce un tratto antropologico, è un fenomeno  tipico dell’età democratica e consiste nella chiusura delle persone nella propria dimensione privata,  ovvero nella tendenza a isolarsi dalla società. L’individualismo non è soltanto un sottoprodotto  dell’assetto sociale democratico, ma – come viene accennato nel libro – viene rinforzato dal  progresso economico, e si combina con il materialismo e le passioni economiche. Del resto, al  tempo di Tocqueville, già Benjamin Constant aveva ricordato come il ritiro nei propri interessi  privati costituisse un’ampia parte dell’orizzonte dei moderni. 

Il concetto di «tirannia della maggioranza» viene affrontato più ampiamente: l’autore vi dedica il  capitolo terzo. La «tirannia della maggioranza» non è solamente la concentrazione dei poteri nel  legislativo e quindi nella maggioranza parlamentare che si afferma di volta in volta, la quale potrà  «uscire dai limiti della giustizia e della ragione» (p. 226), minacciando direttamente la libertà degli  individui. Nella sua accezione più originale, «tirannia della maggioranza» significa «tirannia  dell’opinione». Infatti, in democrazia, il principio di autorità non risiede più nelle aristocrazie  intellettuali, di nascita, religiose, ma in ogni individuo allo stesso modo. Di conseguenza, il vuoto  lasciato dal principio di autorità viene riempito dall’opinione comune, che consiste in «una specie di  gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelligenza di ciascuno» (p. 244). L’autore descrive  tale fenomeno psicologico attraverso un confronto tra Tocqueville e James Bryce, il quale in The  American Commonwealth aveva anch’egli fornito un ampio affresco della democrazia americana: con il senso della propria eguaglianza si sviluppa il senso della propria insignificanza e diviene  difficile rivendicare autorità per la propria opinione. L’apatia politica – o meglio, il senso di  impotenza che vediamo così diffuso nelle nostre società democratiche – ha qui le sue radici. Ma non  solo. Anche la «tirannia della maggioranza» intesa come strapotere della maggioranza ha le sue radici nella «tirannia dell’opinione». Come scrive Tocqueville, «non è verosimile che, godendo tutti  delle medesime conoscenze, la verità non stia dalla parte del numero maggiore» (p. 243). La  «tirannia dell’opinione» legittima quindi la «tirannia della maggioranza»: se l’autorità è in ognuno  allo stesso modo, risiede tanto più nel numero maggiore.  

Il culmine di tali fenomeni, che si rafforzano tra di loro, è il ritiro dei cittadini dallo spazio pubblico.  Nel momento in cui essi si ritirano, rendono però probabile l’avvento di un dispotismo – il «potere  immenso e tutelare» e nondimeno «minuzioso, sistematico, previdente e mite» (p. 60) – che si  occupa di pensare per loro la libertà politica. Il pericolo del dispotismo è un argomento classico dei  pensatori liberali, non per ultimo di Kant, il quale al governo pensato «per esseri umani capaci di  diritti» aveva opposto il governo paternalistico, che decide al posto dei cittadini la maniera in cui  essi devono essere felici e costituisce «il più grande dispotismo pensabile». 

Di fronte a questi problemi posti da un «mondo completamente rinnovato» e da cui era impossibile  tornare indietro non si poteva che tentare la strada di «una scienza politica nuova» (p. 30): è questa  qualità del pensiero di Tocqueville su cui Giannetti mette l’accento, ovvero la sua originalità, il suo  combinare varie tradizioni di pensiero in una sintesi coerente per riuscire a essere all’altezza delle  sfide che l’assetto democratico poneva. 

Esemplare è in questo senso la posizione di Tocqueville verso la democrazia. Come i liberali  aristocratici, egli non considerava la democrazia politica il miglior sistema decisionale, né ne era  entusiasta. Diversamente da essi, tuttavia, non vedeva con sfavore l’estensione del suffragio:  Tocqueville accettava la democrazia “in blocco”, «razionalmente», scrive l’autore. La democrazia  politica era, infatti, per Tocqueville l’unico rimedio che avrebbe potuto risolvere i problemi posti  dall’assetto sociale democratico. Solamente l’esercizio democratico avrebbe potuto ostacolare  l’individualismo, la «tirannia della maggioranza» e tutte le passioni che caratterizzavano l’uomo  democratico. In definitiva – e in ciò consiste la tesi principale del libro – «per combattere i mali che  l’eguaglianza può produrre, c’è un solo rimedio efficace: la libertà politica» (p. 41). Tanto più se  l’assetto sociale è democratico, non è possibile limitarsi a godere della libertà, ma è necessario  esercitarla e realizzarla. 

Come scrive l’autore, nella democrazia americana Tocqueville aveva visto proprio una particolare  concezione di libertà politica, che ne caratterizzava costumi e istituzioni e gli impediva di slittare  verso il dispotismo. Non era solo merito della costituzione americana, caratterizzata da una struttura  federale, separazione ed equilibrio dei poteri e un forte potere giudiziario (a quest’ultimo, data la  sua importanza, Giannetti dedica l’ampio e dettagliato capitolo secondo). La costituzione  americana, per quanto congegnata magistralmente in maniera da favorire il pluralismo e contrastare  le tendenze accentratrici del potere politico, non era sufficiente. Secondo Tocqueville, scrive Giannetti, «in epoca democratica il vero argine nei confronti del dispotismo è costituito  dall’esistenza e dalla vitalità di uno spazio pubblico che si interpone tra la sfera privata e la sfera del  governo» (p. 62). Con l’espressione “spazio pubblico” l’autore intende la sfera intermedia tra «gli  istituti della democrazia rappresentativa a livello dello Stato centrale» e «la sfera privata che  riguarda l’attività dell’individuo singolo, la cerchia degli affari e degli affetti domestici» (p. 65). Da  un lato, la società americana era caratterizzata da un alto livello di associazionismo volontario, che  nessun potere politico sarebbe stato capace di sostituire. Gli americani si associavano  volontariamente non solamente per interessi politici, ma anche per interessi economici, religiosi e  per i più svariati scopi. Dall’altro, gli americani partecipavano nelle giurie popolari e nelle  istituzioni decentrate. Qui, a differenza della partecipazione richiesta al livello federale, potevano  apprendere una cultura politica pratica, occuparsi direttamente di ciò che li riguardava da vicino,  scorgere il legame che sussisteva tra interesse particolare e interesse generale. Ogni governo  dispotico ha bisogno che i cittadini si ritirino nei propri interessi privati, di modo che possa  sostituirsi a essi, ottenere da loro una delega incontrollata. Partecipando nelle istituzioni municipali,  nelle giurie popolari, e associandosi liberamente – l’associazionismo era per Tocqueville, nei paesi  democratici, «la scienza madre» – i cittadini potevano contrastare l’individualismo, occuparsi  dell’interesse generale e così impedire l’avvento del dispotismo. Lo “spazio pubblico” così inteso – come un luogo che non è quello della nostra libertà privata né quello della partecipazione richiesta a  un livello federale – caratterizzava la libertà degli americani. 

Differentemente da quei teorici liberali che subordinano la libertà politica a quella privata, nel caso  di Tocqueville le “due libertà” si tengono assieme in una concezione di libertà unitaria e complessa  che si compone di sfera privata, libertà politica a livello federale e “spazio pubblico”. Dunque  Giannetti ci restituisce l’immagine di un Tocqueville liberale, e tuttavia, per sua stessa definizione  «un liberale di una specie nuova» (p. 30). Questa interpretazione di Giannetti lo avvicina di fatto  alla sensibilità repubblicana – che insiste sulla libertà politica, sulla necessità di «salvare il  cittadino» per «rispettare l’individuo» (p. 74) – e, senza cadere in sterili esercizi di riduzione,  all’umanesimo civico, che considera l’esercizio democratico come una «condizione necessaria non  solo per la conservazione delle altre libertà, ma anche per l’elevazione morale e civile  dell’individuo» (p. 99). 

Un altro tema rilevante che Giannetti affronta nel volume, e in particolare nel capitolo quarto,  dedicato al ruolo della religione nelle società democratiche, è il rapporto tra l’assetto sociale  democratico e il legame sociale. L’assenza di legame sociale rende infatti difficile concepire la  stessa comunità politica e quale esso debba essere costituisce un nodo irrisolto delle nostre società  democratiche. Quale legame sociale delinea Tocqueville? Egli partiva dalla condizione democratica e riteneva che, dati i problemi che poneva – in primo luogo, la chiusura delle persone nei propri  interessi privati – un «interesse bene inteso» fosse l’unico legame in grado di imporsi. Lungi dal  concepire l’ordine politico come somma di interessi, la dottrina dell’«interesse bene inteso» esige  che, pur partendo dal proprio utile individuale, lo si sacrifichi spesso. Gli individui, perché si  realizzi ciò, devono essere capaci di intendere il proprio interesse in maniera non immediata, bensì  ampiamente, allargato sino a comprendere il benessere comune o una soddisfazione maggiore  differita nel futuro. 

Come argomenta l’autore, secondo Tocqueville tale legame sociale non può fare a meno del legame  religioso: la democrazia ha bisogno della religione. Al contrario di J. S. Mill, il quale riteneva  possibile una «religione dell’umanità», Tocqueville era convinto che l’ordine cognitivo e morale  non potessero basarsi sulla ragione e avessero bisogno di una conoscenza dogmatica, come la  religione storica. La specificità delle istituzioni americane era quella di essere congegnate in maniera tale da mettere costantemente sotto gli occhi dei cittadini la loro reciproca dipendenza, in  modo da far loro contrarre l’abitudine a connettere interessi privati e interesse generale, ma solo la  religione, veicolando doveri per gli uomini, poteva tirarli fuori dal proprio individualismo e  garantire quindi l’esistenza dello stesso legame sociale che Tocqueville aveva visto in America. 

Ancora più centrale è il rapporto che esiste tra la democrazia e la progettualità politica. Con la  mobilità sociale, complemento necessario dell’eguaglianza sociale, l’orizzonte di appagamento dei  desideri diviene il medesimo per tutti. Il problema è che «in mezzo a questo continuo fluttuare della  sorte, il presente prende corpo, ingigantisce: copre il futuro che si annulla, e gli uomini non  vogliono pensare che al giorno dopo» (p. 340). Nell’età democratica gli individui hanno un rapporto  problematico con il tempo. Il tempo del cittadino democratico è il presente, ovvero il tempo della  realizzazione immediata dei suoi molteplici – mutevoli, finalmente appagabili – desideri. In  democrazia, il futuro, il tempo di cui ha bisogno la politica, scompare drammaticamente. Giannetti  sottolinea questo aspetto come il motivo irriducibile per cui, nell’opera di Tocqueville, la religione è  necessaria alla democrazia. Per comprendere una tale posizione basti pensare alle difficoltà che  incontriamo come cittadini di stati liberal democratici nel percepire l’urgenza del cambiamento  climatico – al di là del nostro senso di impotenza. La religione ci permetterebbe di allargare la  prospettiva dal “qui e ora” e di vedere quali costi insostenibili stiamo scaricando sulle generazioni  future e le regioni più esposte. Come scrive Giannetti, essa ha la capacità «in virtù della sua  dimensione metafisica, di ispirare negli individui il senso del futuro» (p. 364), di unire la comunità  in un destino comune nelle generazioni, tirare fuori le persone dall’individualismo in cui esse sono  chiuse. 

Differentemente da Rousseau, il quale aveva escogitato una «religione civile» per rafforzare il  legame tra l’individuo e la comunità, l’autore della Democrazia in America riteneva che la religione dovesse restare separata dall’ordine politico, esercitare su di esso un’influenza indiretta, perché i  due ambiti potessero rafforzarsi a vicenda e non avvilirsi. Tuttavia, come sottolinea bene Giannetti,  se una religione vuole essere utile alla democrazia deve curarsi di autoimporsi limiti «per riuscire a  sopravvivere nelle epoche democratiche» (p. 384). Essa non può sradicare dalle società  democratiche l’amore per il benessere materiale, né contrastare veementemente le opinioni della  maggioranza, senza uscirne indebolita. Diviene difficile tenere assieme tali limiti e l’alterità della  religione, che pure è il motivo per cui essa sarebbe utile nel contrastare le passioni democratiche.  Per questo, sostiene l’autore, con Tocqueville non possiamo risolvere il problema di quale posto  debba avere la religione nelle società democratiche (né quindi risolvere i nodi che Tocqueville  sperava di risolvere con la religione), ma possiamo certamente iniziare a porlo da una prospettiva  realistica – più realistica rispetto a quanto abbiano fatto Rousseau o Mill. 

Questo è anche il merito principale del libro, che non è solo un’interpretazione del pensiero di  Tocqueville né una presentazione della “soluzione” americana, ma soprattutto una risorsa utile per  chi vuole affrontare i problemi che sussistono nelle società democratiche in una maniera realistica,  per chi non vuole continuare a considerare il modello liberaldemocratico come modello  autosufficiente, senza vederne le dinamiche sociali sottostanti e le condizioni che lo rendono  realmente funzionante. 

25/05/2018
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